Leggere il futuro grazie alla fusione dei metalli

Molibdomanzia

Si tratta di un gioco, un passatempo. Quasi nessuno, in quest’epoca pragmatica e civilizzata, ammette di crederci davvero eppure, guarda caso, nei negozi del centro abbondano i kit per compiere la mistica magia: un piccolo mestolo di ferro, fatto a misura per la forgia degli gnomi. E quattro, cinque oggettini di stagno oppure piombo, in forme apotropaiche come cuori, stelle o ferri di cavallo. Qualche volta, per semplificare, si tratta di semplici sfere, più pratiche al tatto ed alla prima fase del curioso rituale, assai diffuso in paesi nordici come la Germania o la Svezia, dove lo chiamano uudenvuodentina. Mentre per noi è molibdomanzia: un’arte o tecnica, particolarmente diffusa ai tempi della cultura celtica, che tuttavia risale fino all’epoca dei greci, quando gli oracoli dei grandi templi, rivolgendosi ai loro antichi dei, non solo ne traevano soddisfazione spirituale.  Bensì, per convenzione ed interpretazione di presagi, tendevano a ricevere risposte.
Il problema fondamentale di chi cerca la verità che ancora non può dirsi compiuta, da che esiste una qualsivoglia forma di divinazione, è la tendenza ad essere specifici; chi vuole sapere la realtà sui sentimenti altrui (quando la gente, tanto spesso, non capisce neanche i propri) chi cerca strade verso il potere e la ricchezza (i numeri, i numeri del lotto!) Altri, addirittura, pretendono di conoscere il giorno esatto della propria morte (pazzoidi). Quando è facile, per inferenza, desumere il funzionamento di una tale cosa: scrutando nel futuro, tutto deve essere per forza poco chiaro. È soltanto questo il metodo di prepararsi ad esso, ragionandoci per gradi, effettuando nella propria mente una simulazione dopo l’altra. Colui che scruta in luoghi estremamente remoti, ben oltre le stelle del creato, non può pretendere di ritrovare la realtà mondana, le piccolezze ed i bisogni della propria insignificante vita. Ma le correnti, quelle si. I ritmi e la tendenza del rapporto causa-effetto, come procedere, anche durante una lunga crisi, restando fedeli al proprio modus di ragionamento. Da questo punto di vista, la molibdomanzia moderna è molto più utile allo scopo: perché chi la pratica seguendo la prassi maggiormente accreditata, la maggior parte delle volte neanche pone una domanda.
Si fa così, generalmente in occasione di una qualche ricorrenza, come il capodanno: il gruppo si raduna intorno al tavolo, giacché non esiste una lettura del fato inscrutabile che sia migliore in solitaria. Viene accesa una candela, oppure un forno elettrico, insomma una qualunque fonte di calore intensa e ben direzionata. Quindi, l’uno dopo l’altro, si prende uno degli appositi segnalini di metallo, tutti uguali o ben differenziati, poco importa; visto lo specifico funzionamento del rito, si dovrà procedere rigorosamente a turno, pena il rischio di confondersi una volta proceduto alla fusione. A questo punto, benché molti soprassiedano, sarebbe il caso d’infondere le proprie vibrazioni spirituali nel pegno selezionato. Sul come procedere prima del punto apicale, è inutile dirlo, esistono visioni contrapposte: lo zio agita l’oggetto come fosse un dado, la nonna ci soffia sopra con le mani chiuse a pugno, altri, meno compunti, addirittura ci parlano e così via. Del resto, l’uudenvuodentina o per usare il termine tedesco, il bleigießen (dal verbo che significa squagliare) è un passatempo ormai legato al mondo dei bambini, che negli anni si è arricchito di passaggi buffi o interessanti, diversi per regione, città o addirittura singolo nucleo familiare. L’accumulo procedurale delle schiere di generazioni successive…

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Come, perché complicarsi il cubo di Rubik?

Cubefly

Senza rete, senza occhiali, senza piedi né pedali. Senza guardare. Senza toccare. Senza luce, tempo, spazio e spazio-tempo, metaforicamente ormai privati del principio generativo primo (l’Alfa) e del finale apocalittico (l’Omega) resteranno sublimati gli uomini di solida volontà. Per essere rapiti, da un vento intriso ed improvviso, trascinati fino in paradiso? Nossignore, Platone. Salva Nos-signore; giù nel mare delle cose, tra il flusso nevrotico dei gesti, esiste un’unica complessa soluzione che ha 54 facce differenti, ma diversi modi di arrivarci. Conoscerli richiede due strumenti contrapposti, stretti e lunghi, affusolati. Piante lunghe nel giardino delle dita, mani destre oppur sinistre per gestire, quando serve, l’ardua progressione di…
Quanto fa 3x3x3 in un cubo? La risposta non è 18, né 18.000 e perché mai dovrebbe, bensì 43 miliardi di miliardi di combinazioni. Ce n’è un numero maggiore, in un singolo giocattolo ungherese dell’omonimo inventore, dei granelli nella spiaggia di Alpha Centauri IV, diciamo lunga quanto l’equatore del pianeta intero. Se si potesse moltiplicare un Rubik di grandezza regolamentare per il numero di possibili posizioni dei suoi colorati componenti, se ne potrebbe ricoprire l’intero globo terrestre, con 275 strati sovrapposti. Questa è la natura della sua casualità. Eppure ci sono persone coraggiose, giorno dopo giorno, che lo affrontano a viso aperto, con le doti e il desiderio di riuscire nell’operazione: gira e rigira, volta una faccia, giungi all’epica figura. Di un’esistenza geometrica perfetta, in cui ciascuna delle facce rilevanti, sia del preciso sapore: fragola, banana, menta, arancia, melone e azzuro (yum, azzurro!) E nulla d’altro chiaramente, niente più di quello. Non è fantastico come il cervello umano affronta le ardue situazioni? Piuttosto che esaminare e progettare la sequenza di mosse che portano alla soluzione, tanto maggiori di quelle possibili in una partita a scacchi, a dama o addirittura a Go, il giocatore può procedere per tentativi. Del resto; l’unico avversario ufficialmente riconosciuto nella pratica del cubo di Rubik resta, per purissima convenzione, il più vasto ed incorporeo dei titani: Chronos, la lancetta dei minuti. Che talvolta, tanto è brava certa gente dall’impostazione iper-professionale, si trasforma in quella dei secondi, o dei minuti dei secondi e ancora meno, l’unica capace di distinguere tra chi ci mette: un lampo, un lampo e mezzo, mezzo fulmine col botto. Se ci provi non è facile, ma se resti lì a guardare, una sola conclusione: impossibile, inumano. Non ci capisco nulla e poi: “Perché dovrei provare!” prosegui un po’ piccato: “Sono un genio sregolato che ha saggezza e non si applica, io. Persino laureato (*sic. laureando)” Che la Sapienza, venga a me – o un qualsivoglia altro tipo di istituzione universitaria, preferibilmente superiore, come questa in cui si svolge chiaramente la stupefacente scena, tra i ridenti prati del tipico campus dei brusii: ecco Ravi Fernando, giocoliere rinomato, che non usa palle ma…

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La gioia incontenibile dei cani di palude

Max and Gilbert

Uno giallo, l’altro color del cioccolato: la coppia di Labrador retriever, i cani perfettamente impermeabili proveniente dall’omonima penisola del Canada settentrionale. Dire che questa razza ami l’acqua, è praticamente come dire che ai topi piacerebbe  un po’ il formaggio. Corrisponde ad affermare che la Luna sorge ogni sera, oppure il mare si ritira, dopo ciascuna alta marea, per l’effetto della sua gravitazione. È  ovvio e risaputo, da una parte, ma pure limitato nella sua dialettica ulteriore. Essere un buon Labrador vuol dire conformarsi entro determinati limiti, per semplice necessità, ai pratici dettami della civiltà: niente trasgressioni, non sporcare casa, mangiare nei luoghi e nei momenti deputati. Ma soprattutto immergersi nell’umido immanente, l’elemento fluido e trasparente, solamente se il padrone umano è lì a concederti il permesso, dall’alto di quella saggezza e senso pratico della misura. Il cane domestico, qualunque sia la sua genìa, ha un forte bisogno di essere guidato; altrimenti, la belva ferale che si annida oltre il suo muso morbido e grazioso tenderebbe a scatenarsi, con tutto l’entusiasmo di dozzine di rivoluzioni mai sedate, ma piuttosto re-indirizzate. Attentamente, verso cose utili, come portare un bastoncino, rotolarsi a terra, dar la zampa se lo chiami e così via. Ma adesso ascolta, addestratore di creature da riporto: quei tuoi cani ben disciplinati, fondamentalmente, non approvano quel che devono fare, giorno dopo giorno, per campare. Se pure lo capissero, probabilmente, tenderebbero a considerarlo un passatempo privo di significato, soltanto utile a fare contenti voi e ricevere il prezioso biscottino. Chi ha quattro zampe non ha tempo da perdere, ma piuttosto quel tempo lo crea, applicandosi con foga all’ambito dell’avventura. Dall’A alla F di fanghiglia, un folle parapiglia, la mattina interminabile nel vasto Sutton Park.
È comparso l’altro giorno, tra le schiere di video caricati dagli utenti sul portale di LiveLeak (l’alternativa meno regolarizzata al regno imperituro di YouTube) questa lunga e spettacolare sequenza realizzata dall’utente Docmatt, durante una passeggiata coi suoi cani Max e Gilbert, presso Birmingham, nella brughiera inglese. Si tratta di una scena trascinante nella sua semplicità. Ecco qui qualcuno, finalmente, che non vuole preoccuparsi del momento successivo, ovvero lo sporco trascinato fino a casa dai suoi beniamini… Dev’essere stato glorioso. Liberatorio, aprire lo sportello posteriore del veicolo e lasciar scappare fuori i fulmini pelosi e bicolori, per una volta, senza stare a controllare le pericolose traiettorie. Lì, un albero caduto. Dall’altra parte, una vecchia roccia semi-sepolta nel terriccio smosso. E loro zigzaganti, eppure ben sicuri come l’ago di una bussola, che puntano veloci verso l’acquitrino di Longmoor. Sono questi, luoghi con una lunga storia. Qui correva anche una strada romana, tanto che da secoli, il grande parco è stato soprannominato il meadow by the paved street, ovvero pascolo vicino al viale lastricato. Sotto questa stessa umida torba, presso il pozzo di Rowton, gli estrattori di quel materiale ricco di CO2 (un ottimo concime o carburante) vi ritrovarono ben mescolate alcune punte di freccia in selce, antiche monete e molti altri tesori, all’interno di tombe e tumuli preistorici mai visti prima. Dal XIX secolo almeno, a fronte di tanti ritrovamenti, si ritiene che presso questa foresta millenaria avessero stabilito la loro loggia di caccia i re dei Merci e dei Normanni, popoli trascorsi della terra d’oltremanica. Eppure, mai dimenticati. Come avremmo potuto permetterlo? I cani sono sempre uguali, corrono e saltano, si lanciano nell’acqua. Cos’è poi qualche dozzina di generazioni, per chi ama i millenni di evoluzione che ci hanno regalato questi ansimanti animali con la lingua penzoloni…
E di amore, ce ne vuole. Guarda che disastro! Grufolando come folli maialini, così ben spronati dal contesto sregolato, Max e Gilbert si perdono nel regno della temporanea libertà. È difficile dimenticare, per chi ha mai provato tali sensazioni, il gusto e il senso di portare il cane a passeggiare. Quella maniera in cui una semplice distesa di erba, per il tramite della ragione, si trasforma in una galassia di fiori e misteriosi odori, l’opportunità di ritornare verso il regno dell’istinto puro, non soltanto per il tuo camminatore a quattro zampe. Anche per te, padrone. Se soltanto, per un’ora o due, si potesse dimenticare quel bisogno di essere conformi. L’ansia di far cose con criterio! (Il che richiede, chiaramente, un sacrificio) ecco allora, andate. Sporcatevi, se necessario, in quanto io, vi offro il sedile posteriore. Per farne scempio Eterno, a seguito dell’esperienza, breve. Cosa importa…

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Nell’Otago scivoliamo su slittini senza neve

Luge run

“Benvenuto a Queensland, Nuova Zelanda, dove il sole splende tutto l’anno. Dove il kookaburra lancia il suo canto rauco prima di rubarti una salsiccia, il vento soffia tra gli arbusti ed i turisti sono pronti a tutto pur di divertirsi. Sono 53 dollari, grazie.” Poi si fa da parte, a lato del tornello presso l’area di partenza del circuito quasi verticale. Le montagne frastagliate dell’Otago, propaggine estrema del paese, svettano sopra le acque specchiate del lago Wakatipu. Oppure, forse è l’Hayes… Tutto dipende dal percorso scelto e dalle curve rilevanti, per discendere velocemente dalla cima del Bob’s Peak. Che nome falsamente rassicurante! Qui nell’isola meridionale dell’estate senza fine, dove il gelo che attanaglia è una leggenda da narrare assieme alle altre favole di tolkeniana reinterpretazione, il criterio dei toponimi pare selezionato per tranquillizzare l’animo degli “spericolati” escursionisti: Tooth Peaks, il monte del dente(ino), David Peaks, ehi David come butta? Che dice Jane Peaks?? (Si, c’è pure la consorte) mentre a ridosso delle abitazioni, giù dall’altra parte del gran lago, addirittura sorgono i Remarkables, gli Stupefacenti, ma non come a dire, wonderful, oppure amazing – quelli si, veri superlativi – ma piuttosto un termine morigerato che pare preannunciare l’espressione: “Caspita, c’è una montagna. Ah, però! Saliamoci e facciamo qualche cosa.” Questo pensi mentre molli il freno, visto che hai pagato per la bicicletta e adesso è ora di pedalare. Metaforicamente parlando.
Perché tranquillità non vuole dire inedia, pacificazione non significa fastidio. Scatta sempre un meccanismo, nella mente di chi è giovane ed intenzionato a fare nuovi esperimenti, che dal nulla sa creare l’avventura; il rischio che si corre per divertimento, il senso di sprezzo del pericolo, più o meno controllato, variabilmente conduttivo a strane conseguenze. Chissà chi avrà pensato, per primo, questa straordinaria soluzione alla mancanza di una vera stagione sciistica, nonostante il vento di nordovest del föhn possa portare a inverni alquanto freddi, con la neve che discende fino nella valle abitata e qualche volta lì attecchisce, addirittura. Ma l’anno è lungo e c’è da guadagnarci, pure senza pattini sotto la slitta, ma piuttosto…Con le ruote ed uno sterzo manuale, ah si! Se ti schianti, la colpa è tua. Ecco, guarda qui che roba: questo luge track (percorso per slittino) che ormai stai discendendo da oltre sei minuti, non accenna a giungere alla fine. È stato costruito, infatti, con criteri assai particolari. Prima di tutto è ruvido e asfaltato. Giacché l’approccio estivo allo scivolamento, per sua implicita natura, trae giovamento dagli estremi controsensi. Non puoi davvero curvare, senza l’adeguato grado di aderenza. E qui, seguire adeguatamente il circuito è cosa buona e indubbiamente utile, persino delicata. Scendi, coraggioso. Quanti tornanti, fra il degrado collinare discendente, alla tua sinistra, e il baratro piuttosto preoccupante, dalla parte contrapposta, come Frodo Baggins che affronta il passo di Cirith Ungol con il fido Sam Gamgee, presso la Torre della Stregoneria, verso la sagoma attraente del distante Monte Fato. Ci sono paesaggi, tanto ricchi di spunti attraenti per lo sguardo, da poter condizionare il mondo dell’intelletto e l’intera cultura di un popolo. Pensa per esempio al Tibet, che ospitò il Buddhismo Mahayana delle origini, una religione filosofica fondata sullo splendido infinito, come senza limiti erano quelle valli, all’ombra di montagne sconvolgenti. Ma non è davvero chiaro come sia successo, che il verde magniloquente delle dolci colline neozelandesi, abbia finito per diventare, nell’immaginario collettivo, il simbolo dell’Epica moderna!

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