Il concetto di bellezza può variare in modo significativo quando ci si sposta tra i diversi popoli della Terra, nonostante possano sussistere alcuni punti di riferimento comuni. Uno tra questi è l’ideale personificazione del concetto, se presente, quasi sempre riconducibile a una figura di genere femminile, dalla genesi e un destino chiaramente sovrannaturali. Vedi Venere che nasce dalla sua conchiglia ed allo stesso modo, tra la discendenza cinese derivante dall’etnia vietnamita dei Hmong, la venerabile Yang Asha, Dea che incarna lo splendore inoppugnabile della natura e tutto ciò che ne costituisce il flusso ininterrotto parallelo alle fugaci generazioni umane. Lei che sorta, come per magia, dalle profondità di un pozzo taumaturgico, sbocciò all’inizio di una primavera come nessun altra, circondata da fiori, farfalle e uccelli provenienti da ogni angolo del globo. Poiché si diceva che dopo soltanto un giorno, sapesse già parlare. Dopo due, cantare. Dopo tre, danzare. E giunta al quarto, per buona misura, si fosse dimostrata incline a mettersi a ricamare. Finché qualche migliaio d’anni dopo, come risposta ad un bisogno del nostro mondo contemporaneo, non avrebbe assunto la forma fisica di un’imponente statua, alta 88 metri e costruita nel bel mezzo della provincia Guizhou, tra le notevoli montagne e verdeggianti distese dove pareva essercene il più significativo bisogno. Laddove il condizionale è d’obbligo, come quasi sempre, dinnanzi alle necessità non propriamente derogabili di un popolo soggetto alle diffuse problematiche dell’entroterra asiatico rurale. Sebbene sia difficile congiungere la propria voce a quella delle molte critiche elaborate, in patria e all’estero, sulla falsariga della classica domanda: “Davvero non sapevate come investire i fondi?” Quando si prende atto dei notevoli pregi esteriori di quest’opera, senz’altro disegnata da un artista in grado di riuscire a catturare i meriti di un simile soggetto più che meramente antropomorfo. E proprio questo rappresentato, in tutta la sua conturbante magnificenza, mentre indossa l’abito tradizionale e il copricapo finemente ornato dei Miao, realizzato interamente con un particolare metallo lucido mirato a rendere omaggio ai manufatti argentei che vengono costruiti, fin da tempo immemore, presso tali distintivi lidi. Così largamente entrati a far parte del senso comune grazie alle copiose quantità di materiali promozionali, documentari ed altri supporti divulgativi prodotti dal governo della Cina, nel prolungarsi ormai da decadi di una battente campagna sull’unicità di questa gente, dei loro costumi e le caratteristiche progressiste della loro società marcatamente egualitaria, non soltanto tra le diverse classi sociali ma anche tra i generi, maschile e femminile. Presa, non a caso, come termine di paragone durante gli anni di Mao Zedong, che adattò l’antica leggenda di Yang Asha alle tribolazioni della classe proletaria, particolarmente in merito al complicato dipanarsi della sua vicenda romantica con l’astro solare ed il suo fratello notturno…
Il dramma di questa tipologia di figure mitologiche, attraverso il corpus di leggende che vi ruotano attorno, è che quasi sempre esse non riescono ad innamorarsi spontaneamente come avviene per i comuni esseri umani. Forse proprio perché uno splendore tanto sovrannaturale, inevitabilmente, tende ad attirare il desiderio e la solerte cupidigia di altri esseri divini, che poi tendono ad agire sulla base di prerogative che nessuno, mai, dovrebbe possedere. Così il Sole stesso, narra il mito di Yang Asha, provvide a circuirla via dal sacro pozzo, sfruttando l’assistenza delle nubi fosche e tempestose, per rapirla e trasportarla via nel suo Castello Celeste. Dove ella trascorse una vita solitaria ed infelice per un periodo di sei anni, poeticamente ricondotta come una metafora dal primo presidente della Repubblica Popolare alla condizione di servitù intrinseca del sistema capitalista. Almeno finché non gli si presentò l’occasione di fuggire via con l’unica presenza che sapesse allietare le sue giornate, colui che sulla Terra conosciamo come il pallido satellite del nostro pianeta, umile, laborioso e privo del beffardo senso di superiorità del suo facoltoso fratello.
Un termine di paragone certamente non lontano dalla percezione dei vertici amministrativi al potere, capaci di approvare e dare forma ai dispendiosi termini un simile progetto, costruito anche nel bel mezzo della natura e demolendo parti significative di foresta, purché fosse situato a poca distanza da Xilang, il più grande e pubblicizzato villaggio dell’etnia Hmong in Cina. Nel bel mezzo della contea di Jianhe, dove il turismo culturale è ben più di un’occasionale opportunità di guadagno, bensì la vera e propria colonna di sostegno di un’economia da tempo sofferente, causa la riduzione del turismo globale in forza degli eventi storici e pandemici vissuti negli ultimi anni. Il che ha portato prevedibilmente a non poche disquisizioni e la riapertura delle originali critiche coerenti all’inaugurazione del 2017, durante cui fu detto, in patria e all’estero, che i fondi spesi avrebbero potuto trovare impieghi più produttivi sul piano sociale e nelle infrastrutture locali. Se non che l’immagine sul piano pubblico, e con essa l’occhio sempre in cerca di qualcosa di attraente, sembrerebbero aver chiesto ed ottenuto un’effettiva posizione di preminenza. E d’altra parte “La statua è soltanto l’inizio: costruiremo un centro d’accoglienza nel suo piedistallo alto 22 metri” fu detto coerentemente all’approvazione dell’opera “…Ed altre opere finalizzate a generare introiti, mediante la vendita istituzionalizzata di materiale promozionale e souvenir!” Al che risulta sorprendente, almeno fino al 2020, trovare articoli che lamentano l’assenza dei servizi più basilari attorno al monumento, incluso quello del mai trascurabile WC. Che per quanto prosaico, risulta spesso essere una delle connotazioni irrinunciabili della moderna società civile, indipendentemente dalla matrice culturale di appartenenza.
Spesso tristemente nota, ed enfaticamente ripetuta ad intervalli regolari sui giornali, dall’opinione pubblica internazionale e su Internet è la questione delle minoranze etniche all’interno di un paese almeno in apparenza omogeneo come la Cina, dove gli Han costituivano in origine soltanto uno degli oltre 60 popoli distinti che furono incorporati, culturalmente e civilmente, all’interno dell’intransigente civiltà imperiale antecedente alle ragioni della modernità. Non che avessero una scelta all’epoca, come ne sono privi ancora al giorno d’oggi, per gravose motivazioni politiche, economiche e culturali. Benché esistano livelli diversi di assoggettamento, e conseguente grado di tribolazioni, sulla base della propria divergenza da quello che viene ancora ritenuto il “grande corso” di un glorioso avvenire cinese. Vedi il caso dei Miao, trasformati in una sorta di attrazione locale, per cui il nome della loro stessa Dea ha ormai da tempo assunto le caratteristiche di un vero e proprio nome programmatico ereditato. Usato per alberghi, ristoranti, punti d’osservazione ed ogni tipo di altra attività proposta ai turisti, non ultima l’annuale festa celebrata nei diversi villaggi sul modello di Xilang, che si configura con innumerevoli sfilate in abiti tradizionali, canzoni e rappresentazioni teatrali. Per cui l’enorme opera d’arte color dell’argento, di cui non ci è purtroppo concesso conoscere l’autore, potrebbe costituire una sorta di svettante cartellone pubblicitario in tre dimensioni. Come se di cose simili, da queste parti, non ce ne fossero già state a sufficienza! Dimostrando come la bellezza costituisca, prima di ogni altra cosa, il più accessibile ed universale dei brand.