Il molti volteggi del Kumpo, segreto moralizzatore ricoperto dalle foglie di palma

Nel giorno attentamente prefissato, eppure mai esplicitamente dichiarato, Egli giunse sui confini del villaggio infuso dello spirito sacrale del cambiamento. Trasfigurato dal breve soggiorno in un boschetto sacro, la sua presenza era umana eppure non più umana, senziente ma inconsapevole, magnifica e terribile al tempo stesso. Qualcuno, alternativamente, avrebbe potuto definirlo un supereroe o un fantasma. I primi a scorgerlo mentre giocavano spensieratamente, erano i bambini sulla piazza, che improvvisamente s’immobilizzarono sul posto. Avvolti da un silenzio surreale, alcuni di loro corsero immediatamente verso casa, mentre altri si fecero il segno della croce o rivolsero una preghiera silenziosa ad Allah. Eppure nessuno, qualunque fosse la sua fede in termini monoteisti, sembrò riuscire a rimanere indifferente. Pochi minuti dopo, i giovani celibi ed i loro genitori emersero dall’uscio delle dimore, venendo in strada per recare un saluto rispettoso alla sapiente Creatura. Il Kumpo, da parte sua, non sembrò in alcun modo ricambiare quel gesto. Di sicuro, non è facile risultare espansivi quando ci si presenta in tale guisa: senza un volto, senza braccia, nessun profilo riconoscibile del corpo. Bensì un ammasso indiscutibilmente vegetale nell’apparenza, che allude vagamente alla trascendenza. Dopo aver percorso entrambe le vie principali di quel piccolo insediamento senegalese, l’essere scomparve dunque nuovamente oltre una piccola macchia d’arbusti, lasciando il posto a uno sparuto gruppo di seguaci dall’aspetto sacerdotale. Alcuni raccolsero le offerte libere per la loro società itinerante. Altri si assicurarono che l’appuntamento fosse chiaro: ai primi segni del tramonto, lo spettacolo avrebbe avuto inizio. Guai, a chi fosse mancato!
Ora le donne armate di vanghe, zappe e pentole impiegate come tamburi, iniziavano a battere ritmicamente una musica importante. Tramandata dalle loro madri, e le madri delle loro madri, fino al punto di essere indissolubilmente associata a tale occasione. Come un leone incuriosito dal richiamo delle sue prede, il Kumpo comparve dunque in mezzo a loro, materializzandosi improvvisamente dal nulla. Questa volta era armato. Correndo su gambe invisibili, la sua forma irregolare sembrò mutare e assumere contorni sfocati, poco prima di piantare il lungo palo appuntito sopra la sua testa nella terra battuta del punto d’incontro comunitario. E finendo per dare soddisfazione a un senso d’aspettativa quasi tangibile, iniziò a ruotare freneticamente su se stesso. La trottola del mondo astrale, al confronto, non era nulla. E più l’ineffabile creatura continuava a ruotare, maggiormente gli uomini e donne della discendenza tradizionale sembravano rapiti da un solenne senso d’aspettativa. Finché il movimento cessò, e il Kumpo cominciò a parlare nella propria lingua comprensibile a stento. Un interprete avrebbe tradotto chiaramente le sue parole. Trasmettendo il contenuto di un messaggio Importante. Nessuno, a meno di essere costretto, sarebbe andato in seguito contro i voleri di un ancestrale spirito della Natura affine all’uomo ed i suoi imprescindibili bisogni…

Nella commistione sincretistica che costituisce l’insieme di religione, filosofie e discipline dell’Africa Occidentale, diverse etnie parrebbero aver saputo mantenere saldi legami con almeno alcuni aspetti della loro cultura ereditata. Ciò grazie alla natura criptica ed il contenuto non sempre facile da interpretare di quel gesto, la cui censura ad opera di un governo o possibile organizzazioni missionarie sarebbe apparsa superficialmente priva di finalità evidenti: la danza. Così tra tutti gli straordinari costumi e maschere che si susseguono in un’ideale sfilata folkloristica tra il Gambia ed il Togo, passando per la Costa d’Avorio ed il Benin, alcune spiccano in modo particolare in funzione del profondo significato e rilevante ruolo sociale occupato nei rispettivi contesti. Una di queste, può essere senz’altro individuata in quella che dà il nome all’intera rappresentazione originaria probabilmente della regione meridionale di Casamance, la sottile striscia di terra appartenente al Senegal situata a sud del Gambia. Chiara risultanza delle dispute territoriali combattute all’epoca del colonialismo portoghese, ma che ancor prima di questo era stata appannaggio amministrativo di un’identità primariamente etnica, quella del popolo che aveva l’abitudine di definire se stesso con il nome di Ajamat. E che ormai da tempo sono stati ribattezzati Jola, pur avendo posto nuovamente al centro della propria etica comportamentale determinati valori ancestrali, proprio grazie all’impatto culturale e costante lavorìo dei cultori del Kumpo. Sostanzialmente un tipo di performance teatrale itinerante, se volessimo ridurla unicamente ai suoi fattori esteriori, messa in scena da un gruppo di giovani sacerdoti tipicamente contrapposti alla casta dei classici sciamani del villaggio. Individui allenati a prodursi in una serie di complessi movimenti, rigorosamente mostrati al pubblico dopo aver indossato una serie di tre costumi distinti. Il primo di questo è il Samay, col volto ligneo di un’antilope o una capra, le appuntite corna ed un singolo braccio visibile che sporge dal sacco di iuta che lo copre completamente, mentre effettua gesti vaghi e dalla difficile interpretazione. Il secondo, Nialle lo scimmione simile a uno scimpanzé o gorilla, dal disordinato vello nero e due bastoni usati per balzare e piroettare in mezzo al pubblico rapito. Ed infine, ovviamente, lo spirito principale al centro di tutto questo; la venuta del Kumpo presso l’ideale palcoscenico del villaggio, salutato da una giovane donna che attacca simbolicamente una bandiera variopinta al suo palo appuntito, costituisce sempre un momento di raccoglimento e consapevolezza per i presenti. Poiché proprio lui, tra tutti, personifica il senso stesso dell’intera rappresentazione, mirata in effetti a promuovere lo spirito d’aggregazione comunitario e al tempo stesso, “punire” in modo simbolico coloro che hanno commesso dei gesti o scelte inappropriate per i loro vicini e parenti. In tal senso il dio-fantasma senza volto si presenta anche come una sorta di giudice delle gesta umane, che dopo aver denunciato per il tramite del proprio traduttore i presunti peccatori, si aspetterà di sentirne i nomi chiamati con intento ironico durante i canti di accompagnamento ai suoi spettacolari volteggi. Al termine della frenetica sequenza, sul concludersi della serata, è considerato appropriato dunque che i “colpevoli” citati facciano le offerte maggiormente significative alla troupe, possibilmente includendo un singolo capo di bestiame o dei polli. Nessun altro tipo di punizione o giudizio viene espresso e non ci sono obblighi di ostracismo o condanna. Benché tra le persone ancora dedite alle antiche usanze, non ci sia nulla di più importante che riuscire a placare la presunta ira del Kumpo.

Il Nialle all’opera in ciò che gli riesce meglio.

Basata su una fisicità imponderabile e mosse non dissimili da una moderna performance della break dance, l’esecuzione danzante di questo tipo di spettacoli sembra subordinare l’utilizzo di magnifici costumi o complesse ritualità utilizzati in altri paesi dell’Africa Orientale. Il che non la rende in alcun modo meno prestigiosa tra i suoi praticanti, né parrebbe limitarne l’effetto nel mediare e amministrare le relazioni interpersonali tra i diversi villaggi. Uno studio antropologico del 1999 di Ferdinand De Jong cita ad esempio il caso del villaggio senegalese di Diatok nel 1974, nel quale il ritorno periodico degli uomini che lavoravano nelle città limitrofe durante i regolari riti d’iniziazione delle nuove generazioni aveva provocato un deficit nel cibo prodotto dai campi di riso locali. Finché mediante una storica intercessione del Kumpo, venne indicato alle loro donne di seguirli ogni anno nella data prefissata del 15 di luglio, contribuendo alla lavorazione dei campi nella terra dove le loro madri avevano fatto lo stesso. Incentivate da tale circostanza conoscitiva, gradualmente, intere famiglie tornarono a trasferirsi di nuovo nei loro luoghi d’origine, sfuggendo in questo modo ai lunghi periodi di crisi economica e disoccupazione degli anni ’80.
In termini più generali, inoltre, le danze tradizionali rappresentano un importante legame per i politici e dignitari del governo centrale con le loro radici culturali, nonché un modo per legarli all’esigenza di contribuire in qualche modo alla spesa comunitaria. Sia anche soltanto tramite l’offerta, proporzionalmente generosa, nei confronti dei propri eventuali accusatori mascherati. Tentare di conoscere la vera identità dei figuranti, d’altronde, costituirebbe un imperdonabile sacrilegio. Il che permette, parimenti, un’espressione libera dei rispettivi sentimenti o proteste. Quanti altri popoli, in quel particolare contesto geografico (e molti altri) potrebbero effettivamente affermare di avere la stessa facoltà?

Maschera del Samay, da Wikipedia

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