Chakram, arma segreta del Sikhismo: l’indubbia letalità di un disco volante

Nell’antico romanzo epico indiano del Mahābhārata, scritto da Viyasa nel IV secolo a.C, si narra tra le altre cose delle gesta di Krishna, avatar terreno del dio Vishnu. E di come egli, affrontando più volte il nemico e cugino Shishupala, aveva imposto un numero di volte massimo in cui avrebbe tollerato di essere offeso. E così alla 101° volta in cui gli venne mancato di rispetto, estrasse dalla manica il divino Sudarshana Chakra, arma magica creata per la distruzione dei demoni, e lo lanciò all’altezza del suo collo. In questo modo, egli fu decapitato e la giustizia venne restaurata nel regno degli uomini. Naturalmente si trattò di un gesto non-violento, poiché guidato dal senso supremo della giustizia dell’oltremondo. Eppure resta indubbio come uno strumento simile, capace di emettere fiamme a comando, colpire sempre il suo bersaglio e separare arti o altre parti del corpo umano risultava essere piuttosto terrificante. In tal senso, tra tutte le armi divine menzionate negli antichi testi, esso potrebbe essere individuato come una delle più caratteristiche, proprio perché priva di dirette corrispondenze fuori dalle sue terre d’origine in Oriente. D’altra parte il chakram, termine in sanscrito che significa semplicemente “cerchio” o “disco” fu effettivamente utilizzato sui campi di battaglia, almeno a partire dall’epoca del grande Maharaja e sovrano dell’impero Sikh del Punjab, Ranjit Singh (regno: 1801-1839) essendo strettamente associato alla principale setta della casta guerriera del suo popolo, i Nihang. Anche detti Coccodrilli Immortali o “Coloro che sono al di là del tempo” volendo in tal modo significare che soltanto gli Dei potevano pretendere di giudicarli. Un tipo di prerogativa da cui fu sempre tipico, in ogni cultura immaginabile, far derivare un distintivo modo di porsi ed abbigliarsi, pretendendo di affrontare le casistiche del mondo. Che includeva, nel loro specifico caso, una grande quantità di armi. Immaginate, in tal senso, quanto segue: ogni soldato di fanteria di un’armata pre-moderna avrebbe dovuto essere, idealmente, uno schermagliatore. Giacché nella fluida impostazione di un’ordine di battaglia, risultava altamente probabile ci si trovasse col nemico fuori dal confronto all’arma bianca tra gli eserciti, in una situazione cui l’attacco a distanza diventava niente meno che fondamentale. Così come avveniva per gli Antichi Romani ed i loro giavellotti o le plumbata, proiettili tenuti dietro lo scudo e pronti da lanciare (idealmente) all’indirizzo dei barbari oltre i confini dell’Urbe. Ma i Sikh, combattenti spesso privi di armatura e dotati di equipaggiamento comparativamente più leggero, erano soliti equipaggiare i propri proiettili in modi alternativi. Come attorno ai polsi, alle braccia, alle spalle ed infilati nel turbante. Ragion per cui fu in pratica inevitabile, che costoro progettassero un’arma che aveva la forma di un cerchio, dotata di un foro centrale per trasportarla nella maniera già anticipatamente descritta dallo scrittore ed ufficiale Duarte Barbosa (1480-1521) che aveva parlato in un celebre paragrafo del tipo di effetto devastante che potevano avere in battaglia i Sikh. Il loro simbolo addizionale sarebbe diventato dunque, nel corso dei secoli, il chakram ma il suo nome alternativo, per l’efficacia che sarebbe in grado di dimostrare, avrebbe anche potuto concretizzarsi in “terrore volante”…

Dal punto di vista pratico ed ingegneristico tale particolare implemento si presentava dunque come un cerchio piatto di ferro e/o acciaio, plasmato mediante l’utilizzo di un incudine dall’incavo apposito in cui il materiale veniva ribattuto e saldato alle estremità, per formare un tutt’uno del tutto impossibile da separare. I chakram potevano avere molte dimensioni diverse, a seconda del punto del corpo in cui dovevano essere indossati, dal più piccolo chakri per il polso all’imponente vada chakra dal diametro superiore ad un metro, presumibilmente concepito al fine di essere impiegato in contesti cerimoniali. Alcuni esempi, nel frattempo, mostravano priorità al loro ruolo simbolico e rappresentativo, con elaborate inscrizioni sacre o preghiere applicate in modo comparabile all’agemina, mediante l’intarsio di appositi fili di metallo di un altro colore. Un irrinunciabile tipo di abbigliamento collegato all’uso dell’arma ed in verità all’intero ordine dei Nihang era ormai già chiaramente individuabile all’inizio del XIX secolo nell’alto turbante Dastar bunga, un copricapo mantenuto rigido mediante l’uso di una stecca di bambù ed il cui nome significava etimologicamente “fortezza svettante”. Dalla forma conica con una sommità lasciata libera di oscillare nel vento, ornata con insegne metalliche quali il sacro tridente, la spada e naturalmente il Khanda, simbolo sacro del sikhismo. Ma anche, e soprattutto, una serie dalle dimensioni crescenti di affilatissimi chakram, che il guerriero avrebbe estratto in rapida sequenza e lanciato una volta rimasto privo nella foga della battaglia della propria lancia o dell’arco. La loro tecnica d’impiego prevedeva in tal senso una serie di tecniche possibili di lancio, tra cui quella orizzontale dal basso ed una verticale, al fine di controllare meglio la traiettoria ed impedire in tal modo il pericolo sempre presente del fuoco amico. Altamente riconoscibile ed associata agli utilizzatori di più consumata abilità, figurava inoltre il sistema tajani, consistente nel far roteare il disco attorno al dito indice di una mano, prima di rilasciarlo con una forza inerziale inevitabilmente aumentata. Garantendo in tal senso, al momento dell’impatto, una continuità nel movimento rotatorio, capace di aumentare i danni causati e la capacità di taglio a discapito del malcapitato bersaglio umano. In condizioni ideali, è importante sottolinearlo, il chakram poteva raggiungere bersagli molto lontani, grazie alle sue prerogative aerodinamiche notevolmente sviluppate che includevano l’approccio istintivo al sistema aerodinamico di un profilo alare. In cui ogni minima modifica nella simmetria o inclinazione del disco veniva, possibilmente, utilizzata al fine di compensare consistenti deviazioni riscontrate nella propria tecnica di lancio.

Che il progetto e funzionamento del chakram fosse da un punto di vista pratico eccellente resta indubbio, come anche esemplificato dalla sua imitazione di epoca contemporanea posta in essere negli anni ’70 dall’inventore di giocattoli americano Alan Adler, che ricostruendolo in meno aggressiva plastica scelse di dargli il nome commerciale di Aerobie. Tecnicamente parlando, un frisbee dal profilo interno vuoto e con la forma di una piatta ciambella, che dal 1984 fino al 2005 avrebbe detenuto il record di oggetto lanciato più lontano dal mero impeto muscolare umano, avendo raggiunto i 406 metri grazie al forte braccio di Erin Hemmings. Il che non avrebbe fatto altro che accrescere ulteriormente il mito televisivo della protagonista della serie Xena – Principessa guerriera tra il 1995 e 2001, diventata celebre per i suoi lanci immaginifici (ed oggettivamente impossibili) di un tipo di chakram fantastico capace di curvare a comando o ricercare i bersagli nemici. Una dimostrazione di come una buona idea non cessi di restare tale con il progredire della tecnologia bellica. Ma entri piuttosto a far parte dell’imprescindibile tessuto della cultura popolare, offrendo notevoli spunti possibili di approfondimento.

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