C’è un suono collettivamente prodotto di un intero gruppo di persone che all’improvviso trattiene il fiato, rilasciandolo in contemporanea in un trasalimento udibile perfettamente tra i confini della cabina eccessivamente affollata. La quale, al volgere di un cruciale attimo, fuoriesce dalla letterale rampa di lancio all’interno del suo zoccolo di grigio cemento, per emergere nel puro regno della nebbia e del cielo. Perché se anche manca una vaga traccia dei 100 draghi promessi nel nome Bailong (百龙) le molte paia di occhi non possono fare a meno di spaziare tra un comparabile numero di svettanti pilastri, eredità in quarzite e arenaria lasciata da un’oceano prosciugato in distanti eoni. Siamo nel territorio di Wulingyuan, non troppo lontano dalla capitale provinciale dello Hunan, Changsha, punto d’accesso elettivo ad alcuni dei luoghi topografici più memorabili di tutta la Cina; ma nel preciso momento in cui la gente si trova a metabolizzare quel panorama, non si direbbe. A tale punto estrema e straordinaria ci sembra l’immagine mediata dallo spesso vetro protettivo di questa capsula, lanciata verticalmente attraverso la più fedele equivalenza di un paesaggio alieno. Quello, nello specifico, del pianeta Pandora mostrato nel film Avatar, per le cui isole fluttuanti James Cameron scelse dichiaratamente d’ispirarsi all’effetto restituito da questo luogo, nei frequenti momenti di accumulo della nebbia a bassa quota. Tanto eccezionale la vista, quindi, quanto può esserlo definito l’apporto tecnologico a sostegno di tutto questo, il singolo ascensore posizionato in ambienti esterni più alto, più veloce e dalla capienza mai costruito da mano umana.
Di certo non è per tutti, questo Bailong con le sue tre cabine quasi del tutto trasparenti, ciascuna sviluppata su uno spazio di due piani sovrapposti al fine di massimizzare il trasporto turistico verso le vette vertiginose e per un tragitto di 326 metri, esattamente 14 in più della torre Eiffel a Parigi. E in molti si lamentano su Internet del prezzo del suo biglietto, di “ben” 78 yuan (circa 10 euro) all’andata e altrettanto al ritorno per appena un minuto e mezzo di osservazione possibile del panorama, a patto di essere riusciti a posizionarsi abbastanza vicino al vetro. Ma la realtà apprezzabile anche a distanza è che qui siamo di fronte all’alternativa di oltre due ore di camminata sugli oltre 1.000 scalini necessari a raggiungere la vetta, contro il predominio assoluto della tecnologia sul paesaggio, capace di concedere una via d’accesso rapida verso uno dei luoghi più memorabili dell’intero continente d’Asia. Per poter dire, come amano fare da queste parti, “Anche io ci sono stato” senza alcun tipo di sacrificio o sforzo personale degno di nota.
Per chi apprezza d’altra parte i meriti tecnologici di un paese incline a percorrere le vie più eclettiche dell’architettura ormai da svariate generazioni, d’altra parte, la stessa semplice esistenza di una struttura simile, in quello che dovrebbe idealmente essere un territorio incontaminato e tutelato dall’UNESCO, non può che sorgere qualche interrogativo sull’effettivo contesto di una così ponderosa infrastruttura.
L’ascensore di Bailong nasce per la prima volta sulla carta, in circostanze a noi largamente ignote come spesso capita quando si tratta del Regno di Mezzo (Zhōngguó – 中國) nel 1999, all’interno di un vasto progetto di adattamento e sfruttamento di un letterale luna park naturale per gli amanti dei luoghi ragionevolmente remoti. Con una progettazione capace di coinvolgere i consueti e non meglio definiti collettivi architettonici di Pechino, assieme ad aziende multinazionali come l’inglese Freud UK ltd. e il fornitore di tecnologia tedesco Ragger, l’ascensore ha trovato il suo completamento soltanto tre anni dopo nel 2002, dopo un tempo ragionevole una volta considerata la complessità progettuale della sua implementazione. Risultato a seguito del quale, tuttavia, l’attrazione dovette restare immediatamente chiusa per un periodo di oltre 10 mesi, quando ci si rese conto che la sicurezza operativa della sua struttura non poteva essere garantita nel corso di eventuali terremoti, una casistica non del tutto infrequente da queste parti a causa della convergenza delle placche continentali di India, Asia e Oceania. Dopo lunghe delibere, dunque, e test approfonditi, fu deciso d’installare all’interno della letterale torre di sollevamento integrata una serie di precisi sensori sismici, capaci di arrestarne immediatamente la marcia delle tre cabine alle prime avvisaglie di scosse telluriche, portando conseguentemente ad un livello accettabile le possibilità di sopravvivere dei rispettivi occupanti. Non che l’eventualità di trovarsi al loro interno, mentre l’antica pietra oscilla assieme al surreale paesaggio antistante possa essere definita come particolarmente piacevole, o attraente!
Volendo quindi continuare il nostro tragitto ideale tra gli aspetti potenzialmente negativi dell’ascensore, non è possibile evitare un corollario in merito alle proteste dei (pochi) ambientalisti locali. Per ragioni fin troppo facili da immaginare: l’impatto di un simile ecomostro sul paesaggio è in effetti del tutto paragonabile a quello di un’eruzione vulcanica, in qualche modo capace di cristallizzare se stessa in un insieme inscindibile di acciaio, plastica e vetro. E gli stessi ufficiali dell’UNESCO si trovarono a minacciare, all’epoca dell’imprevista proposta architettonica, una pronta rimozione dall’indice dei patrimoni naturali dell’intera regione di Wulingyuan, considerata la compromissione di uno dei meriti primari di tale elenco, ovvero la ragionevole mancanza di interventi inamovibili e artificiali. Misura, per fortuna, mai messa in atto, anche considerato il possibile valore aggiunto da parte di una simile misura: riuscire ad aprire l’accesso ad una già popolare destinazione turistica a vantaggio di fasce più ampie della popolazione, anche senza ricorrere a ostelli, baite o altri luoghi di soggiorno notturno per riuscire a visitare la montagna, progressivamente rimossi dai sentieri maggiormente battuti. Il che, per un paese dalla densità di popolazione estremamente elevata come la Cina, può comportare un impatto sul paesaggio decisamente minore a medio o lungo termine, come ampiamente vantato in più sedi dai sostenitori istituzionali dell’ascensore.
Ma al di là di variabilmente opinabili considerazioni sull’impatto e l’utilità di un simile meccanismo tecnologico, la fondamentale comprensione di come abbia potuto trovare collocazione in essere va ricercato in un fondamentale aspetto della cultura cinese. Che non vede, a differenza della percezione moderna occidentale, alcun tipo di attrito tra ciò che la natura ha prodotto e quello che invece, senza eccessive remore, viene lì collocato in sovrapposizione da colui che la sfrutta e a suo modo l’apprezza, l’uomo. Basti considerare il rapporto del cinese medio con la Grande Muraglia, considerata un patrimonio endemico e incrollabile al pari dei più alti picchi montani e profondi laghi. Una visione dell’universo attraverso la quale, persino coprire il millenario e incomparabile grattacielo di pietra con ciò che ci saremmo aspettati di trovare, normalmente, nelle grandi metropoli di quel continente, non viene vista come una semplice esca per i turisti, bensì una valida propensione ad accrescere e impreziosire il creato. Il fatto che poi, tutto questo sia in grado di fornire un valido guadagno giornaliero alle amministrazioni locali stimato sull’equivalente dei 25.000 euro giornalieri nei giorni di massima percorribilità (al lordo, ovviamente, delle spese di mantenimento) non è che un utile valore aggiunto. Quale miglior modo di spendere tali somme, d’altra parte, che costruire l’ennesimo ponte panoramico o ulteriore passerella trasparente?