Lo spettacolo dell’ispezione dei fucili sulla tomba del milite ignoto

Un rituale simile a una danza, permeato di un rigore marziale talmente estremo da sembrare quasi una parodia. Eppure non c’è niente di facéto, nella complessa sequenza di gesti, che ricordano vagamente le movenze di una coppia di robot, condotta dalla sentinella di ricambio e il suo ufficiale sovrintendente presso il più famoso monumento del Cimitero Nazionale di Arlington nello stato il cui motto è “Sic semper tyrannis” – la Virginia. Fronteggiandosi a distanza ridotta, nella versione formale di un atteggiamento che è tipico del sergente con la sua recluta o sottoposto, il temporaneo addetto alla veglia perenne sblocca l’otturatore della sua carabina a ripetizione M14, un’arma in uso dai tempi della guerra del Vietnam, segnalando che è pronto a passarla nelle mani del suo presunto superiore. Soltanto presunto perché, secondo le celebri usanze del Terzo Reggimento di Fanteria dell’Esercito “La Vecchia Guardia” figura quella per cui durante questa importante mansione simbolica a loro assegnata, la sentinella in questione non presenti nessuna mostrina sulla sua divisa. Ciò per non risultare superiore in grado ai soldati senza nome sepolti sotto il pesante parallelepipedo di marmo, qualunque fosse stato il loro grado al momento del decesso. Il suo supervisore quindi, che invece mostra chiaramente la sua appartenenza alla categoria degli staff sergeants (sergenti di squadra) riceve il fucile senza il bisogno che venga spesa una singola parola, seguendo un copione messo in pratica molte migliaia di volte. Fissandone il proprietario con sguardo intenso, inizia a rigirarselo per le mani, in un crescendo di movimenti scattosi che presto diventano vere e proprie piroette. Quindi lanci e prese al volo, mentre la testa si piega, per pochi secondi, al fine di osservare di volta in volta il calcio, il mirino, la canna… In una profusione di quelle che risultano essere più che altro, delle mere formalità. Perché il lungo periodo di apprendistato, nonché l’assistenza costante delle nuove leve, assicura ogni giorno che la divisa e gli altri segni di riconoscimento della Sentinella siano non soltanto immacolati, ma aderenti ad un principio che il credo del reggimento riassume facilmente nella coppia di termini: “perfezione assoluta”. Ogni mostrina, medaglia o insegna viene resa splendente come al momento della sua fuoriuscita dalla fabbrica, le parti in cuoio della cinta e gli stivali vengono trattati con abbondanti quantità di lucido, il benché minimo filo fuori posto viene eliminato con la fiamma purificatrice dell’accendino. Fino al momento in cui, puntualmente ogni mezz’ora (tra l’1 aprile ed 30 settembre) oppure ogni ora in inverno, o ancora ogni due negli orari in cui il cimitero di Arlington è chiuso al pubblico, dopo il tramonto del Sole, la guardia emerge dalla sottostruttura del cenotafio in marmo, iniziando la sua ronda rispondente, anch’essa, ad una precisa serie di movimenti: 21 passi, quindi 21 secondi sosta, seguìti dal cambio di spalla dell’arma e il voltarsi verso una diversa direzione cardinale. Il fucile dovrà sempre rimanere nella spalla esterna rispetto al monumento, per simboleggiare la prontezza del soldato nel reagire ad eventuali minacce rivolte verso di esso. Anche questa ricorrenza del numero 21 è molto significativa: in ambito marittimo, sono riconosciuti tradizionalmente diversi saluti con i cannoni rivolti all’avvicinarsi di un ufficiale a terra o di una seconda imbarcazione con superiori a bordo, tra i quali quello di maggior prestigio richiedeva l’impiego di ben 21 bocche da fuoco; ovvero tutte, nessuna esclusa, quelle presenti su una nave di linea, dimostrando il temporaneo disarmo e quindi l’assoluta assenza d’intenzioni ostili. La Sentinella è chiamata a riprodurre tale sequenza numerologica senza l’uso di alcun tipo di polvere da sparo anche perché, secondo l’usanza, il suo fucile è mantenuto scarico durante l’intero estendersi della guardia.
Questo particolare passaggio dell’ispezione del fucile è una precisa componente del rituale che viene effettuata ogni volta, benché risulti essere più o meno dettagliata, ovviamente, a seconda che sia presente un pubblico oppure no. È comunque considerato molto importante che l’arma sia sempre pronta all’uso, nel caso in cui dovesse presentarsi una qualunque emergenza, previa rapida corsa verso il magazzino delle munizioni. L’importanza simbolica dell’arma simbolo della fanteria, così come la spada era stata un tempo per il cavaliere, è del resto un elemento primario della dottrina dei corpi militari americani…

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Il mistero culinario del sale di bambù coreano

Una gemma frastagliata di un profondo viola cristallino. Ci appoggi la lingua e ne senti il gusto salato. Mmmh, che strano sapore. Ehi, tu: si, sto parlando a te. Vorresti vivere per sempre? Sconfiggere 100.000 malanni? Ti piacerebbe prolungare la tua esistenza fino al raggiungimento di uno stato d’immota solidità, come l’oscura presenza dei picchi che svettano sulla cordigliera del Diamante? Osservare e confrontare il moto dei pianeti con l’ennesimo passaggio di una stella cometa, dall’interno di una caverna rivolta a Ponente? Certo, occorrerà fare qualche sacrificio. Dovrai prima di tutto diventare un eremita un po’ pazzo che scrive bizzarre poesie, incapace di definire il senso dell’attimo presente (questo è praticamente essenziale). E dissetarti esclusivamente soltanto l’impiego di un elisir a base di giada in polvere e funghi pseudo-velenosi, secondo quanto insegnati dagli antichi saggi della Cina continentale. Oppure, senti l’alternativa: potresti spostarti in quella penisola che confina con il Mar del Giappone, oggi divisa, e che forse mai riuscirà a ritornare un tutt’uno. Ma che ben conosce la logica di esseri straordinariamente longevi, la cui ricchezza materiale, e status, si suppone li abbia dotati di capacità al di sopra dell’umano.
Esistono essenzialmente due luoghi, che mantengono particolarmente vivo il legame con la tradizione del Jugyeom, uno degli ingredienti considerati maggiormente benefici dal vasto sistema di credenze gastronomiche e medicinali della cultura dell’Estremo Oriente: il tempio di Gaeamsa nella parte centro-meridionale del paese, in prossimità del parco nazionale di Byeonsan-bando, e l’azienda  Korea Bamboo Salt Corp, situata ad Hagyonaebaek-ro, nella provincia del Gyeongsang. Questi due poli in contrapposizione, quasi diametralmente opposti nella loro ricerca di un accrescimento spirituale nel primo caso, e nella commercializzazione coscienziosa di una preziosa risorsa con innegabili finalità di lucro nel secondo, si trovano tuttavia perfettamente d’accordo dal punto di vista di un singolo aspetto: l’impiego di metodi rigorosamente in linea con la tradizione. Perché, poco ma sicuro: non sarebbe davvero possibile realizzare il sale di bambù a partire da un approccio puramente industriale. Ed anche se ci si riuscisse, poi non sarebbe di certo la stessa cosa. C’è questa diffusa credenza, nei paesi a matrice culturale Taoista e Confuciana, che l’impegno profuso nella creazione di un qualcosa gli doni un meritevole valore aggiunto, come un potere mistico che gli permette di svolgere la funzione per cui era stato concepito.  Ma potremmo anche chiamarla una certezza riconfermata nei secoli di storia. Mangiare in un certo modo, astenersi da taluni attività per prolungare la propria vita: non è forse anche questo, il messaggio che riceviamo anche dalla società scientifica moderna? Così perennemente totalizzati, dai crismi dell’industrializzazione e il sovvertimento delle nostra relazione innata con la natura, noi che oggi tendiamo a riporre maggiore fiducia nei principi attivi prodotti in laboratorio, piuttosto che nella sapienza dei nostri distanti predecessori. Ottenendo di sicuro risultati largamente preferibili, nel caso di gravi afflizioni e malattie. Ma chi può dire, realmente, che cosa sia la prevenzione…
Si potrebbe tendere a pensare, in maniera automatica, che la leggendaria sostanza in oggetto venga in qualche maniera estratta dalla pianta, un po’ come avviene con lo zucchero dalla canna, o la barbabietola. Ovviamente, in quel caso non sarebbe del vero e proprio “sale”. Niente di più distante dalla verità. Così varcando le auguste sale dedicate al sapere e le opere di Buddha,oppure il capannone creato dal sogno del Dr. Kim Il-hoon, l’uomo che per primo brevettò questa prassi antica di 1000 o più anni, è possibile assistere alla stessa scena attentamente codificata nei testi di un sapere lontano: cumuli, e cumuli di solidi virgulti, tutti all’incirca della stessa età e dimensione, vicino a sacchi di sale marino (rigorosamente proveniente dalle coste occidentali del paese) argilla e cataste di legno di pino coreano. Nella maniera in cui tutto ciò si combina, attraverso una precisa serie di passaggi, è contenuto il segreto dell’intera, preziosa questione.

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La fortuna di una casa infestata dai rondoni della Malesia

Ogni vicinato in cui si viva a stretto contatto con i propri simili conosce il problema di “quella” persona. Non ci sono tratti specifici che permettano di definire “quella” persona, eppure nessuno esiterebbe nel puntare il dito verso la sua abitazione: un luogo che esiste nello spazio del vivere civile eppure occupa, nel contempo, una sorta di dimensione parallela. In cui tutto è lecito, qualora personalmente gradito, e nessuno può penetrare coi propri problemi nello spazio di una vita che ha raggiunto i suoi massimi termini presenti o futuri. Nella comunità municipale di San Pascual, sull’isola di Burias nelle Filippine, “quella” persona è probabilmente Eddie “Macoy” Espares, uno degli individui più straordinariamente fortunati, e nel contempo noncuranti, che abbiano calcato il suolo di queste terre. Perché nel primo piano della sua spaziosa proprietà immobiliare a bordo strada, vivono a intervalli regolari fino ad 80.000 cinguettanti creature, generosamente invitate ed accolte nonostante il guano e il rumore causati dalla loro presenza. La ragione è presto detto: propositi di guadagni stratosferici, grazie alla produzione di una delle sostanze più costose mangiate dall’uomo. Che prima che proviate a pensarci, no, non è la carne di questi uccellini. E neppure le loro uova. Ma qualcosa di molto più insolito e per certi versi, poco invitante…
Come diceva il filosofo Nietzsche, chi lotta spesso con qualcosa deve guardarsi di non diventare, prima o poi, anche lui lo stesso. Il che vale per i demoni dell’abisso del Nichilismo, esattamente quanto gli insetti volanti del nostro pianeta. Così nonostante la superficiale rassomiglianza, gli esponenti della famiglia Apodidae hanno ben poco a che vedere con un uccello, per così dire, comune. Piccoli (tra i 10-20 cm di lunghezza in media) leggeri e straordinariamente aerodinamici, i rondoni rappresentano una commistione di tratti evolutivi perfettamente calibrati per dare la caccia agli insetti in volo: le loro sottili ali a falce, perfette per manovrare agilmente nel cielo diurno e crepuscolare, gli permettono di agire alla maniera di un piccolo falco pellegrino. Almeno se detti uccelli, piuttosto che ghermire la preda, la trangugiassero intera spalancando semplicemente il becco mentre lo raggiungono a 250 Km/h. Un approccio alla ricerca di sostentamento che condividono con gli Hirundinidae, comunemente detti rondini, dai quali non potrebbero tuttavia essere più geneticamente diversi. Come esemplificato, in primo luogo, dalla lunghezza molto minore delle loro zampe, che gli impedisce di posarsi agevolmente su superfici orizzontali, facendogli preferire il punto di vantaggio di pareti pressoché verticali, preferibilmente di tipo roccioso o artificiale, come le pareti delle case. Ma anche, e aggiungerei in maniera molto più rilevante, dal modo in cui preferiscono fare il nido: non più raccogliendo soltanto rami o foglie ed intrecciandole tra loro come avviene nel ben distinto ordine dei passeriformi,  bensì tramite una speciale secrezione delle loro ghiandole salivari, in grado di solidificarsi a contatto con l’aria nella stessa maniera della plastica di una stampante tridimensionale. Un po’ calabroni, un po’ falene, un po’ ragni che tessono la loro stessa casa, questi uccelli esistono in varie versioni attraverso i diversi continenti della Terra, benché la più celebre in senso internazionale resti sicuramente quella del gruppo di specie note con il termine generico di salangane, diffuse principalmente nei paesi del Sud-Est Asiatico, il Borneo, l’Indonesia e le Filippine, che hanno la caratteristica di crearsi un nido ancor più speciale, in cui il rapporto tra materiale raccolto e secrezione collosa è particolarmente a vantaggio di quest’ultima. Soprattutto nel caso dei cosiddetti rondoni bianchi (non per il colore) quelli mantenuti in più alta stima da tutti i nativi e gli estimatori della cucina cinese.
Ora, non è semplicissimo immaginare chi, per primo ed in che momento, abbia pensato ad arrampicarsi fino alle sommità delle loro caverne e gli altri luoghi di procreazione, per sottrarre il candido costrutto creato dalla saliva, e quindi usarlo come ingrediente principe di un nuovo concetto di zuppa definitiva. Ma il particolare impiego si è ritrovato ben presto dell’attenzione dei gourmand e non solo, principalmente in forza della credenza tipicamente orientale, secondo cui determinati tipi di cibi rari sarebbero portatori di un particolare benessere sistemico dell’organismo umano, in grado di superare la degenerazione cellulare e persino, in casi estremi, arrestare il processo d’invecchiamento.

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L’oscuro messaggio delle statue inuit nell’aeroporto

Quanto a lungo può restare un’opera d’arte in luogo pubblico prima che qualcuno, finalmente, capisca il suo reale significato? 10, 20, 30 anni? Nel caso dei tre uomini di pietra del Toronto Pearson, aeroporto internazionale della più popolosa città del Canada, ne sono trascorsi ben 54. E sarebbero stati ancor di più, probabilmente, se la pagina Facebook del notiziario CBC Nunavut, rivolta agli abitanti di una delle regioni più settentrionali abitate dall’uomo, non ne avesse pubblicato per caso l’ennesima foto, accompagnata dall’enigmatica domanda: “Che cosa ne pensate?” Strano, in effetti, che non si trattasse di un semplice post mirato a sollevare un collettivo orgoglio verso l’evidente apprezzamento rivolto all’identità culturale di un’etnia ormai agli sgoccioli, che faticosamente mantiene il suo legame con le antiche tradizioni, bensì un’oggettiva richiesta d’interpretazione. Che puntualmente arrivata, da parte di un’utente che ha fatto notare con tono assolutamente neutro: “Quel tipo di inukshuk indica l’orribile presagio di un luogo di morte.” Perfetto, direi, per un aeroporto. Se si ha paura di volare. Ma è altamente probabile che in effetti, tale implicazione non fosse in alcun modo desiderata in origine, per quelle che dovevano costituire semplicemente tre decorazioni etniche e un modo per onorare il “patrimonio culturale” del Canada intero. Come potrete facilmente immaginare, in patria si tratta di un tema controverso: gli Inuit furono all’epoca, e per certi versi lo sono tutt’ora, una di quelle popolazioni native a cui vennero tolte le terre dai primi coloni, in cambio di pagamenti simbolici o mere promesse, benché su una scala decisamente minore rispetto alle tribù che presero il nome inesatto di indiani. Questo per il semplice fatto che molti dei luoghi di proprietà degli Inuit si trovavano talmente a Settentrione, nel più costante gelo ed assenza di facili risorse, che l’uomo bianco semplicemente non avrebbe potuto abitarle. Resta comunque un fatto che all’epoca delle Olimpiadi Invernali di Vancouver del 2010, l’insolita mascotte Ilanaaq dalla forma visibilmente pietrosa sia stata fortemente criticata da alcune associazioni, come appropriazione indebita di un tratto culturale che non è, non potrà mai essere canadese.
La definizione di inukshuk (pronuncia inuksuk, plurale inuksuit) è in senso letterale “[Ciò che] fa le veci di un uomo” essenzialmente assolvendo ad un ventaglio di mansioni molto ampio. Questa classe di costrutti di pietre accatastate, per una metà opere d’arte e l’altra strumenti utili alla vita di tutti i giorni nella tundra glaciale dell’Artico, hanno uno scopo diverso in base alla forma scelta dal loro costruttore. Ve ne sono di dedicati a segnare il passaggio di un sentiero sicuro, oppure in luoghi da evitare a tutti i costi, mentre altri indicano l’inizio di un terreno occupato da una particolare tribù. Nella caccia alle renne, tipici ungulati della regione, gli inuksuit hanno un ruolo importante: come unica presenza che sporge dalla distesa innevata, essi spaventano gli animali, i quali per sicurezza evitano di avvicinarsi, finendo dritti nella trappola degli umani. A partire dal primo aprile 1999, quindi, uno di questi punti di riferimento è comparso sulla bandiera ufficiale del nuovo Territorio a Maggioranza Inuit del Nunavut, in rosso su campo bianco e giallo. La sua particolare e riconoscibile forma, molto diversa da quella di un tipico cairn (cumulo segnavia) degli escursionisti occidentali, è quindi diventata famosa in tutto il Canada, che ha trovato in essa un tratto distintivo, ed unico, appartenente geograficamente al suo territorio. Un importante approccio all’arduo e sempre sentito problema di differenziarsi dall’altro paese di origine europea presente nel Nordamerica, gli ingombranti Stati Uniti. E da lì è iniziato, inevitabilmente, il problema: perché per una questione apparentemente semplice, come disporre le pietre in un cumulo vagamente antropomorfo, si nascondevano in realtà i diversi significati, trasmessi per lo più attraverso la via orale, e per questo inaccessibili ai non nativi. Molti, ad esempio, hanno lamentato la stessa definizione della mascotte delle Olimpiadi con il termine di inukshuk, quando in realtà si trattava di un inunnguaq, ovvero cumulo con testa e braccia spalancate, a esprimere un messaggio di qualche tipo. Un “piccolo” dettaglio, sfuggito in qualche modo alla designer canadese Elena Rivera MacGregor. O forse l’intento commerciale di semplificare le cose. La questione dei tre innunguat (pl.) dell’aeroporto di Toronto, tuttavia, è notevolmente più ricca di possibili interpretazioni.

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