La storia mitologica della seconda colonia della Magna Grecia in Italia, dopo l’antica città di Ischia, ha origini nel fuoco eterno che domina gli strati superiori del cielo terrestre. Quello emanato dall’astro solare del dio Apollo, che arde implacabile sopra i fiumi, le montagne, le valli e le ali di cera. Quelle d’Icaro e suo figlio Dedalo, in fuga disperata da un oscuro Labirinto e l’ivi contenuto irsuto uomo-belva, contrassegnato dalle aguzze corna che convengono a un furente Minotauro. Così come il padre, sfortunatamente pieno di quella stessa hubris (tracotanza) che fu la condanna d’innumerevoli e ben più possenti eroi, raggiunse un’altitudine abbastanza significativa da vedersi sciogliere l’ingegnosa tentativo di dominare i cieli, rovinando verso il suolo come una terribile stella cometa. Mentre il figlio, meno lieve o forse più attento a cadenzare il ritmo dei suoi battiti aviari, fece appena in tempo ad atterrare in mezzo ai monti dell’italico meridione, avendo salva la sopravvivenza e giurando a se stesso e agli Dei che non avrebbe più tentato di sfidare le catene che ci legano pesantemente al sacro suolo. Ma nei confronti di chiunque pensi che fosse possibile volgere le spalle a una così terribile esperienza, senza esserne profondamente cambiato, io consiglio di provare a scrutare nella sua anima segreta. A un tal punto profondamente toccata, per non dire quasi ustionata, da portarlo a fondare quello che sarebbe diventato il più importante tempio dedicato al dio del Sole a occidente del Mar Ionio.
Col tempo il sito crebbe d’importanza e fama, finché attorno ad esso avrebbe trovato posto un’intera comunità. Quella, per l’appunto, di Cuma. Nei pressi di un’area vulcanica che fin da un tempo ancora antecedente era stata considerata la porta d’ingresso dell’Ade stesso, fonte sotterranea dello stesso fuoco che a tal punto aveva affascinato il sangue dello stesso Icaro, e che lo stesso avrebbe fatto, un po’ alla volta, con le forti mani e i fervidi picconi dei suoi discendenti. Si dice dunque che i Greci scavarono molto a fondo, quasi freneticamente, trovando infine quella dimensione chtonia che nei secoli a venire avrebbe costituito la principale base, nonché pilastro economico, della fortuna di questa celebre città. Perché non tutto ciò che ha a che vedere con Apollo è splendido e magnifico, particolarmente quando risulta essere l’ultima e più grave conseguenza di uno sfortunato patto tra il mondo degli uomini e il pericoloso regno del Divino: “Accetta di amarmi, sinuosa, profetica sibilla, ed io ti prometto in questo giorno: tu riceverai una vita tanto lunga quanto i grani di sabbia che riuscirai a stringere tre le tue mani” Rispose quindi la sacerdotessa, dell’antica stirpe dedicata al culto diurno del divino, certo mio signore, come potrei mai rifiutarmi? (E di sicuro non poteva!) Ma poiché ella era vergine e pia, secondo alcune versioni della storia fece subito dopo voto di castità, suscitando l’ira funesta del figlio di Zeus: “Ricordi il nostro accordo, vero? Non mi sembra avessimo parlato ANCHE di eterna giovinezza…”
E fu così che la Sibilla Cumana iniziò a invecchiare. Per 100, 200, 700 anni dei mille concessagli dal dio, finché la ritroviamo descritta nell’Eneide di Virgilio, quando il principe dei Dardani, dopo aver abbandonato l’amata regina Didone, giunse qui per conversar coi morti e ricevere l’amara profezia del suo futuro. “Orrenda” nelle parole dello stesso poeta, quando invasata durante la produzione di un un vaticinio perdeva il controllo delle sue antiche membra, ma anche abbastanza mostruosa da vivere lontano dal consesso del sommo tempio. Entro le più oscure viscere del sottosuolo, dove il suo corpo distorto e rinsecchito non poteva offendere lo sguardo dei comuni mortali. Oh, se soltanto potesse scrutare per un attimo all’interno di così profonde, misteriose, immote gallerie…

Quale fosse l’effettivo antro della Sibilla, per quanto ci è dato di comprendere ad oltre 25 secoli di distanza, non ci è particolarmente semplice. Sebbene all’archeologo Amedeo Maiuri, nel 1932, fosse venuta un’importante idea. Quella di scavare finalmente, dopo tanto tempo trascorso tra le rovine rimaste dell’antica Cuma, al di là di un forno di epoca romana, rimuovendo gli strati sovrapposti del cumulo di detriti derivanti dal trascorrere dei millenni. Per trovare una profonda e arcana galleria, per certi versi affine a quella già nota del Cocceio, lunga un chilometro e che essendo stata costruita per scopi difensivi, probabilmente durante le guerre civili di Ottaviano Augusto, collegava invece il cratere stesso del lago Averno al centro della città di Dedalo atterrato in Italia. Ma che aveva, rispetto ad essa, una fondamentale differenza: l’apparente, pressoché totale inutilità. A meno che… Ora tralasciando il punto di vista virgiliano, che poeticamente definiva l’arcana grotta come un letterale vuoto della montagna traforata da cunicoli, attraverso cui la profetessa faceva trasportare via dal vento le foglie di palma coi propri vaticini (ve l’immaginate organizzare una cosa simile?) Mauri basò la sua ipotesi principalmente sulle descrizioni successive di un tale luogo del potere, politico e religioso, come quella offerta nell’Alessandra di Licofrone (III sec. a.C.) poema sull’omonima profetessa figlia di Priamo, o addirittura fonti successive alla nascita di Cristo quali il filosofo Giustino martire (100-167) che narravano di come i postulanti in cerca di una lettura del loro Fato fossero accompagnati nel sottosuolo, per sostare quindi in attesa dentro un’anticamera scavata nella nuda roccia dei monti sibillini. Camera presente, per l’appunto, nella grotta in questione sebbene il soffitto sopra il sedile appaia un po’ troppo basso perché sia possibile definirlo propriamente “a misura d’uomo”. Mentre il resto della galleria, di origine chiaramente artificiale, si presenta col suo stile architettonico e la volta di forma trapezoidale, con la grandiosità evidente di un ambiente dedicato al culto sacro come un cupo di benvenuto tra i confini del regno dei misteri. La galleria quindi, non più lunga di 131 metri, presenta numerose diramazioni per lo più instradate verso vicoli ciechi, fatta eccezione per i tre ambienti simili a cisterne sotterranee che probabilmente trovarono quest’uso in epoca romana. Ed almeno un terrazzamento, dove forse un tempo trovarono posto ponderose macchine d’assedio. Ma è senz’altro il piccolo e più antico ambiente suddiviso in tre stanze, detto in greco oíkos endótatos (stanza oracolare) ad aver costituito la maggior ragione d’interesse da parte delle molte ricerche archeologiche e filologiche condotte nel corso del ‘900. Poiché si credeva che proprio in tale oscuro recesso, tra il silenzio reverenziale degli spettatori, la sibilla pronunciasse le parole che l’avrebbero trasformata nel tramite terrestre del suo dio, fonte vendicativa d’immortalità. Graffiti cristiani, tracciati in epoche successive, lasciano sospettare che la catacomba fosse stata usata in seguito come sepolcro o cripta, mentre segni ben più misteriosi e di epoca incerta hanno portato ad alcune ipotesi sul fatto che le pareti della grotta fossero state usate come una sorta di calendario lunare.
Il seguito della storia, per come la narra Ovidio nelle sue Metamorfosi (8 d.C.) è piuttosto triste e privo di alcun tipo di rivalsa. Poiché confinata sotto la dura roccia e molti metri di terra, la Sibilla Cumana continuò a indebolirsi e rimpicciolirsi, finché non assunse la proporzioni di una contorta cicala. Intrappolata quindi all’interno di una bottiglia per l’opera dei suoi colleghi ingrati, diventò infine polvere, continuando nonostante questo a subire la maledizione di Apollo. Così per molti anni ancora, la sua voce avrebbe riecheggiato nelle occulte sale, alternando le condanne o promesse di gloria futura, come anelli di quella catena senza fine che è la hubris, eterna dannazione di uomini e Dei.

E che dire di Enea, che “Finalmente scampato ai pericoli del mare” poco prima di varcare i confini dell’Ade, ove avrebbe conosciuto il peggio e il meglio di quella terra oltre a incontrare il padre defunto, sarebbe stato introdotto ai misteri del suo stesso futuro dall’orribile sacerdotessa? “Vedo guerre, tremende guerre, ed il Tevere spumeggiante di molto sangue. Non ti mancheranno Simoenta, Xanto e accampamenti dorici. C’è un altro Achille partorito nel Lazio, anch’egli nato da una dea. Tu non cedere ai mali, ma fiducioso avanza, finché la tua sorte te lo permetterà.”
Come solennemente profetizzato, giunto infine nella terra latina dove la sua stirpe avrebbe dato i natali alle genti di Roma, l’eroe troiano avrebbe combattuto. E combattuto ancora, contro gli Etruschi e i Rutuli della Liguria, conoscendo solamente le battaglie fino al giorno in cui, durante un conflitto presso il fiume laziale del Numico sarebbe finalmente stato assunto nell’Olimpo celeste, trovando la serenità nel regno degli dei. Ma quanto avrebbero potuto fare, ancora, i suoi discendenti… Bolidi con ali di cera, scagliati oltre i livelli fiammeggianti della stratosfera. Per la costruzione di un Impero destinato a esplodere come la furia di un vulcano. Sotto lo sguardo del divino Apollo, soltanto vagamente interessato alle tribolazioni di quei sottoposti simili a formiche, gli insignificanti e talvolta sotterranei “umani”.