Piccola finestra sui sistemi per riuscire a stringere il bullone gigante

Problemi come questo furono una componente principale, fin dall’inizio, dell’interfaccia operativa sistematica tra il mondo industriale e coloro che costituiscono, al tempo stesso, i suoi arbitri e utilizzatori umani. Poiché nostra è la dicotomia tra l’ambizione e la condiscendenza, rispettivamente nei confronti di quanto è desiderabile ottenere in determinate circostanze, rispetto ai limiti fisici e mentali inerenti nel contesto tangibile dell’esistenza. E non vi è funzione maggiormente rilevante, di quella che collega il risultato perseguibile al margine d’errore latente. Prendiamo, per esempio, il caso della flangia: caratteristica strutturale di un tubo. Se non altra componente lineare di un impianto, che dovendosi trovare saldamente collocato saldamente in posizione, si troverà ad allargarsi perpendicolarmente in un disco finale; ragionevolmente traforato, ad intervalli regolari, da una serie di fori perfettamente tondi. E dentro di essi cosa mai potremmo prevedere prevedere, se non gli elementi che provvederanno a cementare l’ideale assemblaggio avvitandolo una serie plurima di volte, ancora e ancora, finche neanche in benché minimo refolo d’aria (per non parlar dell’acqua) possa uscire da una minima quanto indesiderabile fessura latente? Il che significa, signori, olio di gomito… Senz’altro, ma anche un certo grado di continuità e coerenza, come ebbe famosamente a rilevare l’impiegato del servizio idrico di New York J. H. Sharp nel 1931, frustrato dallo stringimento più che mai variabile, e purtroppo spesso insufficiente, nei diversi siti rilevanti della rete sotterranea urbana per la semplice ragione che anche utilizzando leve o moltiplicatori di forza, i nostri muscoli non sono stati concepiti per determinare in maniera scientifica quanto possa essere “abbastanza” in un contesto che fuoriesce largamente dalla nostra percezione naturale del mondo. Ecco qui che scaturì l’idea, destinata a un lungo seguito e processo evolutivo, della prima chiave dinamometrica manuale. Ovvero a quel tempo, nulla più che una chiave di manovra del tipo anglosassone (la tipica wrench) ma dotata di un complesso meccanismo di misurazione con deviazione della leva d’appoggio, per assegnare un numero alla resistenza del bullone di turno, indipendentemente dalla soggettiva percezione del suo utilizzatore. Il che poteva certamente funzionare, in una larga serie di contesti, ma che dire dell’evoluzione progressiva delle aspettative che potremmo al giorno d’oggi ricondurre ad una simile esigenza? Pensate a tal proposito al fissaggio di un albero di trasmissione tubolare di una centrale idroelettrica, di un grande motore navale o agli elementi strutturali di ponte sospeso. Tutte situazioni in cui la scala della forza necessaria, assieme alla sua precisione in fase di montaggio, si trovano semplicemente ad una scala largamente al di sopra dalle cognizioni precedenti. Ed è qui che l’energia muscolare umana, sostanzialmente, esce totalmente fuori dal quadro in essere. Lasciando il posto a tre diversi approcci: un pistone, la pressione, il calore interno. Ciascuno corrispondente ad una particolare tipologia di strumenti.
Cominciamo dunque il nostro elenco dall’attrezzo noto come chiave a torsione, che forse il più diffuso, ma non necessariamente versatile, dei tre approcci che andremo a citare. Quello consistente nell’impiego di un meccanismo a cassetta, ovvero finalizzato a ricoprire e circondare il bullone, coadiuvato da un raccordo corrispondente esattamente alla misura del componente, necessariamente collegato a due tubi di raccordo per l’immissione, a seconda dei casi, di fluido idraulico o aria ad altissima pressione. Tutto questo al fine d’indurre il moto in un cilindro dotato di una camma, che pur facendo avanti e indietro, può soltanto spingere innanzi l’ingranaggio esterno alla brugola, così da stringere (o allargare) il bullone. Simili strumenti, d’altra parte, devono per forza essere voltati dall’altra parte, nel caso in cui si debba stringere piuttosto che allargare, o viceversa…

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Soluzioni semplici, problemi complessi: mai pensato ad una gru a banana?

Nel mezzo di un gelido inverno, fuoco e fiamme scaturirono di nuovo dal crogiolo dell’opificio metallurgico dell’Ammiragliato di Keyham. Gli operai specializzati, controllando che il ferro grezzo venisse mantenuto alle temperature necessarie grazie all’immissione della giusta quantità di coke nella fornace a riverbero, fecero calare il grosso recipiente, quindi ne versarono il contenuto all’interno degli stampi per la creazione di larghe piastre di forma quadrata. Trascorso il tempo necessario affinché si raffreddassero in parte, passarono a piegarle tramite l’impiego del maglio ed uno stampo della forma attentamente prevista, affinché potessero costituire la parte fondamentale di una trave scatolata di concezione totalmente nuova. L’ingegnere e baronetto scozzese William Fairbairn, dal camminamento rialzato, supervisionava con la massima concentrazione i lavori, annuendo per l’esecuzione di ciascun passaggio. Sotto i suoi occhi attenti, gradualmente, iniziarono a prendere forma: sei oggetti di metallo oblunghi e perfettamente identici, della lunghezza unitaria di 9,1 metri. E un raggio della curva, tendente ai 90 gradi, pari a 9,8 metri. Sostanzialmente validi a costituire gli archi di un’immaginaria circonferenza, come la scultura di un’artista senza limiti di materiali e spesa. Eppure necessari ad assolvere a una chiara, limpida e continuativa necessità: sollevare i carichi pesanti.
Molte furono le opere create, attraverso il trascorrere delle generazioni, al fine di compiere un simile gesto: prendere il carico e portarlo in alto, in alto e poi farlo ruotare. Fino allo spazio di stoccaggio a lungo termine, dove potesse essere temporaneamente dimenticato. Ed il problema fin dai tempi antichi, era sempre lo stesso: come riuscire a moltiplicare la forza degli umani. Una questione già largamente risolta, quando in epoca Vittoriana lo stimato direttore della Fairbairn & Sons procedette a brevettare nel 1850 il modello di gru che avrebbe immediatamente preso il suo nome, concepita per funzionare grazie al sistema dell’argano e una serie di carrucole, in quantità maggiore a seconda dell’impegno necessario per assolvere all’opera programmatica e progettuale. Ovvero il sollevamento medio di 20 tonnellate, nei sei casi della prima costruzione in serie, durante le operazioni portuali per le città britanniche di Keyham e Devonport. Dimostratisi talmente validi allo scopo, da motivare la costruzione successiva di versioni ancor più grandi e potenti, tra cui spiccò la leggendaria gru “colossale” di Keyham, con un’altezza di 18 metri e 32 di diametro, capace di sollevare fino a 60 tonnellate, grazie all’opera laboriosa di 4 persone, la cui forza veniva amplificata di 632 a 1. In parole povere, il più potente strumento della sua classe nell’epoca della posa in opera, quando comunque molti apparati simili avevano già trovato l’inclusione nell’attrezzatura d’innumerevoli banchine al mondo.
Ma il punto principale del brevetto Fairbairn, nonché principale vantaggio rispetto alle offerte della concorrenza, era di un tipo fondamentalmente nuovo. Mirando a risolvere l’annosa questione del come, durante lo spostamento dei carichi, si potesse manovrare un qualcosa di eccezionalmente ponderoso ed ingombrante, senza urtare con gli spigoli lo stesso braccio dell’intero apparato. Ecco quindi il caso di una gru che venne poeticamente definita “a collo di cigno”. Poiché la natura, questo è noto, simili problemi aveva già imparato ad affrontarli da tempo! Mentre le nozioni necessarie a tradurne la sapienza in soluzioni pratiche, con il trascorrere degli anni, entrava gradualmente a far parte della cognizione e il repertorio della civiltà umana…

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Piccolo prototipo israeliano dimostra le capacità robotiche del basilisco

Notevole riesce ad essere la quantità e il tipo di doveri, verso il prossimo e la collettività, che ricadono sopra le spalle di colui che sa perfettamente di essere la manifestazione terrena del figlio di Dio. Una moltiplicazione dei pesci la mattina, Lazzaro all’ora di pranzo, raccontare parabole fino all’ora vesperina sul finire di una lunga e impegnativa giornata d’insegnamenti… Proprio per questo, Egli aveva ricevuto, in dotazione alla sua penultima venuta sulla Terra, un’utile capacità di galleggiamento: affinché potesse, durante le trasferte, accorciare il tragitto per quanto possibile, tagliando al di là dei laghi e fiumi della Palestina in trepidante attesa di essere salvata. Ecco dopo il trascorrere di un paio di millenni, il nome di Gesù si è ritrovato attribuito per antonomasia (con intento, se vogliamo, un po’ prosaico) alla particolare lucertola Basiliscus basiliscus, famosa per l’abilità di camminare, o per meglio dire correre, senz’affondare fino al raggiungimento di un’idonea quantità di metri dal pericolo di un predatore in agguato. Eppure assai difficile, per non dire quasi presuntuoso, sarebbe pretendere di attribuire a una simile capacità il singolo intento utilitaristico della sopravvivenza, quando appare anche a noi palese la quantità di gioia e incontenibile soddisfazione, che scaturiscono dal puro gesto di violare le apparenti leggi della fisica, sfidando ciò che viene normalmente dato per scontato nella relazione tra i fluidi e la materia. Le convezioni, d’altra parte, possono essere cattive consigliere. In modo particolare per chi ha ricevuto l’importante ispirazione, e l’irrevocabile mandato, d’innovare il mondo tecnologico e ogni sua profonda implicazione per il bene dell’umanità. Il Dr. David Zarrouk del Laboratorio di Robotica Medica e Bio-mimetica dell’Università di Ben-Gurion del Negev, già famoso per la lunga serie d’intriganti dimostrazioni digitalizzate su YouTube dei suoi più affascinanti lavori, ha pubblicato a tal proposito verso la metà della scorso mese l’ultimo progetto fuoriuscito dalle sue officine del pensiero pratico, il quinto robottino insignito dell’onore di far parte della sua rinomata serie STAR (probabile acronimo, di cui nessuno sembra conoscere il significato) per lo spostamento pratico attraverso i differenti elementi dell’universo tangibile e terreno. Niente ali di colomba come un’angelo o demoniache parti anatomiche di pipistrello, dunque, bensì l’approssimazione funzionale delle lunghe ed agili zampe del deiforme rettile, più rapido dei molti coccodrilli che percorrono lo spazio del suo habitat nella Colombia e nel Costa Rica.
AmphiSTAR è dunque il mezzo radiocomandato, ancora privo di un intento chiaro come tanti orpelli simili prodotti grazie al mondo accademico e scientifico, che si dimostra altrettanto valido nel procedere su terra ed acqua, grazie al sistema deambulatorio che non presenta l’uso di ruote, né arti meccanici in senso classico, bensì due paia di pratiche ruote a pale, concettualmente non dissimili dal concetto da quella utilizzata nella stereotpica imbarcazione sul fiume Mississippi. Ma che a differenza di quest’ultima si dimostrano altrettanto utili a spostarsi sulla terraferma, grazie alla capacità di direzionamento data in concessione dal meccanismo estensibile su cui sono state montate. In tal senso, l’ingegnoso robot “Capace di entrare facilmente nel palmo di una mano” (misura questa, a quanto pare, corrispondente a 22 cm di lunghezza) può essere paragonato ad una sorta di Gesù inverso, trasferendo un tipico mezzo deambulatorio del mondo liquido anche dove tale classe o spazio fisico dovrà lasciare il passo alla dura terra battuta. Senza subire neanche il benché minimo rallentamento, nell’interfaccia spesso problematica in cui termina uno spazio, per dare inizio all’altro…

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Quando splendenti galeoni meccanici percorrevano le tavole degli elettori di Sassonia

“Per l’Augusto padrone di tutti e sette i Lunghi Mari!” Esclamò con voce roboante il capitano, rivolgendosi al cocchiere sulla tolda della Ludwigslust, osservando nello stesso tempo l’orologio di bordo e l’ingombro passaggio da percorrere verso l’obiettivo finale di quel viaggio avventuroso: “Si preannuncia una difficile giornata”. Rivolgendosi al nostromo fece quindi il cenno, chiaramente noto a tutto l’equipaggio, di dare inizio allo spettacolo: “Quest’oggi riusciremo, finalmente, nell’impresa!” Esclamò tra se e se, gettando per un attimo uno sguardo verso il suo più prezioso passeggero, l’Imperatore Carlo V in persona, assiso sotto l’albero maestro sul suo trono dorato. Con un lieve sobbalzo in avanti, il vascello iniziò quindi a muoversi in mezzo alle torreggianti rocce trasparenti dello stretto mare, ciascuna ricolma di un liquido dalla colorazione differente, mentre un suono tintinnante risuonava oltre le murate scintillanti del galeone: “Non si preoccupi signore” fece l’uomo che stringeva con espressione concentrata il timone: “Abbiamo soltanto urtato un pesce cucchiaio. O forse si trattava di uno squalo coltello?” Dopo qualche ora di navigazione, tuttavia, la loro situazione iniziò a farsi chiara. Figure dai biondi capelli si stagliavano distanti tra la nebbia, come i titani dell’antica mitologia. Alcuni, i meno alti, gridavano con entusiasmo nella loro lingua incomprensibile, scuotendo i marinai nella coffa. I fuochi di candela, alti come vulcani, tremolavano nell’aria lieve della sera. “Avanti con l’orchestra, facciamoci sentire!” Gridò allora il capitano, mentre l’equipaggio, come un sol uomo, tirò fuori i suoi strumenti musicali. Trombe sul ponte, tamburi sopra gli alberi. Qualcuno, nelle viscere della stiva, sembrò aver messo in moto un potente motore spieldose, o come lo chiamavano i francesi, carillon. Era il segnale, naturalmente. In quel preciso istante, la porta della cabina principale si spalancò, mentre un insigne processione iniziò a rendere i suoi omaggi all’immobile, assorta figura di Carlo V. Per primo, chiaramente, l’arcivescovo di Magonza. A cui fece sèguito il duca di Sassonia. Quindi giunse il margravio di Brandeburgo, e dietro di lui, il conte palatino del Reno. Nostromo e timoniere volsero lo sguardo brevemente a un tale insigne convegno, mentre i loro petti si gonfiavano d’orgoglio, per un rito tanto spesso ripetuto nella storia operativa del galeone. Ma non c’era di sicuro il tempo di distrarsi, quando il capitano gridò con enfasi: “Obiettivo in vista, armare il cannone principale!” Come un solo uomo, gli addetti all’arma si affollarono attorno alla grande bocca di drago di prua, l’arma principale della Ludwigslust. Che si trovava, in quel momento, puntata verso un’alta e indistinguibile figura. “È lui, è lui, il falso Dio-Imperatore!” Gridò qualcuno, e poi: “Per Augusto, che il nostro colpo possa trafiggere il suo cuore…” Aggiunse l’artigliere, che ad un semplice quanto drammatico gesto del suo ufficiale al comando, tirò la corda utilizzata per fare fuoco. Un suono roboante scosse il vascello dal profondo, con un rinculo possente in grado di farlo arretrare per almeno un quinto della sua lunghezza. E mentre la nebbia e il fumo iniziavano, finalmente, a diradarsi, la scena si fece più chiara. Innanzi alla prua c’era lui, l’odiato Rodolfo II d’Asburgo. Alto come dieci torri dell’orologio a Norimberga, con un’espressione stranamente deliziata e compunta. Quindi, almeno in apparenza completamente illeso, il nemico invincibile iniziò lentamente a battere le mani. Ben presto gli altri giganti, che ormai circondavano la nave, iniziarono a fare lo stesso, ridendo ed emettendo orribili schiamazzi. E fu giusto allora, che l’equipaggio della nave d’oro ricordò la natura ciclica del suo destino…

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