L’uomo dei ghiacci si è preso una bambolina

Apetor

Evoluzione, trasformazione. Cos’è l’inverno, tranne un’illusione? Ce lo dimostra l’atteso ritorno di Apetor,  il norvegese che non teme il gelo, già stimato autore di una lunga serie di video-avventure in mezzo alle acque torbide selezionate, di volta in volta, tra la vasta serie dei laghi del suo gran paese. Tra 450.000 diverse possibilità, tutte egualmente tonificanti per lo spirito ed il corpo, stavolta ha scelto proprio te. Holmfoss vicino la città di Larvik, a pochi chilometri dalle coste sul Mare del Nord. Per poter nuovamente mettere da parte i suoi vestiti, la telecamerina, i freni inibitori degli altri esseri a sangue caldo. Probabilmente nulla potrà mai fermarlo, tranne il sopraggiungere improvviso dell’ipotermia. E persino quella, ad ogni successivo exploit, appare sempre più improbabile e lontana, almeno quanto i tetti spioventi dell’ormai dimenticata civiltà. Quest’oggi, una sorpresa: per la prima volta e quasi accidentalmente, compare un pupazzetto a fargli compagnia. Di certo Nulla, sarà più lo stesso!
Secondo il sito collaborativo TvTropes, spesso citato a margine di discussioni internettiane sulla narrativa di genere, è del tutto naturale che determinati personaggi tendano ad acquisire connotazioni sempre più estreme, soprattutto con il proseguire di una serie troppo lunga di puntate. Questo processo, per antonomasia simpsoniana (quale miglior esempio dei gialli abitanti dell’eterna Springfield) viene identificato con il nome di flanderizzazione, dal caso del baffuto vicino di casa della famigliola in questione, il devoto cristiano evangelico Ned Flanders. Una figura rimasta per anni sullo sfondo e utilizzata occasionalmente allo scopo di far da contrappunto per le gozzoviglie di Homer, personificazione degli istinti basici dell’ipotetico americano medio: birra, cibo spazzatura, facilità all’ira, desiderio d’arricchirsi senza faticare. In tale configurazione cautelativa, quasi moralista, la devozione di quell’altro alla sua moglie ed ai due figli poteva essere interpretata come assolutamente benevola e sincera, benché sostenuta da una punta appena rilevante di marcato fanatismo religioso, e indicativa di un senso di rispetto da parte degli sceneggiatori verso quella media borghesia repubblicana che volevano ridicolizzare, ma con gusto e moderazione. Andò avanti in questo modo per due, tre, quattro stagioni del cartoon. Finché gradualmente, con l’esaurirsi degli argomenti ragionevolmente traducibili in peripezie più o meno divertenti, la trama della puntata-tipo prese ad assumere una piega differente. È un rischio sempre presente per chi fa della satira, la sua carriera: gradualmente si finiscono per esasperare i tratti immediati del proprio messaggio originario, finendo necessariamente per spingersi sempre più lontano. Il che, unito al modo in cui l’iter del secondo cartone animato più lungo al mondo (il primo ad oggi resta Doraemon, il gatto robot giapponese) preveda da sempre un progressivo ispessimento caratteriale di qualsivoglia figura che fosse dotata di due braccia e/o gambe, inclusi conoscenti soltanto occasionali dei portatori del cognome titolare, ha continuato ad aggiungere strati progressivi di follia. Il Flanders che ha iniziato a profilarsi negli anni 2000, rimasto vedovo a seguito di un incidente, si è progressivamente trasformato in un ossessivo-compulsivo che indottrina ad ogni occasione i propri pargoli con brani ed episodi tratti dalla bibbia, mentre reprime se stesso attraverso l’impiego di un linguaggio fatto di bizzarre ripetizioni dello stesso termine, ormai diventato rappresentativo almeno quanto la coniugazione del verbo “puffare” negli antichi gnomi dalla casa a fungo della belga Dupuis. La sua vicenda, meramente collaterale di una lunga spirale discendente qualitativa del cartone, è un monito per tutti quelli che vorrebbero prolungare a dismisura determinate opere d’ingegno commerciali, piuttosto che farle finire quando sono all’apice, in una gelida e gloriosa implosione d’inverno.

Nel frattempo, che differenza! Dall’altro capo dell’Atlantico, nella pur anglofona terra d’Albione, i migliori serial televisivi tendono a durare una manciata di puntate, però ciascuna memorabile per ottime ragioni. E dev’esserci un’ottima ragione, alla fine, se ancora adesso ritrasmettono gli stessi sketch di Mr. Bean! Uno strano individuo tipologico quello, che tutto poteva sembrare tranne un protagonista, eppure riusciva a diventare un vero e proprio eroe, grazie alle bizzarre circostanze che sperimentò nel corso di appena 15 episodi e un paio di film, praticamente un soffio, rispetto alle interminabili peripezie degli iper-sfruttati gialloni americani. E fu nel contesto minimalista di simili brevi vicende, che un semplice orsacchiotto di peluche, marrone come un chicco di caffè, diventò un sidekick degno dei migliori racconti supereroistici, alla stregua di un moderno Robin o Sancho Panza, talvolta usato come pegno infantile d’affetto, altre trasformato in punto cardine dell’intero racconto.
Di certo non poteva, questo incredibile antesignano norvegese, starsene fermo a guardare senza fare un adeguato gesto d’omaggio e imitazione, così perfettamente personificato dal nuovo vermiglio acquisto, per di più dotato di vistosa collana bianca intessuta all’uncinetto. E per chi non avesse colto il riferimento:

Apetor 2
Nella sua quarta escursione, Apetor superava se stesso. Pattinando sopra il lago ghiacciato ci finiva dentro in modo apparentemente accidentale, quindi, grazie all’uso di una sega elettrica, ne ricavava una sorta di ghirlanda, subito indossata con fare entusiasta sopra le sue spalle nude.

Apetor è molto più che il suo peluche. Anzi, quella rossiccia presenza cucita a maglia, che compare così all’improvviso nell’ultimo video non lo rappresenta neppure quanto l’inseparabile bottiglia di vodka, compagna di tante avventure sopra e sotto lo zero atmosferico spaccato.
Il nuoto cosiddetto invernale, fatto oggetto negli anni di una sincera promozione ad opera dei molti appassionati nei paesi nordici, viene considerata un’attività benefica e tutt’altro che pericolosa. Il punto, in effetti, è che il corpo umano può facilmente tollerare simili temperature per un tempo di fino a 30 minuti, e dunque nulla veniva considerato più utile al raggiungimento di uno stato di coscienza superiore, che abbandonarsi alla pratica finlandese o estone dell’avantouinti, dopo un ragionevole soggiorno nella sauna tipica di quei paesi. L’unico rischio resta quello d’imbattersi in acque salate a nostra insaputa, dove l’alto contenuto di sodio potrebbe aver interdetto la solidificazione, con conseguente raggiungimento di temperature anche molto al di sotto dello zero. Fu proprio così che Lewis Gordon Pugh, ecologista e noto praticante di questo sport, subì nel 2007 i principi di un congelamento presso il Circolo Polare Artico, che gli costarono un intero anno di recupero. Anche negli Stati Uniti ci si getta fra i ghiacci eterni dell’Alaska, in genere per beneficenza: le associazioni che organizzano simili eventi prendono il nome di Polar Bear Clubs e prevedono l’immersione occasionale seguita da una gara di resistenza, senza il compiere il vero e proprio gesto del nuotare. Nel frattempo in Russia, da che si è diffusa tra i popoli una particolare tradizione Ortodossa dell’Epifania, tutti gli anni vengono praticati dei fori sulla superficie degli specchi d’acqua ghiacciati, affinché i devoti possano immergersi esattamente tre volte, come fece Gesù ricevendo da Giovanni il battesimo nell’acqua del fiume Giordano. Benché, va detto, ad una temperatura molto differente. Ma cosa sarebbe la devozione religiosa, senza il giusto grado di abnegazione e il superamento dei limiti naturali, confidando nella forza imperitura della fede? Qualche graffio sulle ginocchia non è nulla, rispetto alla soddisfazione di aver fatto ancora un volta il proprio dovere dinnanzi al cosmo la natura ed i delfini (42).

Apetor 3
La vasca in mezzo alla foresta è un altro personaggio ricorrente dell’operatività di questo atipico filmmaker. In tutto questo c’è un chiaro simbolismo di critica alla condizione moderna, nevvero?

Al di là di simili considerazioni ideologiche più o meno rilevanti, una cosa resta certa: questo è un uomo che sente le voci. E quel richiamo, che si origina al di sotto della superficie semi-solida, lui non è disposto a lasciarlo inascoltato. Il suo Norwegian Wood, quel simbolico legno di mobili della sua amica/amante verso cui alludeva John Lennon nella sua canzone, nel suo caso va inteso nel senso maggiormente letterale che volle scegliere Haruki Murakami, nell’omonimo romanzo post-moderno: una foresta futuribile, all’interno della quale riscoprire nuove strade d’interazione con gli elfi e i troll di antiche tradizioni. E se davvero il mattino ha l’oro in bocca, come si usa dire, chi può dire quante monetine ti ha lasciato il Leprecauno, sulla lingua intirizzita dal bisogno di apparire…

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