Arenaria sotto l’autostrada con ingresso nell’esofago di un Leviatano

L’antica civiltà responsabile dell’angusto pertugio, in base a quanto è stato determinato dagli archeologi della Società dell’Impero Solare, amavano le proprie metafore, che impiegavano in modo particolare nell’assegnare i nomi ai luoghi, circostanze e caratteristiche del paesaggio. Anche quando erano loro, in modo ragionevolmente accidentale, a crearle. La rovina in questione si trova dunque nel Secondo Continente Terrestre, quello che all’epoca veniva definito “America Settentrionale”. I più pedanti tra gli abitanti dei Trentadue Pianeti potrebbero voler conoscere il toponimo specifico della regione: Utah, Kanab. Sito di un centro abitato verso l’inizio del terzo millennio da una quantità stimata di circa 3.700 persone, benché la popolazione complessiva fluttuasse molto a causa dell’interesse turistico nei suoi distintivi dintorni. Come è ancora possibile ammirare infatti grazie all’uso dei droni e automi radiocomandati usati come unica modalità d’accesso al pianeta radioattivo che costituì la culla dell’umanità indivisa, attorno ad essa campeggiano pietre e canyon scolpiti dagli elementi, in una maniera che ricorda l’Area Pietrosa di Sirio Kettricken IV. Il che non costituisce, per fare chiarezza, una mera coincidenza bensì l’effetto della diffusione preponderante del materiale lapideo formato da granuli della dimensione medie paragonabili a quelle di granelli di sabbia: l’arenaria, come la chiamavano da queste parti, notevolmente facile da plasmare soprattutto con i macchinari pesanti di cui disponevano le antiche genti di Kanab. Era dunque un’epoca di grande sviluppo industriale e in tutto Secondo Continente incluso lo Utah, l’antica civiltà aveva imparato a utilizzare asfalto bituminoso per costituire lunghi viali percorribili ad un ritmo sostenuto tramite l’impiego di veicoli automatici su ruote di gomme. “Automobili” venivano chiamate e buona parte degli agglomerati urbani, le lunghe vallate, le accoglienti pianure venivano plasmate, a quei tempi, onde favorire l’utilizzo di tali veicoli dalla mobilità desueta. Così accadeva, talvolta, che le precipitazioni atmosferiche di tali latitudini si manifestassero in maniera repentina e più intensa del normale. Allagando e rendendo conseguentemente inutilizzabili, per qualche tempo, tali “Strade”. Il che sarebbe stato anche accettabile, se la gente dell’umana civilizzazione non avesse sempre avuto fretta di raggiungere i distanti Luoghi al termine o coronamento delle proprie giornate. Dal che l’idea di effettuare un primo scavo, come possiamo ancora constatare, sotto il tragitto dell’Autostrada Americana 89, largo appena il giusto per permettere il passaggio e conseguente deflusso delle acque che tornavano allo stato liquido nel ciclo eternamente ripetuto sopra e sotto l’atmosfera del Pianeta. Almeno, in un primo momento; giacché l’elemento fluido in questione, attraversando e proiettandosi attraverso un simile tragitto di scolo, con il trascorrere degli anni continuò gradualmente ad allargarlo. Fino ad evocare, con la propria semplice ma reiterata presenza, l’immagine della metafora forse più importante in filosofia, elucubrazione del fantastico e criptozoologia applicata. I più esperti tra voi sulle questioni del secondo e terzo millennio, probabilmente, ne avranno già subvocalizzato le tre sillabe cariche di un pregno significato: dra-go-ne…

Naturalmente sussistono diversi approcci per tracciare nello spazio del fantastico una simile creatura, mostro composito con tratti appartenenti alla lucertola, il serpente, l’aquila, il pipistrello, il leone… E questo è forse uno dei meno diretti e maggiormente convoluti, poiché si approccia alla questione per così dire dall’interno, offrendo l’approssimazione ragionevole di quello che i poeti definivano “trachea” o “budello” o per usare l’inglesismo coévo al nostro periodo oggetto di studio, “the belly” (il buzzo/stomaco dell’animale). Senza menzionare né lasciarci trascinare nel nostro entusiasmo a tratti successivi del condotto digerente fin qui delineato, ovvero fori d’uscita di ben più prosaica e meno elegante disquisizione concettuale. Così fedelmente riprodotto, a suo modo, dal presentarsi delle pareti discontinue e ondulatorie del tunnel in questione, a conti fatti non più lungo di un centinaio di metri, appena il giusto perché la luce solare riuscisse a penetrarvi dalle due estremità contrapposte, lasciando soltanto una limitata pozza di tenebra nel suo tratto centrale. Così come avveniva e continua tutt’ora a verificarsi in molti degli stretti canyon o tunnel lavici dei territori terrestri, spazi di un pianeta geologicamente attivo e perciò pericoloso da abitare persino all’epoca della distante Età dell’Informazione, per non parlare dello stato pressoché inerme dell’umanità di fronte agli elementi prima dell’invenzione e diffusione dei metodi industriali applicati all’architettura. Pare dunque che a quei tempi, fosse l’usanza dei turisti umani visitare tali luoghi, al fine di rendergli omaggio tramite la conferma personale ed eventuale elaborazione di nuove metafore utili al sostegno del discorso generale. Mansioni, queste, particolarmente accessibili presso il Budello del Dragone, proprio per la vicinanza con l’importante arteria di collegamento stradale suddetta, oltre all’accesso libero ed in alcun modo regolamentato, diversamente da quanto avveniva per luoghi maggiormente celebri degli immediati dintorni, come la variopinta formazione rocciosa “The Wave” o le misteriose caverne di Moqui. L’alta percorribilità del tunnel, dunque, è ancora oggi constatabile dalla presenza di numerosi graffiti tracciati sulle pareti friabili del monumento, creati dalle moltitudini di occasionale passaggio al fine di lasciare traccia della propria venuta, firmare qualcosa d’inamovibile o rendere immutabile la percezione di un amore, immaginario o percepito da entrambi. Difficile comprendere in effetti quale piacere riuscisse a trarre l’uomo pre-galattico nel sovrascrivere con mani (troppo?) operose ciò che i fattori circostanziali e irripetibili avevano trovato modo di generare, benché ciò vada probabilmente inserito nello stesso senso dell’identità individualista che portò alla compilazione di una lista di luoghi “instagrammabili” o in altro modo giudicati degni all’epoca di campeggiare in molteplici profili o pagine gestiti da ciascun gruppo di persone online. Nella ricerca di un senso d’appartenenza latente e imperscrutabile, nella maggior parte dei casi, un frutto della fervida immaginazione dei nostri digitali antenati.

Che il bizzarro e distintivo tunnel possa essere in qualche maniera prezioso è un concetto degno di essere affermato senza nessun tipo di dubbio residuo. Quante altre occasioni esistono, persino oggi, di vivere l’esperienza di finire ingurgitati, fuoriuscendo all’altro capo (o perché no lo stesso, dopo aver voltato la direzione dei propri passi) di un maestoso gigante sopito. Tanto inumano quanto empatico, poiché fin dalla concezione teorica di simili imponenti predatori, non c’è stata affinità maggiore di quella unidirezionale tra draghi ed umani. Dove i primi mangiavano i secondi, in senso per lo più figurativo, ma erano proprio questi ultimi a trarne il nutrimento maggiore. Indifferenti al suono dei veicoli sfreccianti a pochi metri di distanza, sopra la dura e immota scorza del pietroso dominatore dei Tre Cieli. Interprete ruggente dello Sputo e del Fuoco. Dragheggiante belva che ancora ci parla, per quanto sia possibile per lei riuscire a farlo, scacciando indietro l’impietosa fame che ne domina la surreale progressione dei giorni.

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