Il castello sul fiume Bega e la torre del rammarico imperituro

Duecento anni sono un periodo piuttosto lungo, soprattutto da passare all’interno di una singolare rovina nella periferia di Ečka. L’ombra della stari vodotoranj, vecchia torre dell’acqua, si allungava come quella di una meridiana, ormai, mentre l’ora del vespro si faceva progressivamente più vicina e la musica del pensiero iniziava a risuonare nell’aria tersa del Banato, antico territorio a cavallo di Serbia, Romania e Ungheria. Il fantasma del primogenito del conte Lazar Lukač volse lo sguardo al di là delle sottili merlature del suo cadente “castello”, verso le terre fertili un tempo appartenute al villaggio pannonico di Lukino Selo. Un insediamento formatosi in maniera analoga, e nello stesso luogo in cui un tempo furono piantate le tende dell’orda di Attila il Flagello di Dio, per preciso volere del suo stesso padre, trasferitosi nella regione dal suo feudo in Transilvania, verso la fine dell’anno del Signore 1785, con un copioso investimento presso la corte dell’Imperatore Viennese. Ma di Egli non v’era più alcuna traccia, in questo luogo, come appariva chiaro per l’effetto della sua maledizione. Vita eterna, e irrimediabile espiazione del peccato più terribile su questa Terra: quello di aver ucciso, in uno scatto d’ira, il suo stesso fratello.
Egli non riusciva, dopo tutto questo tempo, a ricordare cosa esattamente avesse suonato il giovane genio, un ragazzo di appena 9 anni destinato a diventare, entro il giro di mezza generazione, “il” Franz Liszt, un musicista giudicato degno di rivaleggiare con l’immortale Amadeus. Tempi lieti di un’epoca di pace, quando persino gli esponenti della potente famiglia nobiliare degli Esterházy venivano a corte da suo padre assieme al gotha di tutta la Serbia e l’Ungheria, per poi lanciarsi al galoppo in tracotanti e gloriose cacce tra i boschi della Voivodina. Come quella durante la quale due membri dello stesso sangue, rabbiose controparti di una disputa sul possesso di bestiame, entrarono tra gli alberi in totale solitudine. E ne ritornò soltanto uno, col coltello insanguinato ed un rimorso privo di confini. Assai grama gli sarebbe apparsa la sua stessa vita, a partire da quel fatidico giorno… Meditando sugli eventi, il fantasma senza nome cominciò a discendere le scale all’interno della torre ottagonale, un residuo marcescente che probabilmente avrebbe ceduto immediatamente sotto il peso di un corpo vivente. Con uno sguardo sfuggente ai graffiti tracciati sulle mura secolari, attraversò il portone della torre nell’unico giorno in cui gli fosse consentito. Il secondo centenario della grande festa del 1820, quando tutto era iniziato. E finito, al tempo stesso.
Il gorgogliante canto del fiume accompagnava i suoi passi, mentre sul lato destro si profilava l’alto campanile della Chiesa Cattolica di Giovanni Battista, principale luogo di culto di quella cittadina, che si diceva avesse preso il nome della figlia, o moglie di Attila stesso, morta di malaria causa le paludi che un tempo si estendevano in questo disabitato territorio sul confine europeo. Ma lui continuò a camminare, fino alla facciata del castello chiamato Kaštel, proprio perché avrebbe dovuto rappresentare, nell’idea paterna, la perfetta ricostruzione di un maniero per la caccia di concezione inglese, con la sua pianta rettangolare prima che i successivi proprietari la cambiassero nella forma di una “L” dell’alfabeto latino.
La statua commemorativa era lì ad attenderlo e fissarlo, naturalmente. Suo fratello minore immortalato col bastone da passeggio, assieme al cervo che l’aveva accompagnato all’altro mondo; la cornuta bestia di quel Sant’Uberto, manifestazione terrena del divino, con la croce tra le corna, che uno scultore determinato aveva posto tra le sue gambe. Ma oggi, stranamente, mancava all’appello! Per una missione da portare a termine, prima di ritornare a correre tra i boschi dimenticati…

Il castello di Ečka viene oggi considerato un esempio di monumento storico aggiornato e ripristinato per trovare un utilizzo ai nostri tempi. Non altrettanto bene, del resto, è andato ad altri edifici del suo complesso, come la pericolante stari vodotoranj.

Lazzaro: un nome, un destino. Volendo osservare momentaneamente con inclinazione critica dei nostri giorni il maniero, la chiesa e le vecchie rovine della cittadina serba di Ečka, appare estremamente chiaro come il nobile in trasferta avesse scelto di ultimare la bonifica del territorio al fine di “resuscitare” l’orgoglio ed il coraggio delle povere genti ungheresi ed armene, raccolte nell’area circostante per servire come operai, giardinieri, agricoltori in subappalto secondo il sistema medievale di attribuzione delle terre… Fino alla costituzione, accanto al villaggio di Lukino Selo, di un polo culturale dall’opulenza impareggiabile in tutto il Banato, degno di accogliere generazioni successive di Re ed Imperatori. E quali maestose figure, avrebbero soggiornato tra queste mura! Alessandro I di Jugoslavia (1888-1934) in viaggio verso i Balcani con il suo aeroplano personale, per guidare la sottomissione e conquista del Montenegro. E l’arciduca Francesco Ferdinando (1863-1914) in persona, poco prima dell’attentato di Sarajevo dove avrebbe perso la vita, finendo per scatenare il più grande conflitto che il mondo avesse mai conosciuto fino a quel drammatico momento. Tutto ciò parecchi anni dopo, s’intende, la morte di Lazar Lukač e di entrambi i suoi figli, nonché l’acquisto del maniero da parte della facoltosa famiglia del conte Felix Ornonkur nel 1870, che ne avrebbe ampliato la superficie abitabile, migliorato i solai e decorato i giardini con una celebre fontana, la cui scultura originale di terracotta si trova oggi nel museo interno del vecchio Kaštel. Senza toccare, tuttavia, la statua in bronzo del cacciatore con il cervo ai piedi presente in giardino, accompagnata da una placca che lodava i meriti dell’amore fraterno, sottolineando l’importanza di custodirne le implicazioni fino al giorno ultimo della propria esistenza in Terra. Ed anche dopo, in certi casi assai meno frequenti…
Successivamente ai terribili conflitti del Novecento, la famiglia degli Ornonkur cadde quindi nel disastro delle sue finanze, trovandosi costretta a vendere molte delle sue proprietà meno indispensabili ereditata assieme al titolo dei propri insigni predecessori. E fu così che il castello, diventato una proprietà temporanea del demanio di Stato, venne concessa alla società alberghiera di Belgrado, Universal. Che con a fronte di una costosa e completa opera di restauro, riuscì finalmente a farne un hotel.

Durante una visita per il canale I love Zrenjanin, l’inviato mostra il vecchio pianoforte nella sala principale del Kaštel. Possibile che si tratti, davvero, dello stesso immortale strumento?

“Come cambiano le cose materiali, col trascorrere degli anni.” Esclamò tra se e se il fantasma, mentre s’inoltrava tra i tavoli variopinti, seguendo il suono ammaliante della musica di pianoforte del vecchio e intramontabile Franz Liszt, che come al compiersi dei precedenti 100 anni, il fantasma scorse nell’inquadratura di una finestra del piano terra, intento a suonare con enfasi lo stesso strumento di allora. E con sua sorpresa, capì gradualmente come l’ectoplasma con la giacca a due code sopra lo sgabello non fosse affatto quello dello stesso bambino conosciuto la volta scorsa, bensì, forse, la manifestazione pienamente cresciuta della stessa persona? Possibile, che lo spirito adulto del grande compositore, ovvero forma immortale della sua presenza ultraterrena, avesse scelto di trascorrere la notte presso il castello di suo padre?
Pensierosamente, il fantasma attraversò quindi la parete del familiare maniero, cercandone il volto per confermare l’improbabile sospetto. Proprio mentre una forma agile e scattante, ai margini del suo campo visivo, s’insinuò tra i mobili per poi balzare sulla sontuosa tavola dei banchetti, e fissarlo. Era un cervo di bronzo, animato dal sussurro ed il sentore di un surreale desiderio. La musica cessò mentre il pianista iniziava a voltarsi, con un volto reso quasi trasparente dal passare delle generazioni. E una voce risuonò, nella profonda tenebra incipiente: “Buona sera, fratello. Ho avuto tempo per fare pratica, sai. Moltissimo… Per caso, c’è qualcosa che vorresti dirmi?”

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