La mano dell’artista è intrisa dell’azione pratica del costruttore dei mondi. Ancorché come nel mito rigenerativo della Trimurti, non sia possibile accampare un meccanismo sistematico come le regole di un segmento di materia, senza prima fargli spazio, disperdendo, annientando, ricombinando gli atomi di ciò che persisteva precedentemente. Il quantum che si trova in equilibrio tra il principio di creazione, mantenimento e distruzione può perciò costituire, nella sussistenza delle giuste circostanze (siano queste fisse, oppure transitorie) la caratteristica fondamentale per riuscire a definire che pulsioni, quale sentimento o tipo di ambizione, guidi il gesto quotidiano di colui o colei che genera la fonte di una simile creatività situazionale. Shiva è, nel suo profondo, la divinità che ispira il modo in cui il pluri-premiato produttore visuale svizzero, Simon Berger, riesce a dare vita alle figure che campeggiano nel centro della sua mente. Volti di donna, principalmente, ma anche teschi, animali, figure storiche della cultura, riproduzioni di celebri opere della storia dell’Arte. Tutto monocromaticamente riprodotto in un tripudio di linee interconnesse e sovrapposte tra loro. Poiché non usa lui un pennello, una matita, penna o altro simile implemento calibrato per il disegno. Ma un qualcosa di assai meno preciso, almeno in linea di principio: una MAZZA, sopra il VETRO. Che percuote con metodica insistenza, un colpo dopo l’altro, per minuti, ore o il susseguirsi di molteplici sessioni, l’una dopo l’altra. Fino alla trasformazione di una singola superficie liscia ed uniforme in un qualcosa degno di essere per lungo tempo preservato.
Ah, figure sfolgoranti che riescono a venire amplificate dalle luci fisse della galleria! Non è difficile comprendere il successo che ha ottenuto questo ingegnoso individuo, che perfezionando il proprio metodo attraverso ormai una mezza decade, ha deciso d’intrecciare la propria carriera in modo indissolubile con questo medium, che comunemente viene utilizzato per il parabrezza dei veicoli su strada. Già perché il vetro usato da Berger, lungi dall’essere il comune velo cristallino delle finestre nostrane, è del tipo laminato che si trova ai rispettivi lati di una singola pellicola impossibile da “frantumare”. Ecco perché un colpo dopo l’altro, esso riesce a mantenere nonostante tutto una saliente integrità nel suo complesso, mentre chilogrammi di frammenti vengono rimossi, uno dopo l’altro, dall’ineccepibile figura del quadro finale. Spesso in gremite ed entusiastiche circostanze performative. A rischio inevitabile, per quanto lieve, degli occhi, delle orecchie e dei polmoni dei presenti…
Sul perché in effetti costui abbia deciso di esprimersi sfruttando un metodo tanto insolito ed oggettivamente faticoso, non è particolarmente semplice riuscire a contestualizzare il nesso fondamentale della questione. Berger, venuto al mondo nel 1976, fa parte di quel gruppo di artisti non nativi dell’epoca digitale, che pur disponendo dell’immancabile profilo Instagram e numerose interviste pubblicate online, sembrerebbe non aver voluto mettere la sua intera esperienza di vita sulla pubblica piazza. Ancorché sia facile reperire un ripetuto paragrafo, in cui egli narra del proprio passato come meccanico e frequentatore di sfasciacarrozze, dove prese l’abitudine di procurarsi dei pannelli metallici dismessi, da plasmare nella messa in opera di non meglio definite sculture moderne (ahimé, non pervenute). Una prassi durante la quale, fu ad un certo punto imprescindibile finire per porsi domande sul possibile utilizzo dei parabrezza automobilistici, che per abitudine egli accantonava, restituendoli al grande ciclo industrializzato dei materiali. Dai primi esperimenti all’acquisto di lastre di grandi dimensioni realizzate ad hoc il passo era consapevolmente breve, benché l’autore sia pronto ad ammettere che per lungo tempo il suo sistema comportasse una certa quantità inerente di sprechi, data la difficoltà di prevedere il modo esatto in cui una crepa si sarebbe sviluppata, con una sola svista in grado di annientare totalmente multiple ore di fervente lavoro. Con fino a cinque tentativi, e centinaia di franchi svizzeri investiti, prima di ricavare un colpo dopo l’altro una riproduzione ragionevole dell’immagine impiegata come riferimento.
Osservarlo oggi all’opera, in uno dei molti video reperibili online, dimostra d’altro canto fino a che punto gli sia riuscito di perfezionare i propri metodi, giungendo a produrre opere complete anche soltanto calpestando il vetro con le scarpe oppure tramite l’impiego di rapide fiammate indotte con l’alcol. Usate per indebolire strategicamente, prima di tornare all’uso intelligente del maglio. Ed è un approccio singolare nella propria unicità ineccepibile, che in qualche modo può essere persino accomunato alla scultura, oltre che alla realizzazione di tele virtuali che compaiono senza l’impiego di una singola pennellata. Lasciando al tempo stesso immaginare una certa complessità inerente, nel tentativo di serbare l’opera successivamente al suo completamento. Magari tramite l’applicazione di una lastra protettiva addizionale? Difficile scartare l’idea, d’altronde, che la ragnatela di crepe dalle dimensioni minime continui ad ampliarsi nel tempo. Il che, da un certo punto di vista, potrebbe anche fare parte dell’opera e del suo significato nascosto.
Con numerose mostre pregresse tenute soprattutto in Svizzera, Francia ed Italia, nonché oltre un milione di seguaci online, Berger sembra di suo conto entrare a pieno titolo nel gruppo degli artisti in grado di colpire la fantasia generazionale dell’Era post-modernista. In cui il metodo può certe volte sovrascrivere l’importanza di contenuti trasparenti, essendo diventato esso stesso parte di una complicata idea filosofica, non meno importante in funzione della casualità che sembrerebbe aver contribuito a generarla.
Quanta sofferenza, quante rinunce e drammi personali reiterati possono trovarsi, da questo punto di vista, dietro l’aspetto normalmente attraente di un volto? Impreziosito dalle luci ed ombre che corroborano la perfezione delle forme, proprio grazie a tali e tante cicatrici metaforiche capaci di sfuggire alla cosciente percezione dei sensi. Se nessun uomo è un’isola resta perciò innegabile che tutti assieme siamo degli oceani. Imprescindibilmente circondati dalle increspature discontinue di successive maree taglienti. L’importante in ultima analisi è non respirare mai a pieni polmoni, quando la polvere risplende.