L’immagine ritrovata in un vecchio e polveroso album datato all’anno 1888, capace di restare fermamente impressa nella memoria: una donna con l’espressione indecifrabile e in costume tradizionale dello stato federato del Baden-Württemberg, con scialle ricamato e il cappuccio in testa a coprire parzialmente una complicata acconciatura, siede su quella che sembrerebbe essere a tutti gli effetti una strana panchina da giardino. Se non fosse per le due ruote da bicicletta montate ai lati, tanto grandi da apparire sproporzionate, più una sterzante davanti dalle dimensioni minori, dalla cui sommità emerge un palo perpendicolare al suolo sormontato da una piccola manovella tenuta saldamente tra le sue nude mani. Due giovani con cappelli e giacche di feltro, scarpe formali ai piedi, sembrano spingere o direzionare in qualche modo il bizzarro veicolo tenendolo ai lati sul selciato, nell’interessante scenario prospettico di un’arco stradale ricavato in un antico muro cittadino. Ciò che potrebbe anche non apparire subito evidente, soprattutto perché i personaggi sembrano avere tutti la stessa età o quasi, è che i due ragazzi sono in realtà figli della donna, bastando effettivamente a costituire assieme con lei l’intera famiglia di Karl Friedrich Benz fino a quel momento. L’uomo che aveva recentemente inventato, forse a sua stessa insaputa, uno dei singoli dispositivi destinati ad avere una maggiore rilevanza nel secolo immediatamente successivo: l’automobile.
E dico che non ne era cosciente poiché, come raccontano le sue biografie, l’ingegnere originario di Karlsruhe, reduce da una difficile storia personale in seguito alla morte del padre in tenera età, nonché il fallimento sistematico delle sue precedenti aziende costituite grazie alla dote della ricca ereditiera che aveva sposato, per lungo tempo credette fosse meglio muoversi con estrema prudenza. Il che comportò, nei fatti, mettere il veicolo che aveva tanto faticosamente brevettato, grazie all’uscita nel pubblico dominio della tecnologia per il motore a quattro tempi (era il 1886) a prendere polvere in una rimessa in giardino, mentre attendeva l’ispirazione per ulteriori quanto significativi perfezionamenti. Proprio lui che, per inseguire il sogno fanciullesco di “una bicicletta in grado di muoversi da sola” aveva inventato in rapida successione un innovativo motore a un cilindro con insolito volano orizzontale, al fine di stabilizzare la marcia del veicolo, un sistema di raffreddamento basato sulla nebulizzazione dell’acqua, il primo serbatoio per la “benzina” della storia (in realtà si trattava di etere di petrolio o ligroina) e persino il sistema d’accensione elettrico con tanto di candela, precorrendo un approccio tecnologico che usiamo tutt’ora. Eppure, dopo l’accoglienza non propriamente calorosa ottenuta da lui e il primogenito durante un’uscita pubblica con il bizzarro arnese nel 3 luglio 1886, rumoroso e pieno di olio, fumo diabolico e strani odori, lungo la strada principale di Mannheim, parzialmente schernita e ridicolizzata dai giornali, nulla sembrava abbastanza per soddisfare il suo spirito d’iniziativa. Lasciando ahimé, accumulare i giorni preziosi di un potenziale vantaggio commerciale sul futuro competitor diretto Gottlieb Daimler, attuale preside della scuola d’ingegneria dove lui stesso aveva tanto faticosamente conseguito il coronamento dei propri studi ed ora prossimo al concepimento di una sua particolare versione di motore stradale.
Perciò si dice, in mezza Europa ed oltre, che “Dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna.” Benché nel caso di Bertha Ringer in Benz, sarebbe altrettanto corretto per non dire ancor meglio affermare che la sua posizione fosse piuttosto dinnanzi al marito, nel ruolo di letterale apripista mediatico per il primo economico, funzionale, efficiente, appariscente carro del tutto privo di cavalli siòri e siòre venghino etc. etc… Quando stanca dell’altrui titubanza, facendosi aiutare dai figli, scardinò la serratura del capanno durante un’assenza del marito, aprì il cancello e prese la suddetta macchina per andare a trovare i suoi genitori che, questione tutt’altro che indifferente considerata la natura sperimentale di un tale prototipo, vivevano a ben 90 Km di distanza. Ma considerato il notevole e proficuo ritorno di marketing “accidentale” per una simile esperienza, siamo davvero sicuri che sia andata effettivamente così?
strada
Uomo inventa il più potente forno solare della Thailandia
Ogni giorno quel dannato autobus passava all’incrocio Kloom Sakae di Nong Sano, nella provincia di Phetchaburi. Dove Sila Sutharat, ormai da un lungo periodo di 20 anni, gestiva il più rinomato e amato chiosco locale per la vendita di polli cotti alla brace. Un mestiere sereno e onesto, per la maggior parte del tempo… Escluso l’attimo cruciale e reiterato, verso metà mattina, in cui il riflesso direzionato dal parabrezza del mezzo infernale si configurava nella maniera perfetta per incrociare la direzione naturale del suo sguardo, causandogli uno spiacevole quanto persistente senso di accecamento. In un primo esteso periodo, il cuoco di strada aveva tentato di evitare una simile esperienza, spostandosi in maniera preventiva per offrire la sua schiena al punto d’origine del problema. Ma ogni giorno l’autobus passava in un orario leggermente differente, ragione per cui egli finiva, sistematicamente, per lavorare in una posizione scomoda per dei periodi sempre più estesi, finendo per restare lo stesso colpito in un’ampia varietà di occasioni. Cento, mille volte dovette limitarsi a sfogare la propria frustrazione con imprecazioni sommesse o semplicemente immaginate, al fine di non disturbare i suoi clienti. Finché ad un certo punto, da questo Purgatorio delle cose semplici non ebbe l’occasione di formarsi un’idea: “E se io trovassi il modo di trasformare questa mia vulnerabilità in un punto di forza?” Come un lottatore di judo, che veicola la spinta del suo avversario in una presa da cui è impossibile fuggire; come Highlander, che decapita il nemico immortale perché “Dovrà restarne soltanto uno”; come Mega-Man, che assorbe il power-up lasciato dal potente boss al termine di un livello.
Con la ragionevole ed altrettanto pragmatica distinzione, tipica del mondo materiale, per cui l’espressione di una tale iniziativa tende a svolgersi dall’interno verso l’esterno, piuttosto che il contrario. Così lui, zaino in spalla, dev’essersi probabilmente recato presso un fornitore locale di cornici a giorno. E poi un vetraio, o forse essersi procurato presso qualche fabbrica delle grandi lastre a specchio, da tagliare con cautela in tanti pezzettini rettangolari. Unendo quindi le due cose, le ha montate su una complessa struttura di metallo parabolica non dissimile da quella usata in svariate possibili opere d’arte moderne. E sarebbe stato perdonato un qualsivoglia passante che, conoscendo il dramma quotidiano di quest’uomo sereno e onesto, avesse pensato che qualcosa di sinistro fosse scattato in lui, per costruire la più fedele corrispondenza asiatica del leggendario specchio ustore di Archimede usato durante l’assedio di Siracusa per bruciare le navi dei Romani (212 a.C.) e indossare una maschera da saldatore per proteggersi gli occhi da tutta la sua potenza spropositata. E pensa che efficacia avrebbe avuto quel riflettore, contro l’inconsapevole, incolpevole rappresentante del trasporto pubblico urbano! Se non che verso l’orario della presunta resa dei conti, con il Sole già ben alto in cielo, piuttosto che puntare l’arma impropria contro la strada Sutharat la orienta attentamente verso il punto che era stato, fin dall’inizio, al centro dei suoi pensieri: la griglia con il pollo da servire ai suoi clienti. Senza fuoco, senza inganno, poco alla volta la genialità del suo progetto appare più che mai evidente. Mentre un sottile fil di fumo, appena tratteggiato in questo giorno senza vento, inizia a sollevarsi dalla coscia di volatile succosa e palesemente cruda. Si ma ancora per QUANTO, sotto la possenza di un raggio artificiale capace di raggiungere superare abbondantemente i 300 gradi?
Se la strada della vita ti pone innanzi a un tornado
Giugno è il mese, negli stati centrali del nord-ovest come altrove, in cui l’anno compie la sua svolta maggiormente significativa. Quell’arco di 30 giorni entro cui si risvegliano le effimere, emergono le cicale, gli uccelli migratori giungono nei luoghi adatti a riprodursi e i frutti carichi di semi vengono fagocitati, per iniziare il lungo viaggio verso nuovi luoghi da colonizzare. Ciò che causa, nello specifico, il maggior numero di problematiche è però la serie di trasformazioni, meteorologiche, atmosferiche e funzionali, a cui va incontro questa particolare regione geografica di pari passo, generando tempeste di fulmini all’interno delle quali, a loro volta, il vento può convergere in maniera spiraleggiante. Finché una simile tendenza, soprattutto in pianura cessa di essere qualcosa di arrestabile, ed inizia al sua marcia in forma di tornado. Il vortice. La tromba d’aria. Sapevate che in tutto il Vecchio Continente, l’Italia è il terzo paese statisticamente più affetto da una tale classe di fenomeni? Ma incidentalmente, la quantità media dei danni che essi riescono a causare, nella nostra penisola, è quella maggiore a livello europeo. Eppure tutto questo è nulla, persino nella peggiore delle ipotesi, rispetto a ciò che devono temere, ed aspettarsi gli abitanti dell’entroterra statunitense, in corrispondenza dell’ingresso in estate e lungo tutto l’incedere della stagione dei disastri ventosi, quella che non trova posto in calendario (perché non prevedibile) ma ha un podio di primo piano dentro ai cuori e nei cervelli delle persone. Tanto che in Kansas, nello Iowa, nel Missouri, le persone nascono sotto un tale segno, ed è cosa buona e giusta che fin dall’asilo, per poi proseguire attraverso la scuola primaria e secondaria, l’esperienza individuale delle persone sia costellata di esercitazioni, spiegazioni teoriche, lezioni dedicate ed esperienze dirette, per forgiare una serie di reazioni non sempre intuitive, né apparentemente logiche, per tentare in qualche modo di salvarsi la vita. Ecco a voi, tanto per cominciare, un esempio. Cosa fare se il tornado vi coglie mentre siete in auto, senza strutture solide per ripararsi: punto primo, lasciare immediatamente il veicolo. Punto secondo, camminando faticosamente in mezzo al vortice per trovare una depressione nel terreno, non importa quanto insignificante, e sdraiarvisi all’interno, mentre si usano le mani per proteggersi la testa dai una pletora di detriti volanti. Il vento che vi percuote la nuca e la schiena, sperando di non essere risucchiati via… Difficile immaginarsi in una simile situazione! Ma voi, in tutta sincerità, sareste disposti a comportarvi così?
Di sicuro, non lo è stato questo automobilista dal nome ignoto, il cui video amatoriale fu pubblicato da niente meno che il National Geographic nella primavera del 2005, durante il catastrofico evento passato alla storia come tornado di Rochelle–Fairdale. E può fare una certa impressione, indubbiamente, prendere atto del momento, lungo all’incirca un minuto e mezzo, in cui l’autore della sequenza si è trovato letteralmente a poche decine di metri dal volto stesso della distruzione, quell’agglomerato di correnti rotative, zolle di terra e pezzi di edifici, che nel giro di poche ore si sarebbe ingrossato fino alla categoria EF4 (“danni devastanti”) per procedere con diabolica sicurezza verso la periferia di Rochelle, Illinois, finendo per costare 19 milioni di dollari ai suoi abitanti, e la vita ad un paio d’individui particolarmente sfortunati. Così costui, presumibilmente non nativo di queste parti, reagisce in una maniera che a suo tempo, bastò a rendere virale su Internet il video. Ovvero non fece, sostanzialmente, alcunché. Considerate voi la situazione. Il tornado può rappresentare in determinate condizioni, la repentina fine della vostra esistenza. Terribile a vedersi, mentre ruota maestosamente all’orizzonte. E i manuali dicono che la cosa migliore da fare, per tentare di salvarsi, sia guidare il più veloce possibile esattamente a 90° dal suo corso predeterminato. Già, ma in che direzione si sta muovendo? Cambierà direzione? La voce fuori dall’inquadratura, impossibilmente calma, ammette senza alcun dubbio di non riuscire a comprendere in che direzione stia andando il vortice. Il che, come ben sanno i locali, è un pessimo segno: poiché il tornado mutano di forma e dimensioni molte volte nel corso della propria marcia. Ed è perciò possibile non riuscire a notare un avvicinamento o allontanamento diretto. Mentre gli spostamenti laterali, quelli si, risultano comparabilmente evidenti. Dunque se il fronte apocalittico appare del tutto fermo (non lo è mai realmente) c’è un 50% di possibilità che esso si stia dirigendo alla massima rapidità consentita verso di voi. Compreso questo, dunque, cosa resta da fare? Se non inserire la retromarcia come fa costui, per procedere molto, molto lentamente sotto il cavalcavia più vicino? E qui, apriti cielo in più di un senso.
La Stratos HF Zero e gli altri magnifici cunei stradali
Fu uno dei raduni d’auto d’epoca più importanti del suo decennio, oltre a un momento storico per il collezionismo a seguito del quale molte vetture letteralmente uniche al mondo passarono di mano per cifre inimmaginabili, sotto le fronde degli alberi a Villa d’Este nel 2011, in quel di Tivoli presso il Lazio centrale. Eppure persino tra la nutrita schiera di miliardari, con garage grandi quanto un centro commerciale cinese, calò momentaneamente il silenzio, quando sulla strada usata per far sfilare i vecchi capolavori venne il momento di quel bizzarro fulmine bronzeo, alto appena 84 cm e così straordinariamente appuntito, che molti di loro non avrebbero neppure immaginato di poter vedere coi propri occhi. E probabilmente così sarebbe andata, se non fosse stato per le difficoltà economiche incontrate dall’azienda costruttrice, un tempo uno dei maggiori marchi del Made-In-Italy nel settore dell’automobilismo di grido. Fluttuando lievemente su strada, con gli pneumatici larghi e il parabrezza romboidale, le fiancate triangolari come la serie di appariscenti lamelle sul retro, composta di prese d’aria per il motore. Era in effetti una Lancia Stratos, quella cosa. Ma non certo la campionessa d’infiniti rally, che molti di noi millennials conoscono grazie alla sua inclusione nell’eponimo videogame della Sega (con la famosa livrea “Alitalia” e il tricolore nostrano) bensì la prima interpretazione di quello che avrebbe potuto, e dovuto essere. Quando colui che l’aveva creata, quel creativo straordinario, ancora usava chiamarla Stratolimite, con riferimento ai confini più estremi dell’atmosfera terrestre che intendeva raggiungere. E che un giorno avrebbe, persino, varcato.
Se esiste un’automobile che, nella fantasia popolare, simboleggia più di ogni altro le sensibilità estetiche e le preferenze di design vigenti negli anni ’70, sarebbe difficile attribuire un tale ruolo ad altro che la storica Countach con carrozzeria di Bertone, Laborghini il cui nome dovrebbe corrispondere a una traslitterazione dell’esclamazione piemontese contacc ovvero “accidenti!” E di reazioni in linea con questa, sulle strade italiane ed oltre, un simile spigoloso fenomeno ne avrebbe raccolte parecchie, per non parlare delle innumerevoli comparse al cinema, nei videogiochi e in televisione, come mezzo di trasporto elettivo dell’eroe, o il protagonista della situazione. Così originale, nel suo stile angoloso, con l’avantreno che va ad abbassarsi a sul terreno e la coda tronca dai fari enormi, da far pensare alle successive generazioni ad un pezzo rivoluzionario, capace di mostrare la via per un nuovo sentiero nel campo della realizzazione di supercars, destinato a generare altri grandi successi come la Lotus Esprit (1976) e la Ferrari F40 (1987). Ciò che spesso non viene menzionato tuttavia, perché si tende a guardare avanti piuttosto che alle spalle dei grandi capolavori, è la lunga serie di prototipi e auto prodotte in serie ridotta che a partire dal 1967, aveva aperto le danze di quella che potrebbe definirsi una nuova interpretazioni delle forme ideali per un automobile, con una ricerca estetica talvolta anteposta anche al valore funzionale dell’aerodinamica, considerato secondario quando il motore a bordo risultava essere, comunque, in grado di raggiungere i limiti di velocità nel giro di un paio di secondi al più. L’epoca delle wedge cars, come le chiamano gli inglesi (automobili a cuneo) sarebbe quindi iniziata in quell’anno con la Lamborghini Marzal, un concept direttamente assemblato dalla mente e la penna di quello stesso Marcello Gandini, dipendente della Bertone, che ad un tal punto avrebbe influenzato lo stile dell’automobilismo mondiale. Insieme, sia chiaro, ad un altro paio di designer italiani, in quegli anni in cui il gusto della nostra penisola veniva ancora considerato, a ragione, il non-plus-ultra di tutto quello che potesse venire definito anche lontanamente cool. Si trattava di una reinterpretazione alle più estreme conseguenze di quello che poteva rappresentare la storica Miura, con finestrini sovradimensionati e una caratteristica linea angolare, priva delle flessuose curve che erano state impiegate per armonizzare il tutto quasi un decennio prima.
Il secondo a gettarsi nella mischia sarebbe stato Giugiaro, con la sua Bizzarrini Manta (1968) prototipo per l’omonimo piccola casa produttrice destinato a rappresentare il debutto della sua Italdesign, largamente considerata come la prima coupé monovolume (sportiva) della storia. Lungi dal restarsene con le mani in mano, Gandini avrebbe quindi immaginato e visto assemblare l’Alfa Romeo Carabo, avveniristico prototipo, evoluzione del discorso passato e per certi versi relativi alla conformazione della carrozzeria, un’anticipazione del suo stesso futuro Countach. Ma il vero stimolo sarebbe arrivato soltanto due anni dopo, con il contributo irrimediabile della carrozzeria Pininfarina assieme al suo partner storico, Ferrari. La Modulo era qualcosa di chiaramente assurdo, una totale impossibilità stradale. La corrispondenza esatta su ruote del concetto di un UFO, qualcosa che esiste, benché nessuno possa trovare un aggettivo adatto a descriverne le caratteristiche primarie…