Il dolce del capodanno persiano creato con un singolo ingrediente

Tra tutti i requisiti necessari per giungere al coronamento di una pietanza elaborata, l’impegno è l’unica imprescindibile concessione da parte di colui o colei che ne amministra la preparazione. Non particolari ingredienti. né strumenti avanzati; negare tale assioma sarebbe, in altri termini, come affermare che la componente umana risulti inerentemente secondaria nei processi creativi. Significherebbe considerare il valore di un prodotto artificiale alla stregua di quanto proviene dalle mani e l’ingegno delle madri o nonne, che secondo la tradizionale organizzazione dei compiti nelle culture di matrice zoroastriana vantavano l’esclusiva gestione della cucina, in modo particolare nelle circostanze di particolari o imprescindibili ricorrenze del calendario. Momenti come il Nowruz o nuovo anno equinoziale, corrispondente ad un giorno variabile del mese di marzo secondo le nostre convenzioni nonché data corrispondente all’inizio del mutamento di stagione in base al clima centro-asiatico e del Caucaso europeo. Quando ciascuna famiglia dell’Iran contemporaneo, in base ad un’usanza abbastanza antica da rendere complesso ricostruirne l’origine, espone su di un tavolo i cosiddetti haft sin o “sette vassoi” o particolari offerte, ciascuna identificata con un termine che inizia con la lettera س (“S”): Sabzeh (grano), Senjed (oleastro), Serkeh (aceto), Seeb (mela), Seer (aglio) Somargh (anacardiacea) ed infine l’immancabile Samanu, una sorta di… Pietanza di color marrone, simile ad una purea semi-densa dal profumo particolarmente riconoscibile? Quale sarebbe, esattamente, l’origine di una tale sostanza?
Caso vuole che la sua preparazione, al tempo stesso semplice e laboriosa, costituisca un caposaldo nella cucina stagionale di questo e molti altri paesi, inclusa la Russia meridionale. E che nonostante risulti letteralmente sconosciuto come piatto nell’Europa Occidentale, tale piatto vanti un gusto notoriamente appetitoso apprezzato anche dai bambini, giungendo ad essere considerato letteralmente irrinunciabile per ogni riunione di famiglia che possa dirsi effettivamente priva di difetti. Il che potrebbe forse lasciare momentaneamente basiti, quando si viene a conoscenza della sua effettiva origine: il samanu, o samanak in lingua persiana, səməni halvası in azero, sumalak in uzbeco è semplicemente grano, fatto crescere, passato, filtrato ed infine cotto a fuoco lento. Fino all’ottenimento di un gusto naturalmente dolce ed alquanto memorabile, benché la sua produzione contemporanea tenda ad includere anche una certa quantità di farina o zucchero, onde adattarlo ai palati meno sensibili del mondo moderno. Che non sembrerebbero aver perso, d’altra parte, il piacere che tende normalmente a derivare dalla sua preparazione…

Il piatto finito di samanu tende spesso ad essere decorato con petali o interi boccioli di fiori, non tanto nella sua accezione commestibile ma come elemento primario della composizione dello haft sin.

Il lungo processo che va in seguito all’acquisizione dei semi di grano prosegue con la loro immersione in acqua, copertura con un panno e paziente attesa che inizino a germogliare costituisce, d’altra parte, una parte integrante dell’esperienza familiare che anticipa la composizione dello haft sin, così come le ore successive trascorse nella filtratura ed esecuzione finale di questa ricetta, esse stesse un’occasione conviviale idealmente trascorsa come periodo di festa ed interazione tra le donne dell’intero gruppo familiare. Che provvederanno in base allo stereotipo allo sminuzzamento, filtratura della polpa tritata e successiva mescolatura durante la lunga cottura in pentole che dovrebbero essere tradizionalmente di rame mentre cantano canzoni o parlano delle loro rispettive aspirazioni per la famiglia, in un dialogo che tende spesso a sublimarsi nell’espressione di una serie di desideri. Così che durante il coronamento della posa in tavola della pietanza, siano per prime le donne senza figli a riceverne una porzione mentre si concentrano profondamente sui propri obiettivi, un rituale che si dice possa agevolarne la realizzazione entro il concludersi dell’anno successivo. Un rituale che presupporrebbe anche il passaggio, talvolta trascurato dalle odierne società a maggioranza musulmana, di porre all’interno del samanu sette pietre sacre o benedette, piuttosto che una quantità pari o superiore di noci complete di guscio. Le quali potranno essere aperte e consumate a parte, dopo l’esaurimento del piatto principale.
L’importanza culturale di un simile sapore, associato indissolubilmente alle tradizioni di molti popoli, non può dunque essere in alcun modo sopravvalutata nel susseguirsi dei rituali connessi all’inizio di un nuovo ciclo così come la precisa composizione del resto della “mostra annuale” costituita dai sette vassoi. Un insieme d’oggetti la cui selezione dovrà essere molto attenta e commisurata all’occasione, poiché considerata rappresentativa dell’opulenza, ed al tempo stesso il buon gusto della famiglia o istituzione ospitante. Notevoli sono, ad esempio, gli haft sin assemblati da grandi e prestigiosi hotel, giungendo a prevedere l’inclusione di addizionali pegni oltre a quelli sopra menzionati e non più inizianti con la lettera S, tra cui il pesce rosso (simbolo del progresso) un orologio funzionante (simbolo del tempo) o un libro (simbolo della sapienza) che nella maggior parte dei casi risulta essere il Corano o il Divān di Hafez. Mentre lo stesso samanu dal significato in origine per lo più laico, viene oggi ricondotto dall’epoca del Profeta al grembo di Fatima, la figlia di Maometto, traendo ispirazione dalle sue ancestrali associazioni alla fertilità femminile. Forse la benedizione più grande immaginabile da parte di una società patriarcale, prendendo in considerazione l’esclusiva metà del mondo contrapposta, con ruoli e prerogative chiaramente scritte nel novero delle convenzioni sociali ereditate.

Questa mostra dei sette vassoi, realizzata dalla fondazione Farhang per il centro commerciale Westfield Century City di Los Angeles è una sostanziale scenografia dell’opulenza pensata per colpire ed affascinare il pubblico. Normalmente, tra le mura domestiche gli allestimenti risultano essere più calibrati sull’aspetto metaforico delle circostanze.

Così questo pudding, se così vogliamo decidere di definirlo, è l’imprescindibile dimostrazione che ben poco serva alla preparazione di un piatto elaborato, a patto che si sia disposti a dedicarsi anima e corpo alla creatività culinaria per un tempo abbastanza lungo da giungere alle finali conseguenze dei propri gesti. Rendendo il samanu in un certo senso il piatto democratico per eccellenza, immancabile nelle case delle classi meno agiate come quelle che hanno ereditato il potere politico, religioso e l’egemonia culturale di un intero contesto. Per cui doveva risultare assolutamente naturale, venerando il Sole ed il fuoco in ogni loro manifestazione, apprezzare il grano in qualità di simbolo fondamentale della vita stessa. Ma lo stomaco umano non può, in condizioni normali, digerire la paglia o la cellulosa. Ed è qui che entra in gioco il ruolo dell’unico, vero alchimista dall’opera concettualmente ininterrotta nel progredire della vicenda umana: il cuoco/contadino e la sua controparte femminile. Armati della stessa miscela di sapienza nozionistica, verve creativa e conoscenza delle prerogative di ciascun componente offerto dalla natura. E tutto ciò che tende, in condizioni che potremmo definire soltanto ideali, a derivarne.

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