La “spinosa” condizione di chi abita dentro a un kaktus di Copenaghen

Uno dei più ricorrenti diagrammi nelle campagne contemporanee di sostenibilità ambientale e transizione ecologica è quello che prevede una collezione di figure umane all’interno di schematizzate rappresentazioni dei veicoli che costituiscono la trama e l’ordito del tessuto urbano. Automobili, in larga parte, motocicli, qualche taxi e in genere un singolo autobus trasparente, con un significativo carico di passeggeri. Questo con lo scopo di mostrare la differenza: da una parte 40 persone ordinatamente in piedi e sedute all’interno di un singolo, vasto abitacolo. Dall’altro, una pari collettività distribuita in altrettanti mezzi di trasporto, con conseguente aumento non soltanto dell’impronta carbonifera, ma anche del caos, gli ingorghi, i problemi di parcheggio etc. Al che potrebbe scorgere spontanea la domanda: perché mai la stessa etica di ragionamento, al punto di svolta a cui siamo arrivati, non dovrebbe essere applicata anche agli spazi abitativi? Perché mai 200 appartamenti necessitano di 200 lavatrici, 200 cucine, 200 sale hobby, 200 soggiorni… Soprattutto quando queste due ultime categorie di amenità, per loro stessa natura, beneficerebbero di essere condotte all’interno di spazi comuni. Giungendo possibilmente a coinvolgere, per loro stessa natura, altri gruppi di persone con la stessa esperienza o visione del tempo libero. È l’esperienza del vivere comunitario dunque, quella al centro dell’ultima creazione dello studio BIG di Bjarke Ingels proprio nella città d’origine e base operativa dell’architetto di fama internazionale che, più di ogni altro, sembrerebbe aver saputo mantenere tematiche d’introspezione ed analisi sociale al centro della propria attività creativa degli ultimi anni. Così come efficientemente dimostrato in questo nuovo approccio all’esigenza di far vivere persone in spazi progressivamente minori. Denominato per l’aspetto estetico del primo esempio costruito ad Esbjerg nel 2019 (nome ufficiale: A Place To) con l’appellativo di torri Kaktus, in riferimento all’insolita e distintiva struttura in larga parte prefabbricata, capace di prevedere un succedersi trasversalmente avvolto su se stesso di balconate triangolari. Come “spine” per l’appunto, della più riconoscibile categoria di piante succulente. Allusione biomimetica che appare nei fatti molto meglio realizzata per la seconda coppia di torri gemelle della capitale danese, alte ed affusolate come altrettanti fusti cilindrici della tipica piantina Echinopsis da esporre in appartamento. “Avremmo potuto chiamarlo palazzo porcospino o riccio di mare” Scherza con uno stile ingenuo ed accattivante il sito ufficiale per gli aspiranti affittuari all’interno della FAQ di supporto “Ma amiamo davvero queste adorabili piante!” Oh, my! Mentre meno evidenza viene attribuita, di contro, all’effettiva logica e concezione di questi edifici costituiti interamente di “appartamenti per studenti” dalla dimensione media di una trentina di metri quadri, disposti come spicchi di un frutto attorno ad una colonna centrale di sostegno contenente gli ascensori e le scale. “A volte potreste anche salire gli 80 metri a piedi o correndo, sarebbe un ottimo esercizio per tenersi in forma.” Ah, ah. Prosegue scherzosamente il botta e risposta ipotizzato dagli addetti al marketing dell’amministrazione. Con una familiarità stranamente reminiscente di un linguaggio che potremmo definire vagamente orwelliano…

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La mangiabile sorpresa tra le spine del “cappello” che accomuna la Turchia e il Brasile

Il fatto che le ogni rosa sia dotata di una significativa quantità di spine non altro che la prova di come tali aculei siano quasi sempre posti attorno a un qualche cosa di desiderabile, o attraente. Dopo tutto la difesa principale delle piante, utilizzata da una varietà notevole di erbe, cespugli o arbusti di molteplici recessi e territori è necessariamente la risposta alla pressione evolutiva imposta da fameliche creature che tendevano a mangiarne la fibrosa e pura essenza, suggerne la linfa più segreta e consumarne le opportunità di vivere e riuscire a riprodursi su questa Terra. una finalità naturalmente perseguita dall’eterno ciclo che produce in un preciso ordine il miracolo floreale, subito seguito dal suo frutto e infine, il seme. Tre sfaccettature di un solo processo, tra cui la seconda è di gran lunga quella più desiderabile per colui che giunge a constatarne la presenza dal gremito regno animale, sia questi erbivoro, onnivoro o semplicemente incline al vandalismo. Non è infatti sempre desiderabile, per tutta una serie di ragioni, che la pianta offra il proprio dono commestibile su di un proverbiale piatto d’argento, soprattutto quando lo strato carnoso esterno che ricopre il suo gambo (ah, cactus!) tende a danneggiarsi con la rimozione troppo anticipata di quel pomo, generando possibili fori d’ingresso per infezioni parassitari del contesto ambientale circostante. Problema, originariamente notato dallo stesso Carlo Linneo autore della prima classificazione, e che doveva nei fatti risultare assai gravoso negli ambienti sudamericani e caraibici, da cui egli iniziò a classificare l’intero genere da circa 40 specie dei Melocactus o cactus “melone”, o testa del Papa, o cappello del Turco. L’ultimo notevole appellativo creato per costituire una diretta risultanza di quella metafora, istintivamente facile da contestualizzare, derivante dall’aspetto della sommità di queste piante: un letterale groviglio di lanugine puntuta, di colore rosso, arancione, giallastro, che ricorda per aspetto e proporzioni il caratteristico copricapo a fez del tardo Impero Ottomano. Pur avendo una funzione che potremmo definire diametralmente all’opposto…

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Le spine di cactus che non nuocciono al palato della nave del deserto affamata

Come flussi che s’intersecano in un vasto delta fluviale, i cambiamenti dell’evoluzione incrociano le rispettive direzioni, mischiano le loro acque, avvicendano la propria forza cinetica nella realizzazione del grande obiettivo: convogliare l’acqua delle aspettative fino al mare delle circostanze finali. Così rincorrendosi, e cercando al tempo stesso di riuscire a primeggiare, lasciano indietro sedimenti, pietrisco, detriti. Mentre il piano dei primordi viene sovvertito ripetutamente, superando l’essenziale regola e la concatenazione della logica apparente. Prendi il caso, per comprendere quei presupposti, che una particolare creatura rappresenti l’assoluto perfezionamento, tramite lunghi millenni di minuti cambiamenti, dello stile di vita del grande mammifero all’interno di un territorio ostile. Il più terribile di tutti: l’arido, inospitale, scarno deserto. Alla stessa maniera, nel contempo, in cui particolari piante hanno scoperto il modo per riuscire a conservare umidità, resistendo con il proprio involucro coriaceo ai ripetuti assalti del clima e degli erbivori alla ricerca di una fonte di sostentamento. È perciò del tutto naturale che la seconda abbia un sapore quanto meno… Delizioso, per il primo e che costui farebbe pressoché qualsiasi cosa, per riuscire ad assaggiare il dolce gusto della polpa contenuta all’interno. Incluso sopportare l’agonizzante sensazione di essere trafitto ripetutamente nella bocca, nelle guance, sulle labbra e nell’arcata del suo grande palato. Fino a diventare, per usare un eufemismo, ESTREMAMENTE bravo a sopportarla.
Il che stupisce in primo luogo perché il qui mostrato cactus dell’Opuntia ficus-indica, inteso come pianta succulenta dalle riconoscibili foglie carnose a forma di pagaia, ha in effetti la sua origine nel territorio geografico del Nuovo Mondo, praticamente alle antipodi del primordiale territorio della bestia in questione. Che poi sarebbe, per dare un nome a questo volto, niente meno che il Camelus dromedarius da una singola gobba, ovvero quello che vediamo in genere associato a una qualsiasi storia o notizia, per non parlare delle confezioni delle sigarette, collegate a questo genere d’animali. Ma non necessariamente utilizzando gli occhi della mente, vista la collocazione ancor più iconica all’interno del senso comune del suo cugino C. ferus/bactrianus con la doppia gobba ed una provenienza più ad Oriente nelle steppe asiatiche fino alla Cina, dove sopravvive lo sparuto gruppo degli ultimi esemplari allo stato brado. Egualmente ghiotti, per quanto possiamo presumere, di queste foglie militarizzate ed auspicabilmente incommestibili senza un’adeguata preparazione umana, benché l’evidenza dei fatti ci dimostri su Internet l’esatto contrario. Come è possibile, dunque, che un genere di creature eurasiatiche dimostri l’effettivo possesso di tratti genetici adeguati alla consumazione di una pianta che, di contro, vede le proprie origini esclusivamente nel continente americano? La storia è più lunga di quanto potreste pensare e dal punto di vista anatomico, straordinariamente interessante…

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La piccola pianta che seduce con la perfezione del suo sorriso

Per certi versi esteriormente simile alla cactacea nota nelle Americhe come Peyote, la pianta sudafricana e della Namibia Conophytum pageae, membra di una famiglia nota come “piccoli fichi” o “piante sasso” ricorda piuttosto quello che potrebbe comparire innanzi ai nostri occhi, una volta consumata la materia della suddetta pianta, dalle ben note qualità allucinogene. Questo per il modo in cui, raccolta in colonie simili ad assembramenti, l’escrescenza dalla forma globulare composta da singoli elementi non più grandi di 2-3 cm presenta al centro delle sue foglie tipicamente simmetriche ma congiunte in un succoso recipiente di umidità e nutrimento presentano nel centro esatto una macchietta rossa-rosata. A sua volta suddivisa, nel punto centrale, da una linea mediana simile alla separazione tra le labbra superiore ed inferiore di un individuo umano. In altri termini, la notevole “pianta delle labbra” o “pianta sedere” potrebbe ricordare, nella descrizione di molti botanici, la parte inferiore di un viso che si appresta a stampare un bacio sulle labbra di una controparte altrettanto verde o spalancarsi per iniziare improvvisamente a cantare. Entrambi termini di paragona largamente sottoposti a disanima, assieme ad altri tipicamente meno appropriati, nelle numerose discussioni sull’argomento, diffuse su Internet a partire da un aumento di popolarità virale sui nuovi canali d’Instagram e TicToc, da parte di collezionisti concentrati nel massimizzare il trend mediante l’implementazione di soluzioni largamente al di fuori della semplice passione per la natura. Nella ricerca del massimo effetto visuale sul pubblico mediante l’aggiunta di un paio di semplici puntini neri se non addirittura gli occhietti adesivi noti googly eyes, ottenendo quella che potremmo individuare come una delle massime espressioni da giardino della pareidolia. Tanto che non sembrerebbe irragionevole pesare, in molti casi, che la pianta nel suo complesso possa essere una creazione artificiale, magari fatta con lo zucchero e la cioccolata come il buffo pasticcino di Halloween che tende periodicamente a riportare alla mente. Mentre la realtà dei fatti implica un esempio di come la natura possa ispirarsi a linee guida indifferenti allo specifico ambito di riferimento, in quanto determinate dalle leggi in ogni caso della massima conservazione dell’energia. Il parrebbe prevedere, nel caso specifico di questa pianta succulenta originaria di un clima particolarmente inospitale e suolo tutt’altro che fertile, la realizzazione di una possibile finestra di osservazione sulla natura occasionalmente tangibile dei cartoni animati.
Relativamente facile da accudire benché vulnerabile ad errori quali metterla sotto la luce solare ininterrotta o fornirgli un’eccessiva quantità d’acqua, questa pianta altrimenti nota come uno dei vygie (da figs) o “(piccoli) fichi calendula” ha dunque spopolato su Internet incrementando le sue vendite internazionali di un alto numero di unità, con un conseguente innalzamento dei prezzi dovuto soprattutto alla difficoltà di reperirne esemplari commercialmente vendibili. Questo non tanto per la rarità, viste le condizioni tutt’altro che a rischio allo stato attuale delle circostanze, quanto il modo in cui dall’attecchimento del singolo seme fino all’emersione della pianta fatta e finita possono trascorrere anche parecchi anni, tra i 10 ed 20, mentre un’intera colonia per l’effetto completo può richiedere anche cinque volte tale cifra. Praticamente la metà di un’intera vita, se vogliamo prendere ad esempio la longevità del secolo trascorso tra gli uomini e donne di questa Terra. Una pianta che si eredita, come se si trattasse di un pappagallo…

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