PS3 game review: MAG

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Tra tutti i campi in cui trova applicazione la tecnologia moderna quello che colpisce maggiormente la fantasia degli autori è la guerra. Nessun altro immaginario ha visto una profusione comparabile di opere di ingegno, illustrazioni, cronache fantasiose o progetti avveniristici di ingenieri mancati. I soldati del futuro sono stati descritti o rappresentati attraverso le epoche come reclute involontarie, guerrieri idealisti o cyborg potenziati votati alla battaglia, con gradi variabili di realismo ed eventuali presupposti allegorici. Il ruolo dell’umanità e stato infine posto in secondo piano, avendo dimenticato negli anni le terribili implicazioni dei reali conflitti su scala mondiale: nella cinematografia e letteratura moderna di largo consumo l’obiettivo autorale è ormai descrittivo, prima ancora che morale. Zipper Interactive, la compagnia di sviluppatori interna a Sony dal 2005 (SOCOM) ha così scelto di ambientare il suo nuovo importante shooter multi-giocatore nel vicino futuro, offrendo armi ed equipaggiamento simili a quelli odierni, ma nel contesto di una situazione internazionale molto differente ed ancora più fondata sulle esigenze di un’economia di conflitto. Il numero più impressionante di questa nuova mega-produzione è 256. Tanti sono i giocatori che possono prendere parte in contemporanea ad una singola partita: divisi in squadre e plotoni, con tanto di catena di comando realistica e funzionante. L’anno è il 2025, ed infuria la Guerra Ombra: un conflitto senza fine che non ha frontiere, casus belli o scopo ultimo di alcun tipo.  War has changed, Old Snake.

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Apple Computer 2.0

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Si chiamerà iPad, alla fine. Se ne era parlato molto negli ultimi mesi, ed ancora di più dal momento in cui era ormai certo che qualcosa doveva accadere. Il 27 gennaio 2010 potrebbe venire ricordato come la data in cui il CEO più famoso al mondo si è seduto su una poltrona di pelle sul palco dello Yerba Buena Center for the Arts di San Francisco e, con fare disinvolto, ha rivoluzionato il concetto stesso di computer. Nonostante l’inclinazione fortemente commerciale, le assurde limitazioni di utilizzo (mancano porte USB, memory card, fotocamera…) ed il design estetico meno che eccezionale, il nuovo shiny gadget del carismatico Steve Jobs sta già facendo parlare il mondo intero, mentre persino alcuni dei più convinti sostenitori dell’open source si preparano a prenotarne uno.
Riuscirà questa scommessa ad avere lo stesso travolgente successo del suo insigne predecessore, l’ormai ubiquo cellulare iPhone? Potrà realmente costituire l’anello mancante tra gli ingombranti laptop ed i compatti smartphone? Di certo contribuirà ad allargare e rafforzare i presupposti monopolistici della già colossale e sempre più potente compagnia informatica di Cupertino, California. Questo dispositivo non è infatti un computer in senso tradizionale, anche se naviga su Internet, riceve e-mail e visualizza una buona parte dei video e degli e-book. Un iPad non potrà in alcun caso essere programmato, personalizzato o impiegato in processi puramente creativi. Ogni applicazione che venga realizzata dai suoi utenti andrà singolarmente valutata ed approvata da Apple stessa, per poi essere resa disponibile in esclusiva tramite le stesse infrastrutture web utilizzate dall’iPhone e dall’iPod Touch. Il termine forse più adatto a definire iPad è quello di information appliance, una dicitura creata per Apple dal teorico Jef Raskin verso la fine degli anni ’70, liberamente traducibile in “elettrodomestico informatico”. Sarebbe la più nuova ed affascinante realizzazione di un’ideale vecchio quanto il concetto stesso di Personal Computer: un dispositivo facile da usare, privo delle astrazioni tipiche connesse all’esecuzione ed alla gestione di programmi  o contenuti digitali. Sempre acceso, sempre connesso ed utilizzabile in pochi minuti da chiunque e con qualsiasi grado di esperienza, come un televisore o una radiosveglia. Ma sottile quanto uno shoji e largo come un libro di storia. Praticamente, un computer stampato su un foglio di carta… metaforicamente refrattario a qualsiasi tipo di inchiostro.

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PS3 import review: Demon’s Souls

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A volte le conseguenze delle proprie azioni possono essere inaspettate. Re Allant XII, sovrano di Boletaria, aveva portato alla sua terra grandi benefici e prosperità grazie ad una potente e dimenticata magia. Tuttavia, l’utilizzo sconsiderato e continuativo di tale arte innaturale aveva finito per circondare il paese di una nebbia misteriosa, da cui ormai nessuno faceva più ritorno.
Il potente cavaliere Vallarfax seppe rivelarne l’origine, tornando da una spedizione a rischio della sua stessa vita: gli antichi demoni si erano liberati da un antico sigillo, ed avevano fame. I più valorosi eroi del regno si avventurarono in gran numero in questo oscuro mondo di nebbia ai confini della ragione, ma nel tentativo di rimuovere il maleficio finirono in effetti per rafforzarlo. La loro stessa anima veniva infatti assorbita a vantaggio dei demoni, mentre il corpo mortale era costretto a vagare nelle nebbie senza più alcun criterio, o come schiavo degli stessi poteri oscuri che erano venuti a combattere.
All’inizio di Demon’s Souls, il giocatore è chiamato a questa stessa difficile Cerca. Il suo personaggio, scelto tra un buon numero di tipologie e definito a piacimento nell’estetica e nell’aspetto, inizia il suo presunto viaggio verso la gloria secondo i classici dettami della heroic fantasy, per di più con equipaggiamento ed armatura di tutto rispetto. Attraverso le prime sequenze del gioco, che ne costituiscono anche il tutorial, ci si trova ad affrontare alcuni soldati e guerrieri in armatura senza eccessive difficoltà – appare evidente che si sta interpretando il ruolo di un eroe piuttosto forte. Poi, si giunge al confine delle nebbie. Anche nell’improbabile eventualità di essere in grado di sconfiggere un troll cornuto alto 4 metri, il risultato non cambia. Premuto il tasto ed oltrepassata la soglia, il giocatore incontra il suo primo demone e muore.

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PS3, Xbox 360 game review: Bayonetta

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L’iter evolutivo degli action game trova connotazione nella duplice deriva contrapposta delle sue potenzialità espressive. Ad un’estremo dello spettro si trova il tentativo di coinvolgimento diretto del giocatore, attraverso la piena ed immediata riconoscibilità delle situazioni proposte.
In questi casi è opportuno che il protagonista del racconto sia incolore e facilmente riconducibile all’uomo comune. Dovrà indossare una divisa, uniforme o armatura, non verrà inquadrato a meno che abbia un casco sulla testa, è di poche parole e si relaziona di preferenza attraverso l’uso indiscriminato di armi. Non porta gli occhiali da vista, non ha la barba o altri segni di riconoscimento. Non dispone di risorse in aggiunta al suo addestramento militare o alla preparazione fisica individuale, e viene attentamente motivato a combattere nemici della collettività come il terrorismo, i soldati tedeschi, gli alieni, i demoni fiammeggianti non-morti, i robot pieni di astio verso i loro creatori o le bestie selvagge preistoriche.
Bayonetta invece è una strega immateriale che uccide schiere di angeli dorati e consegna le loro aureole al signore dell’inferno. I suoi tacchi sono pistole, salta con ali di farfalla,  cammina sui muri e ferma il tempo. Evoca strumenti di tortura, brandisce serpenti vivi, si trasforma in pantera, pipistrello o corvo ed avvia le motociclette infilandoci due dita della mano e girandole di 90 gradi. Il suo sangue è fatto di petali di rose, e quando viene ferita si riprende succhiando caramelle a bastoncino. I suoi capelli formano in un qualche modo imperscrutabile il tessuto dell’abito aderente che indossa, ma spesso prendono vita come draghi o mostri colossali. Non fanno le due cose allo stesso tempo.

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