La storia dei tre sopravvissuti alla drammatica Pompei del Nuovo Mondo

In una delle sequenze maggiormente memorabili del film a cartoni animati musicale/disneyano Fantasia, il poema sinfonico di Petrovič Musorgskij “Notte sul Monte Calvo” diventa la base per una frenetica esplorazione del regno infernale, trasportato nella notte delle streghe oltre il confine della superficie terrestre. Ci sono i rumori delle voci non umane, i diavoli che strisciano nell’ombra, gargoyle, spettri affamati e infine c’è l’apparizione del grande Čërnobog, sommo Diavolo e signore della natura, con le grandi ali aperte al fine di tenersi in equilibrio, tra fuoco e fiamme, sopra un alto picco puntato all’indirizzo delle fosche nubi soprastanti. Una forma geologica tanto infausta e minacciosa quanto evidentemente precaria, che tanto spesso ricompare nelle rappresentazioni dell’Apocalisse, finale o transitoria, come una sorta di richiamo allo stile Gotico della fine dei giorni. Rara eppure, non del tutto sconosciuta per le cronache dei nostri giorni, considerato come a seguito dell’eruzione della più celebre tra tutte le montagne che abbiano mai potuto possedere lo stesso profetico nome (Pelée ovvero priva di capelli o alberi) fosse stata in grado di costruire nel 1902 un paragonabile edificio, alto 350 metri e con un diametro alla base di oltre 100. Ma sottile, in proporzione, quanto la punta di una spada formidabile, puntata contro il cuore stesso della civiltà umana, al culmine di un triste racconto finito per costare oltre 30.000 anime perdute al territorio del mondo.
Molte storie simili, soprattutto quando accompagnate da una tetra morale, cominciano con il racconto di uno stato ideale affine al Paradiso in Terra e da questo punto di vista, la catastrofe dell’isola di Martinica nelle Antille non fa certo eccezione. Luogo tanto ameno da essere stato definito al termine del XIX secolo come la “Parigi delle Indie Occidentali”, con uno standard di qualità della vita largamente superiore alla maggior parte degli altri paesi dei Caraibi, un’agricoltura e industria artigianale di primo piano. Particolarmente nel contesto parzialmente francofono della capitale Saint Pierre, il cui destino all’insaputa di ogni singolo abitante, verso aprile di quell’anno era già stato segnato dal trascorrere dei giorni. Non che i segnali, per quanto fosse possibile osservare aprendo un funzionale paio di occhi, stessero tardando a presentarsi: a partire dall’aprirsi delle nuove fumarole sul fianco della montagna, con copiosa emissione di cenere che ricadeva sui campi e l’inspiegabile rottura di un cavo del telegrafo sotterraneo, letteralmente fuso dalle significative temperature raggiunte durante quelle notti cruciali. Dopo il calar del sole il 2 maggio quindi, una piccola eruzione scagliò materiale incandescente nel cielo notturno, uccidendo una certa quantità di uccelli e forse, si ritiene, anche i pesci nel mare. Ma nessuno, per svariate ragioni, sembrava pronto a far mente locale su quello che sarebbe potuto succedere, di lì a poco. Tanto per cominciare, in quanto il monte Pelée era stata una presenza costante nella storia pregressa di quei luoghi, più volte pronto ad agitarsi ma che mai, prima di allora, si era dimostrato in grado di causare un qualsivoglia tipo di grave conseguenza. Inoltre, fattore non da poco, entro la metà di maggio erano previste le attese elezioni per il sindaco della città, ragion per cui nessuno dei politici al comando sembrava intenzionato a disturbare la quiete pubblica con un’evacuazione che sarebbe stata non soltanto probabilmente inutile, ma un vero e proprio incubo logistico prima delle moderne telecomunicazioni ed il concetto stesso di protezione civile. Così persino quando il 5 maggio, con la tracimazione dal cratere di una possente frana di fango incandescente (lahar) un’intera piantagione venne distrutta con la conseguente morte di 20 persone per lo più di colore, la città scrollò metaforicamente le spalle e continuò a vivere come se nulla fosse accaduto. Quando mai, dopo tutto, la forza della natura avrebbe potuto contrastare l’ingegno e la possenza degli edifici costruiti, con solida pietra, come parte del contratto univoco chiamato dalla storia “Colonialismo europeo”!

L’obelisco temporaneo del Monte Calvo della Martinica fu motivo di fascino per molti studiosi, tra cui il francese Angelo Heilprin, che paragonandolo alle “svettanti meraviglie della Terra” come il Matterhorn o il Grand Canon del Colorado, lo trattò lungamente in una serie di documenti scientifici pubblicati a partire dal 1904.

Il 6 maggio, quindi, la lava iniziò a solidificarsi sulla sommità del cratere, dando la prima forma a quella struttura a forma di cupola, simile a un diapiro, che un giorno non lontano da quella data sarebbe diventata così affine al trespolo del grande demone disneyano. Nessuno, tuttavia, era pronto alla catastrofe senza nessun tipo di appello che sarebbe discesa da quello stesso sito nel giro di un paio di giorni; una nube piroclastica, composta da cenere, gas e detriti riscaldati fino alla temperatura di 400 gradi Celsius, scagliata alla velocità di molti chilometri orari fino alle distanti coste di un’isola un tempo amena. Per il fenomeno che prende non a caso il nome di eruzione pliniana, dalla vivida descrizione che lo storico Plinio il Giovane fece nel 79 d.C del feroce Vesuvio, alla completa distruzione della città romana di Pompei. E come in quel caso (quasi) nulla e nessuno avrebbe avuto modo di restare integro al passaggio di una così orribilmente fulminea tempesta. Così alle 7:50 di un giorno particolarmente cupo, causa l’incombenza delle grandi nuvole di cenere, la montagna scelse di averne avuto abbastanza. E nel giro di pochi attimi, 30.000 persone persero istantaneamente la vita.
La totale distruzione di una città è un concetto che in maniera alquanto sorprendente ed inaspettata, riesce ad eludere completamente la cognizione del senso comune. Altrimenti come spiegare, nella storia pregressa dell’epoca industriale, le svariate casistiche in cui venne causata con purissimo intento e crudele deflagrazione? Ma il caso dell’isola di Martinica, persino in quel tetro catalogo, appare particolarmente spietato. Con la furia vendicativa degli elementi, seguendo l’obiettivo di un’entità suprema come la Morte stessa, la nube piroclastica girò attorno agli edifici, entrò dentro le case, passò sotto le porte lasciando solamente corpi senza vita sul suo passaggio. E nessuno sembrò in grado, nonostante la prontezza di riflessi, di riuscire a mettere in salvo la propria vita. Ecco perciò, dove avrebbe avuto modo di brillare tenue una scintilla d’insperata rivalsa futura: per la sorte che talvolta, opera in maniera non sempre facile da riuscire ad interpretare. Vedi il caso di Havivra Da Ifrile, l’unica bambina e proprio per questo innocente dei tre celebri sopravvissuti alla catastrofe, che al sopraggiungere dell’ora X si trovava, per una passeggiata mattutina prima della messa, lungo una strada fuori città chiamata “il cavatappi” causa forma del declivio non particolarmente congeniale. Proprio quella stessa forma che gli avrebbe permesso, tuttavia, di deviare il corso della nube piroclastica sopra la testa della piccola, che a quel punto corse via terrorizzata fino alla barca del fratello, con la quale si rifugiò all’interno di una caverna costiera dove era solita giocare ai pirati coi suoi coetanei del paese appena vaporizzato. Chi e come l’avrebbe salvata in seguito, resta un mistero.
Ancor più irta fu la strada verso la salvezza di Léon Compère-Léandre, calzolaio di mezza età ed etnia incerta, il cui negozio situato proprio ai confini del corso della nube piroclastica era stato scelto come rifugio da un certo numero di passanti, che nonostante ciò morirono orribilmente ustionati di fronte ai suoi stessi occhi, così come il padre che dormiva al piano di sopra in quell’ora fatale. Perché mai egli sopravvisse, dunque, resta ad oggi un mistero, con teorie che lo posizionano a seconda dei casi nascosto in soffitta, sotto un pesante tavolo, piuttosto che nell’acqua del mare antistante, che lo avrebbe ustionato gravemente permettendogli tuttavia di avere salva la vita. Fatto sta che l’uomo riuscì quindi a correre fino alla città vicina di Fort-de-France, dove sarebbe stato reclutato a forza assieme agli altri membri della milizia costituita in tutta fretta per impedire i saccheggi nelle rovine di Saint Pierre. Veste nella quale, il 30 agosto, avrebbe sperimentato il passaggio di un’ulteriore nube piroclastica, che stavolta lo lasciò completamente illeso. Egli avrebbe quindi continuato a vivere serenamente sull’isola fino al giorno distante della sua morte, quando nel 1936 morì per una caduta accidentale non connessa a una così drammatica esperienza.

Il concetto di eruzione pliniana resta uno dei disastri da cui è più difficile salvarsi, dato il verificarsi improvviso e l’onda di calore abbastanza intesa da lasciare soltanto devastazione sul suo cammino. A meno di trovarsi, grazie alla fortuna di quegli attimi, al sicuro.

Ma forse la storia più strettamente legata alla vicenda dell’isola di Martinica resta quella di Ludger Sylbaris, l’uomo di etnia africana che ne sarebbe diventato il simbolo già in epoca coéva, stabilendo un corso degli eventi che riesce quasi a sconfinare nella leggenda. In un racconto che ha tutto, a partire dalla prefazione che lo vede commettere un crimine non meglio specificato, propri nella notte antecedente al disastro. Secondo alcuni quello di ubriacarsi finendo per fomentare una piccola rivolta, sebbene altre interpretazioni lo vedano uccidere una sua conoscenza durante un duello con i coltelli. Cause altrettanto valide, a quanto sembra, per essere confinati nella speciale cella semi-sotterranea d’isolamento, di cui era stata fornita in epoca pregressa la città di Saint Pierre. Un luogo che può essere ancora ammirato tra le rovine mai realmente ricostruite dell’insediamento, ed all’interno del quale egli si trovò ad essere durante la discesa della devastante nube finale. Ora, riuscite ad immaginare un luogo peggiore per vivere quegli attimi di esiziale condanna? Chiusi in trappola, senza nessun modo per mettersi in salvo… Senza neanche, a dire il vero, una ragione valida per morire! Architettura pregressa volle infatti che la porta della cella, con l’unica presa d’aria di una stretta finestra, si trovasse rivolta dalla parte opposta rispetto al terribile vulcano. E che Sylbaris, che l’aveva ostruita tempo prima con i propri vestiti imbevuti di urina per non essere soffocato dal fumo, si era garantito accidentalmente un bunker totalmente impenetrabile da parte della grande ondata ardente.
Trascorsero le ore, quindi, mentre il prigioniero cercava per quanto possibile di non pensare alla gravità delle ustioni riportate sulle braccia e la schiena, quando le prime squadre di salvataggio udirono per la prima volta le sue grida disperate. Così il sopravvissuto venne tirato fuori dalla cella ed almeno così si racconta, completamente perdonato del crimine che aveva commesso. Un risvolto in grado di concedergli, con un finale a sorpresa, la partecipazione come primo membro nero del grande circo dei Ringling Bros, che l’avrebbe portato in tour per tutte le Americhe col soprannome di “Uomo che aveva visto l’Apocalisse” e che nonostante ciò “Era sopravvissuto per raccontare la storia”.
Storia destinata a lasciarci in eredità, dopo tutto, un importante valore aggiunto. Poiché all’umanità venne duramente ricordato, in quel saliente attimo, quanto improvvisa e inarrestabile potesse risultare la furia del silenzioso sottosuolo in attesa. Così che il Dipartimento Geologico Francese, proprio a partire da quell’evento, avrebbe creato il termine ancora utilizzato di nuée ardente, nuovamente applicato all’eruzione del monte di Sant’Elena del 1980. Destinato a costare la vita a “solo” 57 persone e qualche migliaio di animali, ma chi può dire cosa sarebbe successo anche in quel caso, se l’oscura torre avesse gettato ancora una volta la sua ombra sulle case di una città insonne…

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