La statua dei record che commemora l’uomo di ferro dell’indipendenza indiana

Nell’intento nazionale finalizzato a perseguire un’immagine moderna e al passo coi tempi, la costruzione di statue monumentali non è propriamente al centro dei pensieri di un grande numero di capi di stato. Il che può chiaramente offrire, nel contesto di un’investimento significativo di fondi pubblici, una relativa facilità al raggiungimento del proprio obiettivo per chiunque desideri, per una ragione o l’altra, figurare all’interno di un’elenco che ospita, allo stesso tempo, il tempio del Buddha della Primavera in Cina (153 metri) quello di Ushiko in Giappone (120) e l’ormai relativamente piccola, ma nondimeno celeberrima, Statua della Libertà statunitense. Ciò detto tutto cambia nel momento in cui s’intenda non soltanto comparire, bensì occupare il primo posto in quel convegno dei giganti, particolarmente se s’intende farlo a partire dalla fine dell’ottobre del 2018, quando un grande consorzio internazionale guidato dalle compagnie Turner Construction, Michael Graves e Meinhardt, ha portato a termine dopo un periodo di 57 mesi quella che potremmo definire l’opera pubblica più impressionante, nonché notevole, desiderata dall’India in quest’epoca contemporanea. Un’immagine antropomorfa alta quanto un grattacielo, con i suoi 183 metri che si richiamano al numero di seggi nell’Assemblea Legislativa del Gujarat, stato in cui è posizionato, e completamente ricoperta in lastre di bronzo rese scintillanti dall’intensa luce dell’astro solare. Per la maggiore e sempiterna gloria di un personaggio che, pur non essendo famoso su scala internazionale quanto il politico, filosofo e influente figura storica Gandhi, condivise con lui parte dei successi che avrebbero portato, attraverso la disobbedienza civile, la nonviolenza e una lunga serie di astute macchinazioni diplomatiche, alla sofferta indipendenza del paese nel fatidico 1947. E sebbene ci sia una buona probabilità che non molti conoscano ed associno ad un volto, in Occidente, alla figura del vice-primo ministro del paese per i tre anni successivi, Vallabhbhai Patel, persiste da generazioni una corrente di pensiero in patria che l’avrebbe visto, al posto della figura talvolta controversa del suo capo di governo Jawaharlal Nehru, come l’ideale successore del percorso cominciato dal Mahatma, grazie alla notevole integrità e fermezza, che gli avrebbero riservato il compito di convincere a rinunciare al potere, l’uno dopo l’altro, i principi del 565 stati autogestiti oggi corrispondenti a una significativa parte del territorio indiano.
Missione almeno in apparenza impossibile, come doveva sembrare in linea di principio anche la costituzione del più grande omaggio offerto dai suoi discendenti alla memoria di costui, entro cui confluiscono una grande quantità d’innovazioni tecnologiche ed accorgimenti finalizzati a massimizzarne la durevolezza, permettendogli di resistere almeno sulla carta a raffiche di vento di fino a 180 Km/h, terremoti del 6,5 della scala Richter e un qualsiasi cedimento ragionevolmente immaginabile della vicina diga di Sardar Sarovar, grazie alla posizione elevata scelta per disporre le sue notevoli fondamenta completamente in metallo, create in parte con gli attrezzi agricoli donati dalla popolazione attraverso una campagna condotta nelle regioni più remote dello stato del Gujarat. Già perché a ulteriore corredo della sua esistenza così memorabile ed insolita, come sito per la statua è stato scelto il paesaggio alquanto inaccessibile della valle del fiume Narmada nella regione di Kevadia, a 100 Km dalla città più vicina di Vadodara ed oltre 150 dalla grande metropoli di Surat, senza nessun tipo di collegamento ferroviario e costringendo quindi i visitatori a raggiungerla con mezzi propri o un servizio di corriere che potremmo paragonare a quelle usate per i pellegrinaggi religiosi presso i siti sacri della nostra distante penisola europea. Per una collocazione capace di donare al monumento, visibile dalla distanza di circa 7 Km in ogni possibile direzione, quella valenza quasi paesaggistica che sembra renderlo una parte inscindibile del suo stesso territorio, piuttosto che l’opera urbana ed arbitraria dell’uomo. Quale miglior modo, di accrescere e custodire il mito di un eroe!

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Mondi alternativi: le impreviste implicazioni pratiche di un’elica stradale

Dal punto di vista dell’ingegnere aeronautico francese Marcel Leyat, laureatosi verso l’inizio del Novecento e che aveva costruito il suo primo aeroplano nel giro di appena una decina d’anni, si trattò di un’osservazione, e conseguente sviluppo tecnico, del tutto naturale. Perché mai, si chiese infatti, l’Europa avrebbe dovuto seguire l’esempio dettato dalla “Lucertola di latta” immessa sul mercato all’altro capo dell’Atlantico da Mr. Ford? Con albero di trasmissione, leva del cambio, meccanismo dello sterzo anteriore finalizzato a traslare il movimento rotativo di un volante. Quella Model T che era relativamente affidabile, economica e semplice da produrre, ma anche il culmine di un lungo processo ingegneristico, che per molti versi rappresentava il più tipico esempio di una soluzione complicata al più intuitivo dei problemi: spostare una persona, ed eventualmente la sua famiglia, da un luogo all’altro della città e del mondo. Laddove l’aeroplano, di suo conto, presentava comparabilmente un approccio dall’immediatezza notevole, con il suo semplice blocco del motore, un’elica davanti e superfici di controllo controllate in maniera per lo più diretta mediante l’impiego di una serie di cavi. Una volta eliminate quindi le severe tolleranze necessarie a costruire un qualche cosa che dovrà materialmente staccarsi da terra, ovvero la coda e le ali, tutto ciò che resta è il concetto di un veicolo ridotto ai minimi termini, eppure in grado di competere dal punto di vista funzionale con qualsiasi altro apparato stradale costruito fino a quel fatidico momento. Era quindi già il 1913, quando Leyat fondò a Parigi la sua compagnia Helica, dal termine greco riferito al concetto di “spirale” già utilizzato per la raison d’être di tanti motori navali e volanti, qui riferito d’altra parte per la prima volta ad un qualcosa di concepito al fine di spostarsi lungo un tragitto veicolare terreno. Così il suo primo prototipo, costituito quello stesso anno, si presentava come un corpo aerodinamico di legno poggiato su tre ruote, due davanti ed una dietro, con un singolo propulsore in legno nella parte anteriore, capace di spingerlo con indubbia e formidabile efficienza. Sebbene alcune concessioni andassero non di meno effettuate, nei confronti dell’eventualità sempre presente di finire contro oggetti, animali o persone, che avrebbero finito per venire letteralmente disintegrate dall’alabarda rotante capace di raggiungere molti giri al secondo. Nulla di simile tuttavia, per fortuna, ebbe modo di realizzarsi durante i suoi limitati giri di prova effettuati fino allo scoppio della grande guerra nel 1915, evento a seguito del quale il suo sogno venne, necessariamente, accantonato. Il che condusse d’altra parte a una fortuna inaspettata, quando al termine del conflitto il grande numero di aeroplani e relativi componenti ritenuti non più utili inondarono il mercato, permettendogli finalmente di sperimentare su larga scala. Dopo alcuni tentativi effettuati a partire dal ’18, che vedevano l’elica posizionata stavolta in posizione più alta della testa del pilota con il fine di proteggere i passanti e successivamente incapsulata in un cerchio protettivo, ragionevolmente affine a quello di una moderna soluzione aeronautica intubata (sebbene di gran lunga troppo corto per aumentare la generazione di spinta) che vedeva inoltre il passaggio dalle tre alle più stabili quattro ruote, Leyat approdò quindi al metodo che sarebbe diventato maggiormente rappresentativo della sua azienda. Una vera e propria rete, costruita con fili metallici, paragonabile a quella di un ventilatore casalingo…

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La storia dei tre sopravvissuti alla drammatica Pompei del Nuovo Mondo

In una delle sequenze maggiormente memorabili del film a cartoni animati musicale/disneyano Fantasia, il poema sinfonico di Petrovič Musorgskij “Notte sul Monte Calvo” diventa la base per una frenetica esplorazione del regno infernale, trasportato nella notte delle streghe oltre il confine della superficie terrestre. Ci sono i rumori delle voci non umane, i diavoli che strisciano nell’ombra, gargoyle, spettri affamati e infine c’è l’apparizione del grande Čërnobog, sommo Diavolo e signore della natura, con le grandi ali aperte al fine di tenersi in equilibrio, tra fuoco e fiamme, sopra un alto picco puntato all’indirizzo delle fosche nubi soprastanti. Una forma geologica tanto infausta e minacciosa quanto evidentemente precaria, che tanto spesso ricompare nelle rappresentazioni dell’Apocalisse, finale o transitoria, come una sorta di richiamo allo stile Gotico della fine dei giorni. Rara eppure, non del tutto sconosciuta per le cronache dei nostri giorni, considerato come a seguito dell’eruzione della più celebre tra tutte le montagne che abbiano mai potuto possedere lo stesso profetico nome (Pelée ovvero priva di capelli o alberi) fosse stata in grado di costruire nel 1902 un paragonabile edificio, alto 350 metri e con un diametro alla base di oltre 100. Ma sottile, in proporzione, quanto la punta di una spada formidabile, puntata contro il cuore stesso della civiltà umana, al culmine di un triste racconto finito per costare oltre 30.000 anime perdute al territorio del mondo.
Molte storie simili, soprattutto quando accompagnate da una tetra morale, cominciano con il racconto di uno stato ideale affine al Paradiso in Terra e da questo punto di vista, la catastrofe dell’isola di Martinica nelle Antille non fa certo eccezione. Luogo tanto ameno da essere stato definito al termine del XIX secolo come la “Parigi delle Indie Occidentali”, con uno standard di qualità della vita largamente superiore alla maggior parte degli altri paesi dei Caraibi, un’agricoltura e industria artigianale di primo piano. Particolarmente nel contesto parzialmente francofono della capitale Saint Pierre, il cui destino all’insaputa di ogni singolo abitante, verso aprile di quell’anno era già stato segnato dal trascorrere dei giorni. Non che i segnali, per quanto fosse possibile osservare aprendo un funzionale paio di occhi, stessero tardando a presentarsi: a partire dall’aprirsi delle nuove fumarole sul fianco della montagna, con copiosa emissione di cenere che ricadeva sui campi e l’inspiegabile rottura di un cavo del telegrafo sotterraneo, letteralmente fuso dalle significative temperature raggiunte durante quelle notti cruciali. Dopo il calar del sole il 2 maggio quindi, una piccola eruzione scagliò materiale incandescente nel cielo notturno, uccidendo una certa quantità di uccelli e forse, si ritiene, anche i pesci nel mare. Ma nessuno, per svariate ragioni, sembrava pronto a far mente locale su quello che sarebbe potuto succedere, di lì a poco. Tanto per cominciare, in quanto il monte Pelée era stata una presenza costante nella storia pregressa di quei luoghi, più volte pronto ad agitarsi ma che mai, prima di allora, si era dimostrato in grado di causare un qualsivoglia tipo di grave conseguenza. Inoltre, fattore non da poco, entro la metà di maggio erano previste le attese elezioni per il sindaco della città, ragion per cui nessuno dei politici al comando sembrava intenzionato a disturbare la quiete pubblica con un’evacuazione che sarebbe stata non soltanto probabilmente inutile, ma un vero e proprio incubo logistico prima delle moderne telecomunicazioni ed il concetto stesso di protezione civile. Così persino quando il 5 maggio, con la tracimazione dal cratere di una possente frana di fango incandescente (lahar) un’intera piantagione venne distrutta con la conseguente morte di 20 persone per lo più di colore, la città scrollò metaforicamente le spalle e continuò a vivere come se nulla fosse accaduto. Quando mai, dopo tutto, la forza della natura avrebbe potuto contrastare l’ingegno e la possenza degli edifici costruiti, con solida pietra, come parte del contratto univoco chiamato dalla storia “Colonialismo europeo”!

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Il viaggio videografico della monorotaia che attraversa il tempo

Mostra una Germania ormai sparita da tempo e colorata da un’intelligenza artificiale, così come tante immagini altrettanto antiche del resto d’Europa, l’inquadratura che occupa la parte sinistra del presente video, contrassegnato da un logo del MoMA (Museo dell’Arte Moderna) di New York. E la data implicita, proprio perché tanto famoso, del 1902, di un solo anno successiva all’apertura del primo binario, di quella che avrebbe preso il nome pubblicamente utilizzato, entro pochi mesi, di Wuppertal Schwebebahn. Ovvero Ferrovia Sospesa dell’eponima cittadina da svariate migliaia di abitanti, situata nel cuore della Renania Settentrionale-Vestfalia e destinata a diventare nel giro di poco tempo esponenzialmente più grande, all’ingrandirsi oltre i confini dei borghi vicini. Un processo che potremmo attribuire alla naturale tendenza della popolazione a trasferirsi in contesti urbani al principio dell’epoca moderna & contemporanea, ma anche, o almeno in parte, all’efficace idea venuta personalmente al celebre ingegnere di Colonia Eugen Langen, colui che dopo aver perfezionato quasi trent’anni prima il motore a combustione interna assieme al francese Étienne Lenoir, aveva deciso di dedicarsi anima e corpo alla progressione tecnologica del concetto universalmente utile di ferrovia sopraelevata. Per una visione che nel 1824, con il patrocinio dell’imprenditore prussiano Friedrich Harkort, era stato dimostrata in linea di principio a Wuppertal tramite l’applicazione su scala ridotta del notevole sistema dell’inglese Henry Robinson Palmer, in base a cui una singola rotaia sopraelevata sarebbe stata utilizzata per trasportare un carico sfruttando l’energia muscolare di un traino di cavalli al livello della strada sottostante. Ciò detto per chiunque abbia presente la precisa dislocazione urbanistica di quel borgo, tale soluzione sarebbe stata destinata ad apparire non risolutiva, dato l’alto numero di strade curvilinee, i quartieri incastrati come pezzi di un puzzle ed il largo fiume che taglia in due il centro abitato. Ecco quindi che il progetto avrebbe presto naufragato, con l’ulteriore condanna presso il concilio cittadino da parte delle fabbriche e degli opifici che ritenevano di essere stati (necessariamente) tralasciati nel suo percorso. Il tempo necessario perché si tornasse a visitare l’idea fu a partire da quel giorno indubbiamente significativo, visto come l’amministrazione di Wuppertal non avrebbe parlato di monorotaia per esattamente 61 anni, fino alla riunione con le istituzioni confinanti per scegliere tra i potenziali appalti, finalmente, l’approccio perfettamente risolutivo di Eugen Langen.
Che poi sarebbe ancora lo stesso, con moderati perfezionamenti operativi, da cui provengono le immagini nella parte destra del video, registrato nel 2015 dalla cabina di guida dell’ultimo modello di treni in uso su quei secolari binari.
Non costituisce quindi un’esagerazione affermare che il sistema ferroviario sopraelevato in questione, con la sua alimentazione di tipo elettrico, sia il più antico ancora operativo in Germania e nel Mondo, con un trasporto annuale stimato attorno ai 25 milioni di passeggeri. Oltre al vanto di aver aperto la strada e la mente collettiva nei confronti di questa particolare soluzione tecnologica, destinata a trovare in futuro valide applicazioni fino alle terre del più distante Oriente. Perché contrariamente a quanto potreste essere indotti a pensare, ci sono molti validi vantaggi, e soltanto alcune problematiche di portata significativa, nel concetto di appendere i vagoni ferroviari sotto una rotaia sopraelevata, in qualità di processo tecnologico finalizzato al trasporto d’individui fino alla destinazione finale. Vediamo a questo punto, in una piccola ma in qualche modo significativa rassegna, d’analizzarli…

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