Quando sarà giunta la mia ora, seppellitemi nel pesce d’oro

Era una vera pasta d’uomo. Ha avuto tre mogli che lo amavano, ha dato i natali a 17 figli. Ha posseduto una grande casa, ha fatto il pastore, il boscaiolo, il pescatore. Ha viaggiato in tutta l’Africa e l’Europa. Raggiunta la terza età, si è trasformato in uomo di cultura, e quando scriveva lettere ai parenti, non mancava mai di ricordare i vecchi tempi. L’altro giorno, mentre la pioggia battente cadeva sopra le acque del lago Bosumtwi, noi ci siamo svegliati. E invece lui, non c’era più. La Morte l’ha raggiunto nel sonno, stringendolo nell’ultimo e più duraturo degli abbracci. Privatamente, qualcuno si è rinchiuso in casa a meditare. Tra gli amici è insorto un forte senso di malinconia. Ma quasi nessuno, ha pianto. Ciò perché la fine della vita non è il termine di tutto, a Teshie nella periferia di Accra, né un momento triste per definizione. Si tratta, piuttosto, di un’occasione per raccogliere le idee, accogliere il pretesto e fare festa. E che male c’è… I vecchi membri del villaggio, giunti nello stesso periodo presso le strade asfaltate della grande città, si sono radunati per la processione funebre, in attesa di…Qualcosa. L’ultima consorte con il figlio, nel frattempo, hanno raggiunto un officina assai particolare. Un luogo ameno, rumoroso, con teste variopinte d’animali che si affollano presso l’ingresso. E le ombre varie, di alti attrezzi, sagome a martello, peperoncini grossi quanto un coccodrillo. “Buongiorno Mastro Kwei, buongiorno. Purtroppo, egli ci ha lasciato. Hai terminato ciò che servirà ad accompagnarlo all’altro mondo?” Falegnami, intagliatori, pittori che si mettono da parte. Ponendosi per indicare con lo sguardo quella cosa splendida e agognata: due specchietti, un parabrezza, un grosso cofano d’argento. È una Mercedes Benz, fatta di legno, come quella che il defunto possedeva da anni, e usava il fine settimana per andare in chiesa. Le linee sono fedeli e raffinate, gli specchietti incorniciano quel volto inanimato come si trattasse di un’attrice. Con un gesto carico di sottintesi, il capo dell’officina solleva sui cardini l’intera parte superiore. Al suo interno, il raso rosso (colore della morte) attende il corpo che custodirà per  ogni giorno a venire, da qui fino all’Eternità.
È un’usanza particolarmente legata al popolo nativo di questi luoghi, le genti che prendono il nome di Ga-Adangme, o semplicemente Ga (popolo). Che pur avendo ricevuto, come tanti altri vicini del continente africano prima di loro, il dono straniero del Cristianesimo, restano legati all’antico culto di Nyogmo-Ga, l’Essere Supremo, e i molti spiriti che fanno il suo volere presso i mari, monti e fiumi della Terra. E assieme a simili credenze, mantengono a un qualche livello la preziosa convinzione che i defunti, nel momento del trapasso, non lascino i viventi, ma piuttosto li accompagnino e li guidino attraverso le peripezie della vita. Un motivo in più, se mai ce ne fosse stato bisogno, di lasciare in loro un ottimo ricordo di se. Il che significa, sostanzialmente, inviarli all’altro mondo col possesso di qualcosa, almeno, un grande oggetto che ricordi quello che erano stati in vita. Qualcosa che accresca il loro prestigio, e che connoti l’imprescindibile post-esistenza nella  terra dei defunti. Soprattutto per questo, i funerali in Ghana sono un momento di raccoglimento, ma anche danze, canti e banchetti. Nel corso dei quali, un momento particolarmente significativo e la rivelazione della bara. Che costituisce, molto spesso, un vero e proprio capolavoro dell’arte naïf. L’origine delle bare personalizzate in senso formale è in realtà piuttosto recente, non andando oltre gli anni ’50 dello scorso secolo, benché nei fatti, esistesse qualcosa di simile nell’antica organizzazione tribale della società. C’era infatti l’abitudine, al momento del decesso di un capo, di porre la sua bara sopra lo stesso mezzo di trasporto che egli aveva usato in vita, e talvolta, seppellirlo con lui. E fu proprio così, secondo la leggenda, che nacque questo particolare mondo artistico di un campo tanto inusuale: quando, oltre 65 anni fa, un membro della comunità di spicco aveva chiesto a Seth Kane Kwei (1922-1992) la creazione di un palanchino con la forma di un seme di cacao, cibo da lui particolarmente amato. Poco tempo dopo, quindi, costui morì. E quello fu l’inizio dell’idea: perché quando svariati anni dopo, purtroppo, anche la moglie di Seth dovette passare all’altro mondo, egli costruì per lei una bara con la forma di un aereo, dando seguito al sogno irrealizzato che la donna aveva avuto di viaggiare in giro per il mondo. “Non l’ha potuto fare in questa vita, quindi gli darò queste ali, affinché possa sperimentare una simile esperienza nella prossima.” Fu una frase ad effetto, che fece una grande impressione sui concittadini. Tanto che in breve tempo, in molti accorsero per potersi assicurare un simile trattamento.

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Come costruire una vera iglù

Igloo build

Più che una semplice abitazione, lo stereotipo che nasce da una soluzione architettonica tutt’altro che scontata e fatta corrispondere, nel senso comune, a uno stile di vita rustico e rinunciatario, privo delle più basilari risorse o pratiche comodità. Quando in effetti la tipica abitazione delle popolazioni Inuit del nord del Canada, particolarmente utilizzata nell’Artico centrale e presso la regione di Thule della gigantesca isola di Greenland, è un concentrato straordinario di sapienza ingegneristica pratica, precisione costruttiva e mistica sapienza proveniente dagli spiriti degli antenati. E per rendersene conto, in questo preciso istante, non c’è niente di meglio che guardare il presente video prodotto nel 1949 dall’ente nazionale cinematografico canadese, in cui viene mostrata l’opera di due nativi di ritorno da un’escursione di ricerca del cibo tra le nevi eterne, che prima di dirigersi verso territori più accoglienti decidono di fare sosta presto un punto di scambio, a poca distanza da alcuni edifici costruiti con i metodi convenzionali. “I nativi ammirano ed invidiano le costruzioni dell’uomo bianco.” Si preoccupa di specificare la voce fuori campo del narratore Doug Wilkinson, alimentando una narrativa più che largamente data per scontata all’epoca, come del resto per alcuni lo è anche adesso. Quindi prosegue, con tono enfatico e convinto: “Tuttavia, essi sono anche nomadi e amano spostarsi. Se la caccia si rivela insoddisfacente, quando la casa appare vecchia e consunta…Allora non esiteranno a costruirne una completamente nuova.” E a giudicare dall’efficienza e rapidità con cui i protagonisti giungono al prodotto completo, nel giro di appena un’ora e mezza, non è difficile credere a una simile affermazione: tra di noi, c’è chi impiega un tempo superiore per montare la sua tenda!
Dopo un breve scorcio del prodotto completo, offerto dalla regia con finalità di dichiarazione d’intenti, si passa subito a uno schema disegnato, che rappresenta l’ordine in cui vengono effettivamente posti i blocchi l’uno sopra l’altro, che diversamente da quanto si potrebbe forse pesare, segue lo schema specifico di una spirale inclinata. Le pareti dell’iglù, in effetti, non derivano da una serie di strati sovrapposti l’uno all’altro come dei mattoni, ma da un’unica rampa che ritorna su se stessa, a partire da un prima serie ascendente di elementi, appositamente tagliati tramite l’impiego di un grosso coltello in avorio di tricheco (o più semplice acciaio) incidentalmente, l’unico attrezzo necessario per la costruzione. Questa linea edificata girerà normalmente in senso orario, ma talvolta all’opposto, nel caso in cui il suo costruttore sia in effetti mancino. Wilkinson a questo punto spiega come possano esistere diversi tipi di iglù, sostanzialmente suddivisi in base all’utilizzo ritenuto più probabile: un rifugio temporaneo, come questo, potrà vedere l’impiego di blocchi tagliati in modo relativamente impreciso, al fine di velocizzare l’implementazione. Mentre per un’abitazione familiare, facente parte di un villaggio che dovrà restare abitato per l’intero inverno, ciascuno di essi viene ponderato molto a lungo, misurato e qualche volta accantonato, onde ricercare una maggiore perfezione. In entrambi i casi, tuttavia, sarà essenziale scegliere il punto giusto per dare l’inizio all’impresa, soprattutto visto come il materiale usato per la struttura sia normalmente proveniente dal suo stesso spazio interno, che proprio in funzione di ciò si troverà più in basso del livello del terreno. Ciò è considerato particolarmente desiderabile, perché permette, assicurandosi che rimanga una zona per dormire sopraelevata, di intrappolare tutto il calore all’interno dell’abitazione, rendendola in massima parte ciò che veramente è: un luogo vivibile nel territorio maggiormente inospitale del pianeta. Da -40° a fino a +15 gradi Celsius, grazie a uno strato di appena una trentina di cm di neve compattata, divisa dall’esterno grazie ad una o più pelli d’animali. Non è incredibile? Ed a questo punto potreste chiedervi, alquanto giustamente, che cosa in effetti garantisca una simile escursione termica. La risposta, naturalmente, può essere soltanto una: il fuoco. Ma persino questo semplice elemento, affinché possa esistere in un luogo simile, necessità di particolari approcci alla necessità di fondo…

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