Pesa di più Goldrake o un buco nero?

Mecha size

In un giorno della calda primavera del 1972 e senza che ci fosse una ragione attesa, il giovane in età scolare Kohei Kuji sentì suonare il campanello della porta all’improvviso. Messo da parte il volumetto del suo manga in corso di lettura, forma d’intrattenimento preferita dagli adolescenti della sua generazione, balza in piedi e corre verso l’uscio, lo spalanca per trovare: nulla, nessuno, niente d’importante. Tranne un pacco messo da una parte, ricoperto di una carta marroncina e privo di alcun tipo di etichetta che identifichi il mittente. Ora, in tempi come i nostri, in cui Internet ci ha insegnato a fidarci ben poco delle situazioni inaspettate, ma soprattutto a costruire trappole a molla, veicoli virali, ogni sorta di crudele scherzo contro i nostri simili più amati-odiati, forse un attimo di esitazione ci sarebbe pure stato. Ma quella era un’epoca caratterizzata da un benessere ed un ottimismo diffuso, soprattutto in un Giappone all’apice della sua bolla, della crescita economica e della fiducia nel tuo prossimo, persino quando sconosciuto. Così il bimbetto si reca fino alla cucina, appoggia il pacco sopra il tavolo da pranzo, prende un coltello per il pesce di suo padre. Delicatamente, con estrema cautela, inizia a incidere l’incarto, finché non sente all’improvviso: “Ow!” Per l’effetto dello shock, lascia cadere il suo strumento. Dannazione! Come avrebbe potuto mai saperlo? Nel pacco non c’erano dei semplici pupazzi, ma Arthur, Edison, Izam, Odin e Walt, cinque piccoli alieni provenienti dal pianeta Micro Earth, inviati fin dall’altro capo dell’universo con il preciso scopo di osteggiare il nascituro potere del principe di Acroyer, malefico conquistatore di ogni civiltà.  Per i protagonisti umani di un franchise moderno giapponese, sia questo fondato sul mondo tecnologico e tradizionale, cinematico oppure disegnato, c’è ben poco da fare tranne arrendersi a seguire il flusso. Fare da momento comico, se necessario, e offrire il proprio punto di vista soggettivo e interno al racconto come tramite per il coinvolgimento degli spettatori. Quando iniziano a sfolgorare i laser, si rincorrono le astronavi, le spade cozzano con orribile e squillante persistenza, non saranno mai loro a combattere direttamente, ma il Pokémon, lo spirito del samurai venuto dal passato, lo shikigami spirituale consacrato al sacro compito da un vecchio e saggio stregone. Tranne che in un caso: il genere mecha, sarebbe a dire quel vasto catalogo di ‘Cunti, nato a partire da Tetsujin 28 di Mitsuteru Yokoyama (1956) in cui il protettore sovrannaturale della Terra era, per la prima volta, un essere non biologico e (quasi del tutto) privo di una volontà. Così di nuovo c’era quel bambino ante-litteram, questa volta armato di telecomando e in grado di fornire gli input al suo beniamino alto due metri, creato a partire da un’analogia con Astroboy di Osamu Tezuka (1952) sostanzialmente il piccolo pinocchio giapponese. Ma si può ancora parlare di androidi, quando simili creature spesso antropomorfe esistono soltanto per servire il bene collettivo, eseguendo pedissequamente i desideri di uno stereotipico, quanto innocente, eroe della giustizia? Il fallimento dell’analogia appare ancor più pregno successivamente, quando la bussola o coscienza robotica (il ragazzo) iniziò a prendere posizione direttamente nella testa o dentro al petto del suo servitore, trasformandolo così nell’analogia pseudo-sovrannaturale di un possente aereo o carro armato, per quanto in grado di resistere e persistere senza alcun tipo di supporto.
Quel passaggio, tanto significativo, fu intuito inizialmente da un’altra grande personalità del mondo della creatività giapponese, quel Go Nagai che è stato l’ideatore di Mazinga Z (1972) Jeeg Robot d’acciaio (1975) e il Goldrake titolare (in origine UFO Robot Grendizer – 1975). Ma una volta gettato il seme sul terreno fertile dell’altrui fantasia, il passo era segnato: nel giro di pochi anni, i media giapponesi iniziarono a sperimentare l’invasione di ogni sorta di straordinaria macchina da guerra, ciascuna testardamente incline a combattere i pericoli provenienti da lontano. Giammai, in una tale fase storica, ancora in grado di ricordare le fallite aspirazioni imperialiste del paese, il pubblico avrebbe apprezzato situazioni realistiche con delle credibili fazioni contrapposte. Così, mentre negli Stati Uniti spopolavano le scriteriate avventure Lanterna Verde, Flash e Capitan America, all’altro lato dell’Oceano si consumava la passione per un differente tipo di supereroi, alti decine di metri e sempre rigorosamente fatti di metallo, quasi sempre del tutto privi di una mente propria. Ma se c’era un singolo fattore in comune, tra questi due mondi rigorosamente contrapposti, questo era certamente il modo d’interpretare il rapporto di potenza tra i diversi personaggi: attraverso le sperimentazioni ipotetiche dei fan. E non c’è molto da meravigliarsi nel trovare ancora simili tematiche, trattate con profonda serietà, all’interno d’innumerevoli gruppi di discussione internettiane, come in commenti satirici dell’universo nerd e geek, vedi la serie comica The Big Bang Theory. Ma il Giappone, che persino oggi tende a prendersi un po’ più sul serio, di norma non ricorre alla pura e semplice ironia, né al soggettivismo delle ipotesi preferenziali.
Ciascun mecha è “il più forte” perché ciascuno sconfigge il male, come e quando necessario, sarebbe a dire nel contesto operativo che gli è stato posto attorno dal creatore. Ben più meritevole di essere discussa, risulterebbe invece una scala come questa, sul quale sia il vero rapporto tra le dimensioni, posto in una scala crescente, dai giocattoli senzienti di cui sopra fino ai chilometri delle astronavi trasformabili, o i più folli e spropositati mostri chtulhuiani. Per fortuna che l’utente Metroidfan l’ha ripescata, dalle pieghe geroglifiche del portale NicoNico e ce l’ha riproposta tradotta, con tanto di colonna sonora tratta dall’intramontabile Gurren Lagann. L’analogia offerta dai metodi realizzativi del video in questione figura tra le più fantastiche e inquietanti.

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L’artista inglese degli tsuba, le protezioni per katana

Tsuba

Imitare non è semplice. Fra tutte le applicazioni dell’arte, soprattutto se in tre dimensioni, non c’è nulla di più impegnativo che porsi a rapporto con l’opera di un maestro, con l’obiettivo dichiarato di produrre un qualche cosa che sia pari ad essa, o per lo meno degno di essergli accostato. Soprattutto poi, se quell’oggetto viene da una tradizione specifica e rigorosamente chiusa ad influenze esterne, come quella in cui s’impegna con profitto Ford Hallam, l’unico scultore europeo ad aver ricevuto prestigiosi riconoscimenti nei cataloghi e nelle riviste di metallurgia tradizionale giapponese. Al punto di trovarsi, tra il Giugno e l’Ottobre del 2009, in una situazione al tempo stesso invidiabile e spaventosa: il dover supplire, con la sua capacità manuale, alla mancanza lungamente lamentata di uno tsuba per la più lunga delle due spade realizzate nel diciannovesimo secolo da un artista della prefettura di Mito, Hagia Katsuhira. Con sopra la più inaspettata delle figure: una cupa e splendida pantera in agguato… Si dice che una volta, il rinomato incisore Katsushika Hokusai avesse dipinto l’immagine di un nume tutelare buddhista nello spazio di un giardino pubblico, in dimensioni tanto estese da permettere a un uomo a cavallo di attraversare la sua bocca o di consumare un pasto nello spazio del suo occhio. Ma se i precetti dello Zen dicono: “Incontra il Buddha per strada, quindi uccidilo” non c’è  tanto da meravigliarsi, nel ritrovare lo splendore del mondo naturale addirittura qui, sopra un elemento costruito a margine del conflitto tra gli umani.
Nel nostro medioevo, l’elemento preferito per condurre lo stemma di una famiglia nobiliare fin dentro al campo di battaglia era senz’alcun dubbio lo scudo. Per ragioni pratiche, le dimensioni, la forma, la varietà di materiali e lavorazioni utilizzabili, oltre che simboliche, connesse al concetto del sangue degli antenati che rinasce in forma inanimata, con lo scopo di deviare i colpi del nemico. Ma come affrontava la stessa questione un samurai, guerriero del Giappone feudale resistito, senza alcuna profonda variazione concettuale, per oltre mille anni di confronti tra i daimyō del clan e i loro servitori in armi? L’individuo che, nato nella remota epoca Nara (710-784) come guerriero armato d’arco, lancia, falcione e/o grande mazza in legno (kanabo) ebbe ad evolversi, attraverso il successivo periodo della capitale spostata a Kamakura, nel prototipo del perfetto spadaccino, dedito all’ineccepibile impiego di quelle che erano e sempre rimasero elaborazioni di pesanti sciabola da cavalleria. La nihonto (spada giapponese) ha molte forme: può essere soltanto lievemente curva e portata con la lama verso il basso (tachi) oppure più corta e gibbosa (katana) o ancora la versione per così dire portatile della stessa cosa (wakizashi) queste ultime due spade, tradizionalmente, agganciate assieme alla cintura dei guerrieri per l’intera epoca classica e fin quasi alla modernità. Poi ci sono le esagerazioni, come la spaventevole nodachi a due mani, fino ad un 1,8 metri di metallo attentamente ribattuto, comparabile per imponenza a una zweihander del Sacro Romano Impero. Ma per tutte queste innovazioni tecniche, le prime e più significative espressioni guerresche di un Giappone non più legato alla Cina, bensì piuttosto in netta contrapposizione culturale con l’intero continente asiatico, qui non si ebbe mai occasione di scendere in campo con gli stemmi stretti saldamente in una mano, in mezzo a una costellazione di piastre metalliche ben rivettate. Non è difficile trovare un collegamento tra la cultura marziale di questo paese e la completa mancanza di scudi, per lo meno nella tradizione celebrata dagli storici e poeti coévi: il samurai ideale dovrebbe essere un devoto seguace, in egual misura, del suo signore e del principio della morte in quanto in tale. La sua eventuale sconfitta, in mezzo frecce volanti e strali di metallo, altro non sarebbe che l’ottima occasione per raggiungere l’Empireo dei defunti, come dio postumo della guerra (Aragami). Quindi perché proteggersi? A che scopo ritrarsi dietro un pezzo di legno o metallo, come usavano fare i “deprecabili barbari” del sud? E la realtà potrebbe includere, in qualche misura, tale linea di pensiero. Però va anche considerato come la tecnica necessaria per usare efficacemente nel contempo spada e scudo non sia affatto naturale, e richieda una destrezza niente affatto trascurabile da parte del guerriero. Vederla usata, a tutti i livelli e gli strati della guerra occidentale, non prova assolutamente nulla: nella guerra, come nella scienza, c’è sempre un qualcuno che scoprendo un metodo, configura i limiti dell’altrui possibilismo. Mentre più semplice, nonché naturale, diventa affidarsi a una guardia in rame dal diametro di 5, 8 cm o poco di meno, del tutto sufficiente per difendersi in determinate condizioni. E per la questione esteriore…Ecco, qualcosa si può fare. Qualcosa che.

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Maestro di katana taglia gamberi volanti

Isao Machii

Se si prendesse dalla rastrelliera di ogni museo d’armi del mondo, alabarde, asce, brandistocchi, daghe, falcioni, flamberghe, pugnali e zweihänder, per studiare a fondo i loro punti forti… Se si creasse grazie a tale ricerca, con l’impiego della scienza moderna, l’ultima e più avanzata arma bianca del mondo…Ancòra questa verrebbe, nella mente di migliaia di orgogliosi specialisti, rigorosamente subordinata al taglio netto di una semplice katana. Storie di capelli che fluttuavano nell’aria, come i petali del ciliegio, per posarsi delicatamente sulla veste del guerriero. Ma prima che potesse compiersi un siffatto sfregio, la sorpresa inaspettata: un taglio metallico frapposto in mezzo al vento e l’obiettivo. Un sibilo, due lampi luccicanti (estrazione, movenza del ritorno) dove c’era quel singolo pelo, adesso sono due. Anodo e catodo, di un fulmine indelebile che ormai permane, invisibile, sul nervo degli osservatori. Retina del pensiero. Re incontrastato della sfida tecnica tameshigiri (試し斬り – l’affettamento di prova) in cui una stuoia arrotolata viene sapientemente sottoposta, ogni qualvolta si riveli necessario, a dieci attacchi ben codificati: quattro diagonali, due verticali, tre laterali ed uno ai polsi, di mani e braccia totalmente immaginarie. Approccio culminante con la prova definitiva, che consisteva nel dividerla nel mezzo, e poi di nuovo un po’ più in alto, mentre i tre pezzi risultanti neanche avevano la gioia di cadere. Questo era, ciò sapeva fare il samurai.
E lo sai quante volte l’ha tagliata, quella dannata stuoia, il qui presente e inarrestabile Isao Machii, talvolta fantasiosamente detto “il samurai moderno”? Duecentocinquantadue in un singolo minuto. Davvero, cavalletta: è successo nel 2011, proprio qui a Milano, durante una delle edizioni televisive del viaggiante Show dei Record, organo pseudo-circense del pur prestigioso Guinness dei Primati. Gesto che gli valse l’attribuzione di una placca sfavillante. Ma ne ha diversi altri, costui, di tali titoli a suo nome. Tra cui quello, estremamente prestigioso, di aver suddiviso esattamente a metà la più veloce pallina da tennis, lanciata al suo indirizzo al sostenuto ritmo di 708 Km/h, oppure l’esecuzione più veloce dell’antica prova dei 1000 tagli, praticati su una schiera d’inermi vittime in stoppa di riso, o come capita sempre più di frequente ormai, dei maggiormente riciclabili rotoli di poliestere. L’ecologia è importante, addirittura nelle stragi degli oggetti inanimati. Per una buona causa, quest’oggi, tuttavia: il bisogno, percepito e stipendiato, di dare lustro al nuovo servizio LTE della SoftBank, compagnia telefonica del suo Giappone, come da copione sempre tesa ad innovare infrastrutture e metodi pubblicitari. Ma un approccio come questo, quando mai…L’uomo, in pantaloni hakama e kimono con maniche raccolte, grazie alle strisce di cuoio bianco simbolo del suo mestiere, compare con lieve camminata su un perfetto fondo nero. Dinnanzi a lui, il nemico di una vita: la macchina lancia-oggetti, usata con costanza da ogni committente delle sue comparse pubbliche, allo scopo di costringerlo ad estrarre il taglio della sua salvezza. I due si guardano, armigero e dispositivo, mentre già il pubblico trattiene il fiato. Quindi le sovrapposte ruote gommate, fonte dell’inerzia che conduce all’epico confronto, iniziano a girare. L’uomo assume la sua posizione, con le ginocchia lievemente piegate, la mano destra sull’impugnatura della spada, quasi certamente il prezioso cimelio della sua famiglia da generazioni. Come potrebbe mai onorarlo, ai nostri giorni, tranne che così? Un grido, uno schiocco, il richiamo della gru che si alza in volo verso l’alba: dall’apertura della macchina fuoriesce il primo gambero. È già tempo di tempura…

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Punta di freccia degli antichi automi giapponesi

Karakuri

Se dico Toshiba, oggi, si tende a pensare subito ad alcune popolari serie di computer portatili e ultrabook, oltre che ad alcuni tablet e televisori, forse meno popolari delle alternative maggiormente pubblicizzate in Occidente, ma comunque certamente validi allo scopo. C’è questa moderna tendenza, molto diffusa, a dare ciò che è tecnologico del tutto per scontato. La nostra vita è circondata dalle meraviglie: piccoli rettangoli di vetro e plastica che lanciano la nostra voce oltre le orbite del cielo, macchine da scrivere integrate con strumenti per la virtualizzazione di scenari per la crescita intellettuale. Ci sono cose splendide e assolute, come i principi filosofici dell’arte, che mutano e si adattano all’incedere dei secoli. Mentre altre maggiormente specifiche, col tempo, resteranno perse in mezzo alle radici: di un tempo, una canzone, l’opera di colui che poteva dare una vita ulteriore alle marionette, vedi: il celebrato Karakuri Giemon, al secolo Tanaka Hisashige, inventore quasi leonardesco vissuto sulle soglie del 1800, che per una questione meramente cronologica viene piuttosto paragonato a Thomas Edison, collega americano. Tra la nascita del giapponese e quella dell’americano, in effetti, intercorsero esattamente 48 anni, e i due furono operativi in tempi coévi, benché il primo ormai da veterano aiutante di un Giappone appena entrato nell’epoca moderna, mentre il secondo ancora presentava il suo primo brevetto in concessione, per un dispositivo elettrico di voto. Ma cosa, potrebbe venirci dunque da chiederci, ci ha lasciato la figura di quest’uomo nato a Kuruma, nell’attuale prefettura di Fukuoka? Ad una prima analisi, già si palesano diverse cose: la prima è quella citata in apertura, la multinazionale formatasi a partire dalla fabbrica Tanaka del quartiere Ginza, nell’allora già rinominata vecchia Edo. Dove stando a quanto dicono, nascosto al secondo piano di un tempio buddhista, l’uomo già sapeva rispondere alle richieste di un pubblico mai conosciuto prima: la nuova e più civile borghesia. Lui, che per un lungo periodo aveva costruito balocchi per i pargoli degli ultimi daimyō incatenati, ovvero l’aristocrazia guerriera costretta, attraverso la vecchia legge del sankin-kōtai, a vivere per molti mesi l’anno presso Kyoto, sotto l’occhio scrutatore dello shogun Tokugawa. E non è certo un caso se un simile provvedimento, in atto ormai da più di due secoli, ricordasse tanto da vicino quell’altra prassi di Louis XIV, il Re Sole con la sua Versailles. Attraverso le culture di ogni epoca e paese, l’unico modo per imporre uno stato di quiete negli ambienti di chi ha sempre guerreggiato, è sostituir la spada, con qualcosa d’altro. Di meno diretto, appuntito, eppure stranamente conturbante. Così fu il Barocco, all’altro lato del più vasto continente, come l’arte raffinata del confucianesimo e del buddhismo Chan (Zen) riscoperto, gradualmente, dai pittori e dai poeti samurai. Ed…Altre cose.
Vederlo oggi, significa in un certo senso respirare almeno in parte quell’aria di soave meraviglia, il senso dei minuti che sembravano fermarsi e germogliare: lo yumi-hiki doji, o giovane arciere, muove con sicurezza la sua mano destra, verso la faretra da terra tipica del tiro con la corda giapponese. Nel frattempo, con l’arco saldamente stretto nella sua sinistra, accenna un curioso movimento, simile a una sghemba riverenza. Sarà alto, grosso modo, una trentina di centimetri, più l’alta base cubica su cui graziosamente siede. L’espressione improbabile del suo volto, truccato secondo la prassi ormai desueta dell’antica nobiltà imperiale, accentua le qualità surreali della sua sequenza operativa. A quel punto, delicatamente, il piccolo pupazzo incocca il dardo fortunatamente innocuo, piega un po’ la testa per far sembrare che stia prendendo la mira. E dunque, scocca e poi colpisce… Nel kit originario, gelosamente custodito presso il museo Edo-Tokyo di Ryogoku,Tokyo, è incluso un elaborato bersaglio con un gong metallico, il cui risuonare, indubbiamente, faceva seguito alla gioia e alle risate degli spettatori, divertiti e indubbiamente lasciati un po’ increduli dallo spettacolo dell’incredibile ingegno degli umani. Il termine dalla grafia variabile karakuri (che può essere scritto in alfabeto sillabico katakana, oppure usando l’abbinamento di kanji: 絡繰り, 絡繰, 機巧, 機関, o addirittura 唐繰) si riferisce ad una ricca serie di bambole o pupazzi meccanici della tradizione giapponese di epoca Edo (1603-1868) il lungo periodo di pace seguito alla catartica battaglia di Sekigahara, quando essenzialmente il metodo di vivere dei vecchi samurai venne istantaneamente sublimato, in un’unica giornata di combattimenti tra i più forti e grandi nobili del tempo. Da cui emerse il nuovo ordine di un paese chiuso ad influenze esterne, in cui le spade, piuttosto che diventare aratri, vennero poste sopra gli alti piedistalli delle case, venerate come simbolo di un modus vivendi altrettanto crudele ed affilato. Ma il tempo passa e stempera persino il tamahagane, l’acciaio più prezioso. Così, nel giro di appena un paio di generazioni a partire dal 1600, ebbe a trasformarsi ciascun vecchio condottiero: in un sincero mecenate delle arti. Statico fino al successivo varco di un profondo cambiamento. Destinato a verificarsi, guarda caso, proprio all’epoca di Karakuri Giemon.

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