Il canto millenario che riecheggia nelle grotte di Barabar

Oggetti fuori dal contesto che sembrerebbero ricollegarsi, in qualche maniera, a circostanze sovrannaturali o extraterrestri. Immaginate, a tal proposito, di fare il vostro ingresso in un ambiente sotterraneo, passando attraverso una porta in pietra finemente decorata concepita per riprendere lo stile decorativo dei templi lignei dedicati agli antichi Dei. Per trovarvi in un ambiente, vasto e quadrangolare, le cui splendenti superfici paiono la conseguenza diretta di un qualche processo di lavorazione della società industrializzata contemporanea. Dando nel complesso l’impressione ineluttabile di trovarsi all’interno di un bunker contro i bombardamenti aerei, frutto di un problema totalmente anacronistico per l’epoca in cui tale luogo venne posto in essere. Per ragioni, ahimé, largamente dimenticate…
Tra le tecnologie caratteristiche dell’India classica durante l’intero corso dell’Impero Maurya (325 – 185 a.C.) una in particolare si è dimostrata effettivamente in grado di lasciare tracce durature fino all’epoca odierna: la perfetta lucidatura delle superfici di pietra, ottenuta mediante approcci straordinariamente efficaci. Che si sia trattato dello strofinamento di pelli d’animali o sabbia, di una combinazione delle due cose o ancora la cesellatura di uno strato applicato preventivamente di arenaria ed ematite, l’effetto finale altamente riconoscibile può essere facilmente ammirato nelle svettanti colonne di Ashoka il Prediletto degli Dei (regno: 268 – 232), sovrano che aveva l’abitudine di far incidere i suoi editti nei quattro angoli del regno, sfruttando l’alta visibilità concessa da tali notevoli monumenti. Nipote del fondatore della dinastia Chandragupta e celebre per la sua politica di tolleranza religiosa, questa figura di conquistatore e legislatore tra i più importanti nella storia del suo paese viene largamente lodato con epigrafi, tuttavia, anche in un luogo più lontano dalla luce risplendente del sole indiano: le cosiddette grotte di Barabar o Marabar che dir si voglia, se volessimo seguire la traslitterazione volutamente modificata nell’importante romanzo sul colonialismo inglese Passage to India (E. M. Forster – 1924) che ne faceva un punto chiave della sua trama. Questo luogo che Ashoka concesse in dono, probabilmente durante la parte finale del suo regno, alla setta di asceti degli Ajivika, noti polemisti avversi alle religioni dominanti di Buddhismo e Jainismo, che credevano nell’assenza di divinità e il destino ineluttabile di ogni creatura. Per cui tale lascito architettonico, tra le poche testimonianze sopravvissute all’esaurirsi della loro esistenza, costituiva il luogo di culto principale ed un probabile segno di prestigio, date le eccezionali caratteristiche del territorio di partenza privo di termini di paragone. Collocate nello stato settentrionale di Bihar, grossomodo tra le due città di Gaya e Patna, lo scenario si presenta infatti fin da subito come l’eccezionale risultanza di una serie di giganteschi macigni enormi disseminati in giro da un’antica catastrofe o gigante, alcuni dei quali risultano, ad un’analisi più approfondita, caratterizzati da queste aperture geometriche chiaramente frutto della mano umana. Non tutte, ad ogni modo, sembrerebbero essere state create uguali…

Momento pressoché obbligato di qualsiasi visita alle grotte e l’emissione vocale di un poderoso Om, al fine di apprezzare l’acustica unica di tale luogo. Nient’altro che irraggiungibile, per quanto concerne luoghi di culto costruiti secondo metodologie di tipo convenzionale.

La più immediatamente memorabile delle grotte di Barabar è senz’ombra di dubbio quella di Lomas Rishi, il cui ingresso costituisce il primo esempio storico sopravvissuto fino a noi dell’arco tradizionale chaitya o gavaksha a forma di ogiva e finemente decorato con le immagini di dei o animali, tanto rappresentativo delle diverse discipline filosofiche e religiose d’India da esser diventato attraverso i secoli, mediante un processo di slittamento semantico, il sinonimo del concetto stesso di tempio. Nel caso specifico, passando sotto il bassorilievo raffigurante due gruppi di elefanti che convergono verso un’edificio simile a uno stupa, il visitatore si ritrova in uno spazio suddiviso in due stanze, la prima rettangolare di 9,86 x 5,18 m e la seconda più piccola, di 5 metri diametro concepita al fine di rappresentare una sorta di sancta sanctorum o camera preparatoria dei misteriosi riti condotti nell’oscuro ambiente, del tutto privo di punti d’ingresso per la luce addizionali, oltre alla singola porta d’ingresso scolpita nel granito. Volendo descrivere l’interno dell’ambiente con una singola parola, quindi, non sarebbe possibile trovarne una migliore che “riflettente”, sia della luce offerta da eventuali candele o torce, grazie alla natura straordinariamente liscia delle antiche ed inspiegabili pareti, che per quanto concerne eventuali suoni emessi dagli occupanti, che rimbalzano in questo spazio relativamente limitato creando un effetto eco degno dei picchi montani di lontane e sopraelevate civiltà coéve. Tale caratteristica, tra tutte, costituiva forse il tesoro maggiormente insostituibile concesso agli Ajivika, poiché in grado di donare una qualità ultramondana ai loro misteriosi canti e contemplazioni aurali dell’esistenza, prolungando di diversi secondi ogni singola nota emessa dai partecipanti alla loro sconosciuta collezione di rituali.
Lomas Rishi tra tutte le caverne, d’altro canto, costituisce anche un’eccezione per il semplice fatto di non essere mai stata finita, probabilmente a causa d’instabilità e crolli del suo soffitto a volta, mancando quindi anche di dedica nei confronti dell’imperatore Ashoka, sostituita da un’iscrizione in sanscrito molto successiva alla sua probabile datazione, che fa riferimento al sovrano del V secolo d.C. Anantavarman (figlio di Sardaula). Le altre sei caverne distribuite tra due colline, quelle per l’appunto di Barabar e Nagarjuni, dimostrano quindi le stesse caratteristiche di base inclusa la totale assenza di decorazioni all’interno, con lo stesso aspetto geometricamente privo d’imperfezioni che sembrerebbe supporre l’impiego di tecnologie particolarmente avanzate. nessuna porta d’ingresso raggiunge tuttavia lo stesso splendore di quella sopra descritta e le epigrafi all’interno fanno sempre un riferimento diretto ad Ashoka ed i “santi Ajivika” suoi protetti, a cui vennero generosamente donate. Il complesso, nella sua interezza, costituisce incidentalmente il prototipo dell’intera architettura scavata nella pietra destinata a diffondersi nei secoli successivi attraverso l’intera parte settentrionale dell’India, caratterizzando le abitudini rituali ed artistiche delle sue molte religioni. Il successivo e probabile abbandono di questo particolare sito, ad ogni modo, come testimoniato dallo stato incompleto di Lomas Rishi, può essere ricondotto ad un brusco modificarsi della situazione politica dopo l’assassinio dell’ultimo imperatore dei Maurya Brihadratha nel 185 a.C, dando inizio alla nuova dinastia Sunga molto meno tollerante verso il tipo di sincretismo che aveva permesso, fino a quel momento, la sopravvivenza della setta disallineata degli Ajivika. Di cui quello che sappiamo deriva, in larga parte, dalle accese critiche mosse da insigni buddhisti nei confronti dei presunti limiti della loro dottrina almeno abbastanza antica.

La forma delle caverne, se osservate con la giusta luce, appare totalmente antropogenica e dotata di precise finalità tutt’altro che evidenti. Non c’è nulla di superfluo, nelle sepolte stanze di Barabar…

Accantonando momentaneamente le inevitabili teorie extraterrestri, non è dunque difficile trarre un tipo di conclusione maggiormente proficua dall’esistenza di un richiamo tanto chiaramente legato al concetto di bunker sotterraneo: che non è mai il caso di sottovalutare i risultati raggiungibili mediante la semplice purezza d’intenti e costanza, attraverso lunghi anni, per non dire decadi, di lavoro. Soprattutto quando lo stesso culto di appartenenza è intrinsecamente collegato a un specifico luogo, offrendo una motivazione particolarmente valida ai propri seguaci. Importante, a tal fine, è accettare che gli antichi appartenenti a culture diverse dal cosiddetto occidente non fossero in alcun modo meno preparati o abili dei greci e romani, fondatori della cosiddetta civiltà occidentale. Uno dei messaggi forse più importanti, ed espliciti, del romanzo di E. M. Forster che tra queste mura granitiche ambientava una delle scene chiave, in cui la promessa sposa di un governatore coloniale si trovava brevemente sola con il giovane medico indiano Aziz per poi subire un malore e infortunarsi, portando i suoi connazionali inglesi a credere che avesse subito violenze di natura sessuale. Almeno finché l’uomo non viene, al termine della storia, perdonato per mancanza di prove e un’accorata difesa da parte del governatore stesso. Il che non basta d’altra parte ad evitare un conflitto tra civiltà e visioni del mondo largamente divergenti, la cui coesistenza non poteva, allora come adesso, fare a meno di creare un’ampia serie di tragiche ingiustizie. Per una verità senza tempo la cui unica soluzione possibile, come dimostrato dal grande Ashoka, era la tolleranza verso il raggiungimento di una serie di compromessi e concessioni territoriali. Ma non sempre le oscure caverne di questo mondo, per quanto vasto, possono bastare per la pletora d’idee generate dall’eterogeneo ammasso delle contrapposte mentalità umane…

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