Lo scienziato che frantuma con amore la barriera corallina

Avete mai amato qualcosa a tal punto da pensare: “Adesso prendo una spranga di ferro e inizio in modo sistematico ad accarezzarlo?” Un passaggio alla volta, dal fondo fino alla cima, affinché restino soltanto singoli frammenti dell’oggetto di quel sentimento… Terribile, nonché terribilmente controintuitivo, possiamo dunque definire il gesto del biologo marino David Vaughan del MOTE Lab di Sarasota, Florida, soprattutto quando si considera che le vittime di quest’iperbole (la tecnica è in realtà di un tipo più sofisticato) sono nient’altro che gli inoffensivi, placidi, vegetativi polipi della barriera corallina. Creature tanto piccole la cui sopravvivenza ha un’importanza primaria, affinché possa essere adeguatamente preservata almeno un quarto dell’intera biodiversità marina. Ragione sufficientemente importante questa, e probabilmente l’unica, capace di giustificare una così specifica violenza delle circostanze avverse.
Ma come può talvolta capitare, è dalla cupezza dei più tetri gesti che rinasce l’occasione; dalla tenebra che sorge l’alba; dall’annientamento sistematico che appare, nuovamente, un timido barlume di speranza. Tutto ebbe inizio con l’aneddoto più volte raccontato, nelle sue interviste, che potremmo provvisoriamente collocare verso i mesi del 2006. Quando il buon professore, lavorando presso l’istituto annesso al proprio centro di ricerca “EMICCRRR” (Elizabeth Moore International Center for Coral Reef Research & Restoration) si trovò ad elaborare all’improvviso la futilità della sua opera: poiché produrre uno scheletro ricostruito per quel bioma tanto raro ed importante nell’economia marina, composto dai cosiddetti “coralli massicci” caratterizzati da una crescita misurabile in singoli centimetri ogni 12 mesi e trapiantati per lo scopo nelle apposite vasche del laboratorio, sembrava ormai una meta irraggiungibile prima del sopraggiungere della pensione. E fu così che, con momentanea e accidentale malagrazia, prese un singolo campione di corallo a corna d’alce (Acropora palmata) o per spostarlo, finendo invece per spezzarlo in due.
Immaginate ora il suo rammarico. Provate a considerare quel rimorso, di aver danneggiato irrimediabilmente l’oggetto delle sue attenzioni per un tempo comparabile a una gravidanza, andando contro a tutto quello che sarebbe stato il contenuto di un suo eventuale giuramento d’intenti. Se non che a diverse settimane di distanza, ritornando nel suo giro presso il luogo dell’incidente, Vaughan vide qualche cosa che avrebbe cambiato la sua vita: i due pezzi del corallo spezzettato, che non soltanto erano ancora in ottima salute, ma erano cresciuti a un punto tale, che ciascun frammento aveva adesso la grandezza della forma originale. Proprio lui aveva scoperto, in altri termini, che occorreva distruggere il corallo, al fine di creare una quantità maggiore di corallo. Senza neanche un attimo di esitazione, dopo una simile esperienza, lo scienziato veterano abbandonò immediatamente il suo proposito di andarsene in pensione entro la fine dell’anno. E impugnata la metaforica spranga d’acciaio, iniziò produrre la più significativa parte della propria eredità professionale…

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Titanico vapore: tutti a bordo del tirannosauro ferroviario americano

E tutti sollevavano, in maniera inconscia, il labbro superiore, lasciando entrare l’aria nel formare un’espressione totalmente rapita: l’ora, il giorno e quel momento, l’attimo infuocato del ritorno. Di un oggetto il cui valore come simbolo non può prescindere, in nessuna maniera, dal suo effetto significativo sulla materia. Avevano detto che era impossibile, il frutto di una tecnica dimenticata… Eppure, eccola qui: con 3600 tonnellate al seguito, esattamente 16 Statue della Libertà (avete mai sentito una misura maggiormente Americana?) distese in senso metaforico lungo l’estendersi di un serpeggiante binario in salita. Quello che collega Ogden, nei pressi di Salt Lake Ciy nello Utah, a Cheyenne, Wyoming, una tratta che oggi non conserva più il suo antico valore strategico di appartenenza. Soltanto uno tra molti, dunque, dei collegamenti che attraversano la parte brulla degli Stati Uniti, sul confine dei deserti occidentali; laddove un tempo questo mostro, e i loro simili, erano la fonte di ogni merce ed ogni bene di consumo ad uso popolare o meno, salvo quello che giungeva sulle coste via mare. Eppure c’è un qualcosa di marittimo, nell’enorme sagoma che taglia in due il paesaggio degli accidentati monti Wasatch, sbuffando rumorosamente vista l’enfasi del suo ritorno: forse l’alta ciminiera, circondata da una nube oblunga di vapore. Forse le 548 tonnellate di metallo, perfettamente ben distribuite, che compongono la forma complessiva del Big Boy.
Ragazzone…Un termine, un programma: tracciato a quanto dicono per pura contingenza da uno degli operai della Union Pacific, che in quell’epoca remota ebbe l’iniziativa di tracciarlo con il gesso, in barba alla definizione progettuale assai generica di “Wasatch”. La più grande locomotiva a vapore che fosse mai stata costruita su questa Terra. Il culmine ulteriore ed inimmaginabile, di oltre un secolo di perfezionamenti, correzioni, innalzamento delle aspettative del committente. Il che basta per farne, in maniera del tutto inevitabile, una produzione tarda della sua Era, ovvero il proverbiale canto del cigno, situato cronologicamente al 1941. Precorrendo di pochi attimi l’apice più sanguinario della seconda guerra mondiale. Il che significa, riuscite a immaginarlo? Che ogni singolo proiettile, carro armato, componente di aeroplano, prodotto dalle fabbriche dell’entroterra, sarebbe stato in seguito imbarcato verso il teatro del Pacifico a partire dalle sferraglianti ruote, di un così massiccio e appariscente dinosauro. Molto meno, bastò in precedenza, per delineare le caratteristiche di un simbolo della Nazione.
Gioia, giubilo e possenti grida d’esultanza. Il progetto è stato completato. E il cerchio, finalmente, chiuso in occasione del 150° anniversario della UP. Con la più eclettica, sincera e memorabile delle celebrazioni…

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La società degli straordinari cactus incoronati

Attraverso le alterne peripezie del mondo, molto è cambiato: alcune cose le abbiamo perse, altre trovate. Talune, nel frattempo, hanno affrontato l’arduo sentiero del cambiamento, diventando radicalmente diverse nei loro fattori esteriori, pur avendo mantenuto la preziosa linfa custodita all’interno. Come il meristema cellulare di un alto arbusto, soggetto alle modifiche non sempre evidenti imposte dal suo contesto d’appartenenza, il sottile nastro del tempo si è esteso in ogni direzione possibile, spesso diametralmente opposte, trasformando i mostri in eroi. E viceversa. Eroi come il Carnegiea gigantea, l’impressionante cactus saguaro dei vasti deserti di Sonora e del Mojave, convenzionalmente paragonato a una mano aperta dall’altezza di 10-13 metri, protesa ad invitare lo sguardo imperituro dei cieli. Quale richiamo e quanti significati, nella stolida forma della sua vegetale esistenza, capace di estendersi e superare fino i due secoli di permanenza tra il consorzio dei viventi! E quante difficoltà, da superare: le radici parassitarie della pianta chiamata da queste parti prickly pear (Opuntia ficus-indica), il becco che scava per costruire i profondi nidi del picchio di Gila (Melanerpes uropygialis) e colpi di fulmine, gelo notturno, insetti divoratori e malattie batteriche, per non parlare della mano impietosa dell’uomo, pronto a sottrarre spesso abusivamente intere “braccia” o rami da vendere, al fine di trapiantarli altrove. Tanto che diventa lecito aspettarsi, tra gli esemplari abbastanza forti da aver raggiunto l’età in cui produrre frutti & fiori, che esista una classe di cactus in qualche modo diversi da tutti gli altri, mutati nella loro profonda essenza da una qualche specifica, misteriosa esperienza. William Peachey, scienziato indipendente dell’Arizona, li chiama in questo video prodotto dall’Ente Pubblico per il Turismo dell’Arizona “Icone che crescono sopra altre icone” per la loro capacità di attrarre nutrite schiere di curiosi e turisti, particolarmente quando si presentano caratterizzati dalla (s)fortuna di crescere in luoghi dignitosamente collegati dal punto di vista della viabilità. Ma il loro nome formale, per quanto ci è dato comprendere, riceve piuttosto l’aggettivo anglofono di crested (crestati) per analogia con una particolare casistica che il caso vuole, sia stata documentata nelle più diverse specie vegetali. Almeno, in linea di principio: poiché non c’è altra pianta al mondo che, sperimentando un simile processo di cambiamento, possa dirsi altrettanto spettacolare. Un tronco centrale ricoperto di spine che sorge dal suolo terroso, per estendersi in maniera del tutto convenzionale. Finché, a un’altezza variabile, qualcosa non cambia nella sua geometria della convenzione: i solchi caratteristici, creati dall’evoluzione per consentirgli di gonfiarsi nei rari periodi di pioggia nel suo ambiente di provenienza, che cessano di scorrere paralleli, iniziando intrecciarsi nel disegno di occulte figure celtiche dall’apparente arcano significato. Ricorrendosi l’un l’altro, mentre la forma stessa del saguaro diventa confusa ed incerta, ricordando quella di un candelabro tortuoso se non talvolta, una vera e propria corona. Il che resta, incidentalmente, ancora del tutto inspiegato dalla scienza. Sarebbe perciò assurdo pensare che soltanto una persona, per quanto eclettica come Mr. Peachey, possa aver scelto di fare omaggio di una parte considerevole del proprio tempo a studiare, e tentare di decodificare il mistero, di simili strani giganti. Laddove l’evidenza dei fatti, in effetti, finisce per raccontare una storia ben diversa…

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Ligri, taligri, tigoni… Le molte variabili degli incroci tra grandi felini

Anche considerate le molte lamentele e possibili notazioni esposte sulla biodiversità della fauna londinese, talvolta ben al di là di una semplice metafora, può almeno sussistere una fondamentale certezza: la sostanziale nonché effettiva assenza di quello specifico superpredatore preistorico, lo smilodonte. Comunemente detto tigre dai denti a sciabola, per la smisurata dotazione dei suoi canini, affilati quanto lame adattate al combattimento. Non più così, d’altra parte, il caso di Londontowne, tipico porto di epoca coloniale nel temperato stato del Maryland, oltre il confine di quella terra selvaggia e spesso incontaminata che continuano ad essere, persino adesso, i pur sempre iconici Stati Uniti. Luogo in prossimità del quale, tra il silenzio degli abitanti e il sostanziale stupore dei turisti, una creatura spropositata fece qualche tempo fa la sua comparsa per girare un foto/videografico con scopi, presumibilmente, di tipo pubblicitario. Ad accompagnarla l’uomo noto come Mahamayavi Bhagavan “Doc” Antle, ovvero il fondatore e amministratore unico dell’associazione T.I.G.E.R. (The Institute for Greatly Endangered and Rare Species) con sede in Maryland, presso lo zoo-safari atlantico di Myrtle Beach. Sinonimo di recinti plurimi, ciascuno occupato da un fiero rappresentante dell’una o l’altra specie dei più notevoli gatti che abbiano mai calcato il suolo di questo pianeta, assieme ad altri che nessuno, fondamentalmente, aveva mai visto prima dell’ultimo secolo o giù di lì. Esemplari come Hercules, nient’altro che la versione “disarmata” (sia dal punto di vista dentistico che della ferocia) di quanto sopra accennato, benché derivante da una storia genetica totalmente distinta. In quanto si tratta, in parole povere, del frutto di un incrocio tra maschio leonino e femmina tigre, ovvero quello che in campo naturalistico viene identificato con la contrazione linguistica liger, traslitterata in italiano nel quasi diretto “ligre”. Qualcosa di magnifico e qualcosa di pur sempre spaventoso, coi suoi 418 Kg di muscoli e strisce appena visibili sul manto di un chiaro color marrone. Un gigante il cui peso non rientra per nulla per nulla nel regno degli odierni carnivori, rappresentando piuttosto appannaggio di mucche, cavalli o giovani rinoceronti.
La ragione di questa crescita anomala è stata più volte studiata e sottoposta ad analisi genetiche alquanto approfondite, approdando alla spiegazione più popolare del fatto che leoni e tigri, al momento della riproduzione, forniscano entrambe ai propri piccoli uno specifico ormone, in grado d’inibire la crescita una volta raggiunta la dimensione che la natura, attraverso lo strumento pluri-secolare dell’evoluzione, è giunta a considerare l’ideale per sopravvivere nei rispettivi ambienti d’appartenenza. Peccato soltanto che tale notazione da iscrivere nel DNA provenga, nei fatti, rispettivamente dal maschio della tigre e la femmina del leone, ovvero l’esatta controparte nell’ipotetica guerra dei sessi tra i due partner presenti nel caso che abbiamo scelto di prendere in considerazione. Il che costituisce soltanto un modo particolarmente elaborato, nonché capace di restare maggiormente impresso, che “Gli incroci tra specie diverse producono risultati inaspettati”. E l’inizio di un qualcosa che avrebbe potuto, in epoche ben più remote di questa, dare inizio alla profusione di razze che oggi ben conosciamo per quanto concerne il gatto e il cane domestici. Certo, con qualche quintale o tonnellata in più di carne da servire per pranzo e per cena, rigorosamente del tutto cruda…

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