Ad ogni azione corrisponde una reazione, l’imposizione di una forza sottintende un qualche tipo di resistenza. Così nella fisica, come negli studi sociali, particolarmente se applicati alle dinamiche di coesistenze conflittuali, l’unica maniera in cui può essere chiamato un mondo in cui qualcuno può acquistare altri esseri umani, disattendendo lo schema generico dei diritti umani ed il principio del libero arbitrio. E tanto a lungo tale circostanza ebbe a proseguire e rinnovarsi, che in un giorno possibile, in base a una speciale profezia, l’uomo nero del futuro potrà scegliere di organizzare una delegazione. Inviandola, tramite l’impiego di un vascello ultraveloce, fino alle regioni spaziotemporali della nostra epoca. Senza nessun tipo di missione, tranne sorvegliare l’imminente stato delle cose. Ed osservarci, per incorporare nella propria mente immobile un possibile schema di risoluzione a beneficio di una discendenza che non ha potuto ancora dedicarsi alle ragioni della cupidigia inerente. Questo l’evidente scopo dell’ultima variopinta astronave/totem dell’artista londinese, di origini trinidadiane Zak Ové denominata Mothership Connection (citando un album funk degli anni ’70 dei Parliament) e creata per il Regent’s Park lo scorso settembre, continuando l’ideale discorso della popolazione dei cosiddetti uomini invisibili, 40 figure antropomorfe originariamente esposte presso lo Sculpture Park dello Yorskshire (2018). Individui dal volto coperto, così come una maschera del carnevale di quell’isola risalta in cima al nuovo totem post-moderno, perché diaspora e schiavitù sottintendono la perdita dell’identità individuale, mentre i tratti culturali ereditati vanno incontro a un sincretismo delle circostanze che non può realmente sovrascriverne, d’altronde, il significato inerente. Questa l’idea del carnevale caraibico del Moko Jumbie, i cui princìpi estetici e talvolta i personaggi stessi sono stati utilizzati come ispirazione, nel corso della carriera di questo celebre artista, in qualità di linguaggio o parte della storia stessa, narrata tramite i molti campi della sua espressione creativa: pittura, cinematografia, scultura, ricamo. Fino all’estremo delle sue creazioni più recenti, il tipo di pali monumentali che vedremmo collocati convenzionalmente fuori dalle abitazioni dei nativi delle Americhe nord-occidentali. Se non fossero creati grazie all’uso della plastica, luci elettroniche e parti d’automobili con fregi cubici dai plurimi colori contrastanti…
Facendo a questo punto un passo indietro fino alla citata opera dei quaranta visitatori cosmici costruiti in cupa grafite, la cui collettiva installazione reca il titolo di Masque of Blackness, sarà dunque possibile rintracciare proprio in questa scelta un riferimento storico preciso ad un evento scatenante della visita, per come viene raccontata dallo stesso autore, dei silenziosi alieni con le mani sollevate in gesto di pace. Trattandosi nei fatti di precisa citazione di un dramma teatrale realizzato a Whitehall nel 1605, per il beneficio e pubblico ludibrio della corte dei re Stuart. A cui la stessa regina Anna di Danimarca, consorte di Giacomo I, aveva preso parte assieme alle sue dame di compagnia, indossando il primo esempio storico di blackface: un trucco mirato a coprire di nero il volto e le braccia, così da interpretare il ruolo di ninfe africane intenzionate a compiere un magico viaggio fino ad una fonte in Inghilterra, cercando di sbiancare la propria pelle per diventare più “belle”. Laddove la stessa nomenclatura alternativa di uomini invisibili, fa piuttosto riferimento al primo romanzo di un autore nero premiato negli Stati Uniti, il racconto eponimo di Ralph Ellison, scritto in prima persona nel 1947, delle lunghe disavventure di un afroamericano sottoposto a discriminazioni fin dalla giovane età. Questo il tipo di messaggio in genere dietro le opere di Zak Ové, un’estensione sostanziale di quella stessa festa carnevalesca da lui spesso citata, impiegata originariamente a Trinidad per ribellarsi al contegno e l’occhio scrutatore di un intransigente padrone.
Proseguendo a questo punto la breve ed incompleta rassegna, di una simile figura di creativo straordinariamente prolifico attivo fin dalla metà degli anni ’90, sarà utile spostare la nostra attenzione verso l’opera del 2012 intitolata per l’appunto Moko Jumbie, creata originariamente per la galleria d’arte presso la Walker Court di Soho, nel quartiere di Westminster. L’ennesima personificazione del carnevale da lui assemblata a partire da materiali multipli ed oggetti comuni, nonché probabilmente quella destinata a costituire l’esempio più celebre in funzione del notevole dinamismo e pertinenza dei diversi elementi costituenti. Che convergono nella figura di un personaggio fantastico simile ad un angelo, sollevato sopra i trampoli come i figuranti di Trinidad ma dotato anche di ali multiple ricavate da foglie di banano e con due volti allo stesso tempo: quello “principale”, per così dire, costituito da una maschera della tradizione africana Mende come nel caso del monolite di Regent’s Park, assieme all’armatura dorata dagli umani lineamenti con l’espressione rapita dalla musica o dal sentimento. E le scarpe Nike tagliate nella parte anteriore, come usavano fare gli schiavi forniti calzature troppo strette. Mentre la mano sinistra si solleva nel pugno simbolo del potere nero, ma quella destra è aperta, quasi a dire “Non sparate, mi arrendo”. Un altro messaggero perciò, non è difficile capirlo, di quell’ideale mondo afrofuturista, che ci osserva da una posizione di vantaggio nel tentativo di crearsi un’opinione. Mostrando, al tempo stesso, la speranza di un miglioramento futuro?
Simile all’opera monumentale rimasta esposta nel parco di Londra tra settembre ed ottobre del 2024, non si può mancare di citare la proposta futura dell’ancor più svettante scultura denominata Nana Buluku per il Memoriale della Schiavitù del West India Quay, un’altra maschera del carnevale Moko nonché Dea suprema nella religione tradizionale dell’Africa Occidentale, rappresentata dall’artista come un monumento che richiami vagamente l’Oriente, in cui gli uomini invisibili si trovino stavolta in formazione attorno alla torre centrale, scrutando attentamente in tutte le direzioni. Mentre una corona di vascelli metallici attorno al volto principale del totem agiscono come delle banderuole, voltandosi da una parte all’altra grazie all’energia del vento.
Un problematico ed inevitabile destino, condiviso da tutti coloro che venendo caricati con il beneplacito degli schiavisti e talvolta dei propri stessi connazionali, si trovavano a sbarcare settimane o mesi dopo sulle coste di lande ignote. Con l’unica rassicurante compagnia delle proprie certezze spirituali ed antiche tradizioni ereditarie. Destinate a scontrarsi, come onde della risacca, contro gli scogli inamovibili della ricerca di ulteriore profitto. Ovvero la moderna privazione di sostanza, venendo trasformati nel motore di una percepita e imprescindibile modernità. Che soltanto secoli dopo, con grandi e mai sopite tribolazioni, la Storia sarebbe giunta finalmente ad accantonare. (?)