L’antica arte del nuoto samurai

Le acque del fiume Toyo erano ancora influenzate dal gelo notturno, mentre colui che le aveva sfidate nuotava silenziosamente mediante l’impiego di soli tre arti, con il braccio destro riservato tenere la spada al di sopra della testa. Alcune sagome dotate di lancia si stagliavano contro la luce tenue, al di sopra degli argini distanti. Torii Suneemon sapeva bene che una volta riusciti ad entrare nel castello di Nagashino, i Takeda avrebbero ucciso il suo signore, la sua famiglia e i suoi commilitoni, fino all’ultimo guerriero del clan Okudaira senza la benché minima esitazione. E immaginava fin troppo bene che cosa gli sarebbe successo, se l’avessero scoperto: “Nessuna pietà per i traditori” questo avrebbe enunciato Katsuyori, sotto molti punti di vista il degno figlio di suo padre, l’invincibile tigre Takeda Shingen. Ma il mandante di questa missione, Okudaira Nobumasa, evidentemente, non l’aveva vista a tal modo, quando alla morte della belva del Kai in circostanze sospette per il colpo di un cecchino di questo 1575 di sangue, aveva gettato gli stendardi nel fango, inviato alcuni messaggeri (al tempo non serviva altro) ed issato sopra i bastioni del suo seggio fortificato il triplo petalo di malvone del feudo di Mikawa, passando al servizio dei Tokugawa, e per loro tramite, del sovrano dei demoni Oda Nobunaga. Un uomo ammantato d’ombra, capace di uccidere persino coloro che avevano dedicato la loro vita alla venerazione del Buddha sopra le montagne ai confini del mondo. Ma cosa avrebbe mai potuto fare, un semplice ashigaru (servitore ausiliario) nelle vaste schiere di un daymio minore? Torii aveva dunque chinato il capo, e di nuovo messo la propria fiducia al servizio del Suo volere. Ma adesso, era giunta l’ora della fine. “Ciò che facciamo, riecheggia nell’eternità” Avrebbe detto qualcuno di lì ad un paio di decenni, Yamamoto Tsunetomo nel suo Hagakure, il testo sacro dei samurai. “Percorrere la via della spada significa scegliere sempre, tra la vita e la morte, la morte. Nient’altro è possibile.” E pur non avendo ancora sentito simili parole Torii aveva risposto, per primo, alla chiamata per la missione suicida: violare l’assedio dei rossi Takeda, al fine raggiungere gli Oda e i Tokugawa e avvisarli del pericolo corso dal castello di Nagashino. Se tutto fosse andato nel modo migliore, a quel punto le schiere del più crudele signore della guerra nella storia del Giappone avrebbero sorpreso alle spalle la cavalleria dei magnifici 24 generali dalla folta chioma, mentre si preparavano all’ultimo assalto, sterminandoli fino all’ultimo uomo! O almeno, c’era questa remota possibilità. Avendo cura di continuare a scrutare regolarmente il movimento dei soldati nemici, Torii Suneemon rallentò momentaneamente, per togliersi i capelli da davanti agli occhi. Mentre agitava le gambe in un moto simile a quello di un mulinello, la sua testa era perfettamente stabile. La presa sulla spada, più salda che mai. Se fosse stato necessario, avrebbe combattuto strenuamente prima di essere ucciso. Questa era la via del vero guerriero, che avesse del sangue nobile, oppure venisse dalla coltivazione dei campi o le barche dei pescatori, che fosse un apicoltore o il capo di una risaia. Proprio questo, lo distingueva dagli artigiani e i mercanti, orpello inutile delle città.
L’impresa semi-leggendaria del guerriero degli Okudaira, più volte rappresentata nell’arte, nel teatro e in innumerevoli drammi televisivi in costume, fu soltanto possibile perché il nuoto, a quell’epoca, era uno dei fondamenti stessi della tecnica e delle discipline guerriere. Lo era stato per molti secoli, da quando le forze dei Minamoto avevano trionfato a Dannoura nel 1185, con la più grande vittoria navale mai conosciuta dagli storici giapponesi, condannando gli odiati Taira ad affogare nelle acque della baia di Shimonoseki, dove si diceva che fossero stati trasformati per volere degli dei in granchi. Il castello di Nagashino sorgeva infatti alla convergenza tra due fiumi, il Taki e l’Ono, che si univano a ponente formando il vorticoso corso del Toyo. Questo tipo di ricerca paesaggistica non era rara nella costruzione delle fortificazioni dell’epoca Sengoku, che tendevano a sfruttare l’acqua per proteggere i lati più esposti o limitare l’investimento necessario a costruire il terrapieno principale, su cui erigere le mura costellate di feritoie. Proprio per questo il Suijutsu (水術 letteralmente: tecnica del nuoto) era fiorito attraverso la tipica pletora di scuole e interpretazioni, che si affollavano nel proporre la soluzione ideale all’attraversare un corso d’acqua a cavallo, in armatura o con l’intera attrezzatura di un guerriero che si preparava all’assalto. Che includeva, naturalmente, il vestiario da guerra: un insieme di ferro, stoffa e bambù, che poteva talvolta superare il peso di 30 Kg armi escluse, tanto inferiore a quello di un’armatura a piastre europee. Eppure, gettate un cavaliere del nostro Medioevo in un fiume, sono poche le probabilità che quello riesca a raggiungere l’altra sponda. Questo vuole lo stereotipo e certamente, così deve essere stato. Qual’era, dunque, la differenza? Una, soprattutto: che il Giappone era sempre stato, e per sempre sarà, un insieme di isole, permeato e separato dalle acque del mare, nonché caratterizzato da un profilo idrografico particolarmente complesso ed interessante. Non era perciò assolutamente possibile pensare di montare una campagna bellica senza fare nuotare, prima o poi, i propri soldati…

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L’uomo dei ghiacci si è preso una bambolina

Apetor

Evoluzione, trasformazione. Cos’è l’inverno, tranne un’illusione? Ce lo dimostra l’atteso ritorno di Apetor,  il norvegese che non teme il gelo, già stimato autore di una lunga serie di video-avventure in mezzo alle acque torbide selezionate, di volta in volta, tra la vasta serie dei laghi del suo gran paese. Tra 450.000 diverse possibilità, tutte egualmente tonificanti per lo spirito ed il corpo, stavolta ha scelto proprio te. Holmfoss vicino la città di Larvik, a pochi chilometri dalle coste sul Mare del Nord. Per poter nuovamente mettere da parte i suoi vestiti, la telecamerina, i freni inibitori degli altri esseri a sangue caldo. Probabilmente nulla potrà mai fermarlo, tranne il sopraggiungere improvviso dell’ipotermia. E persino quella, ad ogni successivo exploit, appare sempre più improbabile e lontana, almeno quanto i tetti spioventi dell’ormai dimenticata civiltà. Quest’oggi, una sorpresa: per la prima volta e quasi accidentalmente, compare un pupazzetto a fargli compagnia. Di certo Nulla, sarà più lo stesso!
Secondo il sito collaborativo TvTropes, spesso citato a margine di discussioni internettiane sulla narrativa di genere, è del tutto naturale che determinati personaggi tendano ad acquisire connotazioni sempre più estreme, soprattutto con il proseguire di una serie troppo lunga di puntate. Questo processo, per antonomasia simpsoniana (quale miglior esempio dei gialli abitanti dell’eterna Springfield) viene identificato con il nome di flanderizzazione, dal caso del baffuto vicino di casa della famigliola in questione, il devoto cristiano evangelico Ned Flanders. Una figura rimasta per anni sullo sfondo e utilizzata occasionalmente allo scopo di far da contrappunto per le gozzoviglie di Homer, personificazione degli istinti basici dell’ipotetico americano medio: birra, cibo spazzatura, facilità all’ira, desiderio d’arricchirsi senza faticare. In tale configurazione cautelativa, quasi moralista, la devozione di quell’altro alla sua moglie ed ai due figli poteva essere interpretata come assolutamente benevola e sincera, benché sostenuta da una punta appena rilevante di marcato fanatismo religioso, e indicativa di un senso di rispetto da parte degli sceneggiatori verso quella media borghesia repubblicana che volevano ridicolizzare, ma con gusto e moderazione. Andò avanti in questo modo per due, tre, quattro stagioni del cartoon. Finché gradualmente, con l’esaurirsi degli argomenti ragionevolmente traducibili in peripezie più o meno divertenti, la trama della puntata-tipo prese ad assumere una piega differente. È un rischio sempre presente per chi fa della satira, la sua carriera: gradualmente si finiscono per esasperare i tratti immediati del proprio messaggio originario, finendo necessariamente per spingersi sempre più lontano. Il che, unito al modo in cui l’iter del secondo cartone animato più lungo al mondo (il primo ad oggi resta Doraemon, il gatto robot giapponese) preveda da sempre un progressivo ispessimento caratteriale di qualsivoglia figura che fosse dotata di due braccia e/o gambe, inclusi conoscenti soltanto occasionali dei portatori del cognome titolare, ha continuato ad aggiungere strati progressivi di follia. Il Flanders che ha iniziato a profilarsi negli anni 2000, rimasto vedovo a seguito di un incidente, si è progressivamente trasformato in un ossessivo-compulsivo che indottrina ad ogni occasione i propri pargoli con brani ed episodi tratti dalla bibbia, mentre reprime se stesso attraverso l’impiego di un linguaggio fatto di bizzarre ripetizioni dello stesso termine, ormai diventato rappresentativo almeno quanto la coniugazione del verbo “puffare” negli antichi gnomi dalla casa a fungo della belga Dupuis. La sua vicenda, meramente collaterale di una lunga spirale discendente qualitativa del cartone, è un monito per tutti quelli che vorrebbero prolungare a dismisura determinate opere d’ingegno commerciali, piuttosto che farle finire quando sono all’apice, in una gelida e gloriosa implosione d’inverno.

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