X-15, la storia di un missile con il pilota

Appare molto significativo come nel corso della storia dell’aviazione, piuttosto che evolversi in parallelo allo sviluppo dei progressi tecnologici, il record per la massima velocità raggiunta da un velivolo con il pilota a bordo sia riuscito a prolungarsi nel tempo, restando imbattuto per periodi molto superiori a una o due generazioni di aeroplani: 37 anni, nel caso più eclatante, in funzione del particolare scopo ed obiettivo della quindicesima iterazione di un progetto, destinato a influenzare l’intero progresso tecnologico del blocco occidentale. E con questo intendo la percezione, da parte di coloro al vertice, di ciò che fosse possibile ottenere mediante l’uso di combustibile e il motore di un razzo, capace di raggiungere i 250 kN di potenza, una volta integrato in quello che poteva soltanto essere, benché non lo sembrasse, uno strumento adibito al trasporto di persone.
Verso l’ultima tra tutte le frontiere, ovviamente. Quello stesso Spazio che nel 1959 appariva ancora assai lontano, soltanto due anni dopo che i sovietici avevano dimostrato, coi loro Sputnik, la strada più efficace: costruire una letterale torre di lancio abbastanza grossa e potente da oltrepassare la curve superiori dell’atmosfera, raggiungendo la traiettoria di un’orbita che poteva essere mantenuta, letteralmente, in base alle direttive imposte dal controllo di missione. Tutt’altra cosa di quanto era stato progettato inizialmente all’altro lato dell’Atlantico, quando l’agenzia governativa all’epoca nota come NACA (National Advisory Committee for Aeronautics) presentò allo staff del presidente Eisenhower il memorandum stilato dall’ex capo del progetto nazista per i missili balistici internazionali V-2, successivamente riabilitato e considerato del tutto incolpevole di un qualsivoglia crimine di guerra. Come molti suoi colleghi, del resto, e con l’interesse diretto a rendere l’impossibile, possibile.
Eventualità come questa, lungamente secretata, di un aereo agganciato come un’arma di distruzione sotto le ali di uno o due bombardieri B-52 (ribattezzati per l’occasione “nave madre”) fino all’arrivo del segnale di partenza, a seguito del quale avrebbe scatenato tutta la sua potenza per un tempo approssimativo di tre minuti. Chiunque avesse mai pensato di vederlo dirigersi direttamente verso la pista di atterraggio, tuttavia, avrebbe avuto l’occasione di restare quanto mai sorpreso: perché i coraggiosi uomini assunti dalla futura istituzione dedita all’esplorazione del Sistema Solare e del Cosmo, per tentare di domare e in qualche maniera dare un significato a una simile “belva” avevano piuttosto istruzione di puntare il muso dritto verso l’alto, nel disegno di una traiettoria a parabola capace di sfidare lo stesso Icaro con le sue ali di cera. Verso altitudini dall’atmosfera tanto rarefatta che il metodo di controllo tradizionale, ottenuto mediante l’alterazione delle superfici aerodinamiche, non sarebbe servito pressoché a nulla, aprendo la strada a un sistema di ugelli reattivi e direzionabili (RCS) del tutto simili a quelli di un’astronave. Non che il pilota di turno, in ciascuno dei 199 voli portati a termine lungo un periodo di 9 anni, avesse molto tempo per decidere dove andare, vista la velocità raggiunta dal bolide che conteneva il suo scomodissimo sedile: fino a 6.70 volte la quella del suono, ovvero 7.274 Km/h, durante il volo condotto dal veterano della guerra del Vietnam e futuro politico della nazione William J. Knight. Una delle più alte ancora oggi e la seconda in assoluto al di sotto della stratosfera…

Il concetto originario di un velivolo capace di raggiungere l’orbita terrestre, per come lo vedevano gli americani, non avrebbe mai potuto trovare l’occasione di decollare direttamente da terra, sfruttando piuttosto la velocità di seconda mano acquisita da appositi aerei di lancio, una coppia di bombardieri B-52 modificati allo scopo. Tale visione si rivelò, in ultima analisi, superata dal razzo convenzionale Mercury-Redstone 3, capace di rendere Alan Shepard il primo americano nello spazio nel 1961.

Dal punto di vista delle definizioni, l’X-15 (nessun intrigante nome in codice per questo campione) veniva considerato un dimostratore tecnologico di come la competenza ed il know-how ereditati dagli Stati Uniti al termine della guerra avrebbero potuto permettergli, in un tempo ragionevolmente breve, di liberarsi finalmente dalle catene gravitazionali che gravavano su noi tutti fin dall’epoca del primo aeroplano di carta. A tal fine non si era badato a spese ed ogni compromesso era stato eliminato dalle linee guida e dai tavoli di progettazione: l’X-15 e i suoi quattro successori, ciascuno costruito in un singolo esemplare a partire dal 1962, presentavano una carlinga affusolata e ali cortissime, per un peso massimo alla partenza di 15.420 Kg, di poco superiore a quello del velivolo stesso più il pilota. Il quale avrebbe avuto, al termine della sortita, pochi minuti ed una singola opportunità di atterrare su una pista convenzionale, alla velocità residua di svariate centinaia di chilometri orari. Ragion per cui l’impiego di ruote convenzionali al momento del primo impatto col suolo sarebbe stato semplicemente impossibile, richiedendo l’impiego al loro posto di un solido paio di sci, la cui estrazione veniva confermata all’ultimo secondo da un aereo di scorta: qualsiasi sistema di controllo e indicazione elettronica, d’altra parte, avrebbe aumentato eccessivamente il peso complessivo dell’aeroplano. Lo pneumatico posizionato in corrispondenza del muso avrebbe quindi toccato terra soltanto una volta che la velocità era stata adeguatamente smorzata, arrestando definitivamente il bolide dei cieli.
Detto questo tra le altre cose apparirà evidente come i piloti del programma X-15 dovessero essere delle persone davvero fuori dal comune. Furono 15 in totale tra cui lo stesso Neil Armstrong destinato a diventare, soltanto qualche anno dopo, il primo uomo a poggiare i propri piedi sulla superficie della Luna. Il loro abbigliamento di missione prevedeva, per ovvie ragioni, una ragionevole approssimazione di quella che in seguito sarebbe diventata la tuta dell’equipaggio a bordo dello Space Shuttle, un indumento completamente pressurizzato e dotato di un autorespiratore totalmente autonomo dalle dotazioni facenti parte del corredo di bordo. Ad 8 di loro sarebbe quindi stato concesso di portare in seguito la mostrina più rara di tutte le forze armate statunitensi, quella di astronauta, concessa al superamento degli 80.000 metri di altitudine dal suolo. Benché per i membri civili di questo club esclusivo un simile onore dovette attendere fino al 2005, ben 35 anni dopo il primo volo del loro insuperabile jet.

Il ritorno a terra di un X-15 sano e salvo era sempre un’occasione di giubilo, benché gli ingegneri coinvolti fossero pronti a giurare che niente poteva andare per il verso sbagliato. Simili velivoli non permettevano semplicemente il benché minimo margine d’errore.

La cancellazione finale del programma, una volta che ogni dato possibile era stato raccolto ed attentamente catalogato, fu quindi una semplice conseguenza del voler giungere a una conclusione pratica in tempi abbastanza brevi. E il corso futuro della storia, per come era stato tracciato dal rivale russo, sembrava portare l’esplorazione dello spazio verso una destinazione totalmente opposta: razzi giganteschi, dal costo e dalla praticità d’impiego decisamente inferiori a quello che potremmo definire, a tutti gli effetti, come l’antenato remoto dello Space Shuttle. Detto questo, lo stesso programma X-15 non fu del tutto privo di incidenti. Tra cui quello tragico e purtroppo letale di Michael J. Adams, perito il 15 novembre del 1967 a una deviazione tutt’ora inspiegabile della rotta, che mandò il mezzo sperimentale in vite del tutto fuori controllo alla velocità di Mach 5 e un’altitudine di 70 Km. Sufficientemente elevata da superare la resistenza strutturale dell’aereo e finendo per disintegrarlo letteralmente in volo.
Il suo sacrificio inaspettato ed involontario, come quello dei molti colleghi in uno dei mestieri più pericolosi mai concepiti dall’umanità, sarebbe almeno servito allo scopo ultimo di mostrare il sentiero percorribile verso lo Spazio esterno, evidenziando le infinite e spietate trappole che avremmo trovato sul nostro cammino.
A tanti anni di distanza, dunque, l’esistenza pregressa dell’X-15 resta una nota a margine di ciò che avrebbe potuto essere, se soltanto la più efficace organizzazione di esplorazione cosmica nella storia contemporanea non fosse stata condizionata dalla fretta e la necessità di ottenere dei risultati prima della nazione percepita come un terribile rivale. Aereo atmosferico più veloce in assoluto fino ai 7.274 Km/h raggiunti dallo scramjet della NASA X-43A nel 2004 (comunque del tutto privo di pilota) questo affusolato bolide resta tutt’ora uno dei più interessanti. Appuntito come una freccia, nero come la notte. E veloce come un tipo particolare di fulmine che, allo stato attuale dei fatti, risulta ancora difficile da eguagliare.

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