Terrore coreano e l’ultimo nababbo da mangiare per il mostro che raggiungerà il paradiso

Pensavo, sotto l’ampia tesa del mio traslucido cappello: “Sia dannato quel funzionario civile di VI livello, facente-funzione di addetto alle riscossioni pecuniarie, Namgung.” E dannata la sua festicciola organizzata per il festival del quarto mese, Chuseok. Nella tenuta in cima alla collina periferica di Changwon, singola città maggiore del Gyeongsang. Che in questo grande Impero di Silla, era stata designata come un’entità amministrativa indipendente, proprio per permettere alla classe dirigente di gestire in modo autonomo, situazioni come questa. “Offrire vino di riso cheongju ai suoi sottoposti, per poi fargli astute domande collegate alle particolari circostanze dei loro esami di stato! Mettere ME, alla berlina! Perché non ricordavo almeno una poesia creata durante il vecchio regno di Goguryeo!” E poi pronunciare quell’elaborato insulto… Ma mentre tentavo di rievocare dal profondo le parole esatte utilizzate da Chuseok, udii un tremendo suono ripetuto. Bii-Bii, Bii-Bii. E ancora in mezzo agli alberi di canfora, piantati lungo il viale che portava alle magioni degli Yangban: Bii-bii, bii-bii, HARRUMPH. E allora estratto il rigido ventaglio simbolo del mio ruolo ufficiale, la puntai tremante innanzi quando capii che un qualcosa d’imponente stava per frapporsi sul mio cammino. La testa irsuta, sormontata da un grosso paio di corna. I denti aguzzi come quelli di un coccodrillo. Le lunghe maniche a coprire arcuati artigli, tra i quali stringeva una lunga pipa di salice intagliato. Con voce stentorea ed uno strano accento, l’essere soltanto vagamente antropomorfo parlò, mentre gli alberi si ripiegavano a formare le pareti di un teatro. “Ah, UMANO. Inconsapevole, pochi minuti fai sei transitato nel mio reame. Da queste parti, mi chiamano Yeongno. Lascia che ti parli dei precisi termini di una maledizione. La MIA maledizione. Che sto per infrangere, stasera.” La bestia si sedette allora lungo il singolo passaggio tra le fronde, e narrò a lungo la sua triste vicenda. Di come Budda in cima alla montagna, accantonato per ferrei decreti mentre il popolo si trovava costretto a seguire il pragmatismo del vecchio Confucio, aveva imposto al suo infedele e un tempo facoltoso servitore di arrestare l’incessante ciclo delle reincarnazioni. Poiché infausto era il karma accumulato in vita, al punto che avrebbe dovuto lasciare il mondo meglio di come l’aveva trovato, “Risparmiando nonni e bisnonni”. Eppur divorando dalla testa ai piè un totale di dieci decine di yeongno, gli indegni funzionari designati dell’Impero di Silla, prima di poter lasciare finalmente questa valle crudele. “Capisci cosa intendi, amico mio? HARRUMPH. Novantanove ne ho mangiati, novantanove al conteggio attuale. Sono quasi salvo!” E con fare stranamente tranquillo, spalancò la grande bocca simile a quella di un cavallo di fiume.
Eppur mentre l’orribile creature si avvicinava con fare ingombrante, ebbi l’ultimo tremore di un’idea. Questa sera, avrei tentato il tutto per tutto, piegando il mondo stesso al mio bisogno. Avrei parlato di figli e di nipoti avuti grazie alla mia amata moglie, tecnicamente non ancora esistente. E SOLTANTO da un punto di vista pratico, non ancora venuti al mondo…

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Il molti volteggi del Kumpo, segreto moralizzatore ricoperto dalle foglie di palma

Nel giorno attentamente prefissato, eppure mai esplicitamente dichiarato, Egli giunse sui confini del villaggio infuso dello spirito sacrale del cambiamento. Trasfigurato dal breve soggiorno in un boschetto sacro, la sua presenza era umana eppure non più umana, senziente ma inconsapevole, magnifica e terribile al tempo stesso. Qualcuno, alternativamente, avrebbe potuto definirlo un supereroe o un fantasma. I primi a scorgerlo mentre giocavano spensieratamente, erano i bambini sulla piazza, che improvvisamente s’immobilizzarono sul posto. Avvolti da un silenzio surreale, alcuni di loro corsero immediatamente verso casa, mentre altri si fecero il segno della croce o rivolsero una preghiera silenziosa ad Allah. Eppure nessuno, qualunque fosse la sua fede in termini monoteisti, sembrò riuscire a rimanere indifferente. Pochi minuti dopo, i giovani celibi ed i loro genitori emersero dall’uscio delle dimore, venendo in strada per recare un saluto rispettoso alla sapiente Creatura. Il Kumpo, da parte sua, non sembrò in alcun modo ricambiare quel gesto. Di sicuro, non è facile risultare espansivi quando ci si presenta in tale guisa: senza un volto, senza braccia, nessun profilo riconoscibile del corpo. Bensì un ammasso indiscutibilmente vegetale nell’apparenza, che allude vagamente alla trascendenza. Dopo aver percorso entrambe le vie principali di quel piccolo insediamento senegalese, l’essere scomparve dunque nuovamente oltre una piccola macchia d’arbusti, lasciando il posto a uno sparuto gruppo di seguaci dall’aspetto sacerdotale. Alcuni raccolsero le offerte libere per la loro società itinerante. Altri si assicurarono che l’appuntamento fosse chiaro: ai primi segni del tramonto, lo spettacolo avrebbe avuto inizio. Guai, a chi fosse mancato!
Ora le donne armate di vanghe, zappe e pentole impiegate come tamburi, iniziavano a battere ritmicamente una musica importante. Tramandata dalle loro madri, e le madri delle loro madri, fino al punto di essere indissolubilmente associata a tale occasione. Come un leone incuriosito dal richiamo delle sue prede, il Kumpo comparve dunque in mezzo a loro, materializzandosi improvvisamente dal nulla. Questa volta era armato. Correndo su gambe invisibili, la sua forma irregolare sembrò mutare e assumere contorni sfocati, poco prima di piantare il lungo palo appuntito sopra la sua testa nella terra battuta del punto d’incontro comunitario. E finendo per dare soddisfazione a un senso d’aspettativa quasi tangibile, iniziò a ruotare freneticamente su se stesso. La trottola del mondo astrale, al confronto, non era nulla. E più l’ineffabile creatura continuava a ruotare, maggiormente gli uomini e donne della discendenza tradizionale sembravano rapiti da un solenne senso d’aspettativa. Finché il movimento cessò, e il Kumpo cominciò a parlare nella propria lingua comprensibile a stento. Un interprete avrebbe tradotto chiaramente le sue parole. Trasmettendo il contenuto di un messaggio Importante. Nessuno, a meno di essere costretto, sarebbe andato in seguito contro i voleri di un ancestrale spirito della Natura affine all’uomo ed i suoi imprescindibili bisogni…

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L’isola che intaglia demoni per affrontarli al suono dei suoi tamburi

Terra emersa tropicale sita nell’estremo meridione del subcontinente indiano, lo Sri Lanka costituisce ad oggi un territorio culturale in larga parte inesplorato, a causa del succedersi di svariati periodi politicamente e religiosamente interessati a cancellare i segni del suo passato. Gli Olandesi, i Portoghesi e infine i Britannici, la cui presa ed il dominio in territorio indiano avrebbero modificato profondamente il corso della storia dell’Asia meridionale. Incluso questo luogo sincretistico in cui molte culture avevano già avuto modo d’incontrarsi, tra cui l’importazione geograficamente non coincidente delle danze ed altre pratiche celebrative del distante stato del Bihar. Dove in mezzo alle colline dell’entroterra, i diversi popoli erano soliti compiere le proprie venerazioni al suono della musica, con l’aiuto di un’intera categoria professionale dedita alla personificazione, e successiva interpretazione del ruolo delle divinità. Ma ciò che essi non avevano mai conosciuto, per la vicinanza di un diverso tipo di culture dedite all’astrazione, era il particolare stile e la perizia artigianale delle maschere di legno indonesiane, gradualmente trasportate, vendute e filtrate fino alle distante sponde di quel centro commerciale proiettato nell’Oceano Indiano. Ciò detto e tutto considerato, nonostante alcune citazioni filologiche in lingua Sinhala risalenti al XIII e XIV secolo, relative al modo per “camuffarsi” ed “interpretare” diversi ruoli, non si hanno prove pratiche di una lunga tradizione pregressa nella costruzione delle maschere in terra di Ceylon. Soprattutto per quanto concerne il principale stile odierno del ves muhunu (“volto del personaggio”) in molti modi preso in prestito e modificato non prima del 1800 dalle tecniche produttive dell’isola di Bali, con suoi rituali simboli e sincretistici legati a metodologie sciamanistiche dalla derivazione fondamentalmente ancestrale. Fino alla messa in opera di una fiorente produzione, centrata in modo particolare nella parte sud dell’isola, dove la trasmissione ereditaria l’ha condotta fino a noi, nella guisa d’importante ausilio folkloristico ed al tempo stesso, lucrativa merce messa in vendita nelle boutique e nei negozi di souvenir per turisti. Lasciando come luogo maggiormente utile, per chi volesse veramente conoscere lo stile e la funzione delle maschere cingalesi, un particolare luogo situato presso la città costiera di Ambalangoda, noto come Fabbrica e Museo di Ariyapala. Edificio sufficientemente ampio da riuscire a contenere la più notevole collezione di mostri, demoni e figure tipiche del teatro isolano, assieme all’opportunità di vedere i loro creatori all’opera ed anche acquistare, ai prezzi più diversi, un pezzo inconfondibile di questo tipo d’artigianato culturalmente rilevante. Chiunque dovesse lasciare queste sale, tuttavia, con l’impressione di essersi trovato in una trappola per turisti, dovrebbe essere non solo prevenuto ma privo di nozioni relative all’effettiva discendenza delle maschere e l’impiego che quest’ultime hanno avuto, nel corso dell’ultimo e travagliato secolo di storia locale…

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L’impressionante popolo dei fantasmi con la maschera di fango

Il potente veicolo fuoristrada in grado di trasportare fino a 10, 15 turisti sembra frenare improvvisamente, avendo raggiunto la sommità del sentiero che conduce fino al famoso panorama del monte Gurupoka. La guida c’invita quindi, con gesto magniloquente, ad avvicinarci tutti al grosso sportello laterale, valico capace di condurci verso il vasto panorama promesso. Eppure, è mai possibile? Nello sguardo dell’uomo sembra figurare l’espressione e lo strano sorriso di colui che mantiene un segreto, di gran lunga troppo inopportuno per essere condiviso coi presenti. Dopo un attimo d’esitazione, scendo anch’io sul suolo sterrato, in mezzo ad una notevole macchia di felci mamaku, l’arbusto dalla forma paragonabile ad una palma altresì detto felce nera (Cyathea medullaris). Ma non faccio in tempo ad avvicinarmi al bordo del baratro al di là di una simile finestra naturale, che ai margini del campo visivo scorgo un inqualificabile movimento. Il quale poco a poco, si trasforma nella sagoma di una persona, con la pelle tinta di bianco. O meglio quella che potrebbe anche esserlo sotto ogni punto di vista, fatta eccezione per l’enorme testa cornuta, dai lineamenti appena visibili paragonabili a quelli di un gorilla, le zanne prominenti prelevate direttamente dalla carcassa di un cinghiale. Un dettaglio che mi sarebbe probabilmente sfuggito, nella penombra della foresta, se non fosse stato per il lieve rumore prodotto dalle due grandi foglie che costui, per motivi tutt’altro che chiari, agita rumorosamente su e giù, fino all’altezza delle spalle. Si tratta di una maschera, ovviamente, o come appare fin troppo evidente nel giro di pochi secondi, la prima di una pluralità di simili orpelli. Altre figure si affiancano infatti alla prima con una strana andatura ritmica e cadenzata, tutte evidentemente armate: lì un arciere col dardo pronto ad essere scagliato al nostro indirizzo, in opposizione al guerriero dotato di preoccupante lancia dalla punta presumibilmente avvelenata…. A chiudere la fila, un energumeno con la mazza, ricavata direttamente da quella che sembrerebbe essere la tibia di un grosso e non meglio definito animale. Da un rapido conteggio dei nostri assalitori, concludo che debba trattarsi di una quantità grosso modo equivalente a quella dei turisti presenti, ciascuno altrettanto drammaticamente e letteralmente impreparato all’incontro. Ma quando mi volto per avvisarli, scorgo una scena del tutto inaspettata: la coppia di anziani viaggiatori giapponesi con cui avevo conversato amabilmente durante la trasferta che stringono in mano le proprie macchine fotografiche, con un ampio sorriso in volto. “Sono loro, sono arrivati!” Gridano in un inglese dal forte accento: “Gli uomini del fango hanno fame, e stanno per cucinarci nel pentolone!”
Cos’è dopo tutto, il terrore? Nient’altro che un apostrofo insanguinato tra le parole “ti” ed “odio”, un qualcosa che nasce dal fondamentale senso di colpa per aver fatto, detto o prodotto una situazione in qualche modo inopportuna. E gli abitanti dei dintorni del villaggio di Goroka presso le rive del fiume Asaro, nella provincia delle Highlands Orientali della remota isola della Papua Nuova Guinea non hanno mai, per loro e per nostra fortuna, avuto ragione di temere le navi provenienti dalle masse continentali d’Oriente ed Occidente. Ragion per cui, nell’evoluzione della loro cultura contemporanea, l’antica metodologia degli accesi conflitti tribali un tempo costati la vita ad una quantità innumerevole di connazionali è stata trasformata in una sorta di spettacolo truce, usato per favorire il turismo ed incrementare, nel quotidiano, i fondi disponibili per garantirsi una ragionevole dose di comodità moderne. Essendo questa una tribù che si affida esclusivamente alla trasmissione tra le generazioni in forma orale, ad ogni modo, esistono diverse storie sull’origine dell’insolita tenuta da guerra (se così vogliamo chiamarla) tutte riconducibili, grosso modo, alla stessa vicenda: il momento indefinito nel tempo a seguito del quale gli uomini più combattivi della tribù, sconfitti durante un sanguinoso conflitto coi loro vicini, si ritirarono per cercare rifugio in prossimità del fiume, dove iniziarono a pianificare la propria vendetta. Quando uscirono quindi al calare della sera, erano completamente ricoperti dal fango chiaro dell’Asaro, che per qualche ragione veniva per di più ritenuto essere velenoso. Inoltre avevano il proprio volto con delle maschere spaventose, create riscaldando l’argilla sul fuoco nella profondità della notte, capaci d’incutere il terrore nel cuore dei propri nemici. Fatto ritorno al villaggio usurpato, quindi, la loro semplice vista risultò talmente terrificante che i vincitori non soltanto si ritirarono, sentendo addirittura il bisogno di mettere in atto una cerimonia per scacciare gli spiriti nella speranza di non incontrarli mai più. Ma da quel momento, così prosegue la leggenda, tutti i nemici degli uomini del fango avrebbero conosciuto il pericolo d’incorrere nella loro ira, strettamente interconnessa con la terribile apparizione dei morti viventi oltre i confini della loro terra.
Ora tutto ciò non può che essere ricondotto, incidentalmente, a dell’ottimo marketing contemporaneo: ci sono, in effetti, tutti gli stereotipi che il moderno abitatore dei contesti urbani ama vedere associati ai suoi simili rimasti legati a stili di vita primordiali: violenza, magia, ingegno… Qualcosa di quasi troppo perfetto, e schematico, per essere vero. Ragion per cui nel mondo accademico, da lungo tempo ormai, sono state cercate spiegazioni alternative tra cui la più accreditata, allo stato dei fatti attuali, resta quella degli antropologi danesi Ton Otto e Robert J Verloop che tentando di sfatare l’occulto mistero, fanno risalire la tradizione a un periodo grosso modo corrispondente agli anni ’50 dello scorso secolo…

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