L’aguzzo fascino dell’astronave che trasportò l’architettura cecoslovacca negli anni ’70

Perfetta unità di tempo, opportunità e luogo. Miracolose contingenze che persino nell’allineamento dello spazio intelligibile, talvolta non riescono a creare l’eccezione che, idealmente, può dare una conferma della regola immanente. Un esempio? I paesi dell’Europa Orientale, durante i lunghi anni dell’egemonia sovietica, videro l’impiego reiterato di un canone esteriore sobrio ed utilitaristico. In ogni campo della creatività moderna, inclusa guarda caso l’architettura. Niente di scorretto in linea di principio, nel proporre tale affermazione, finché non si volge il proprio sguardo verso il picco della montagna di Ještěd, la più alta cima del massiccio bohemo. Ove campeggia, tra l’occasionale nebbia rarefatta dei 1.012 metri d’altitudine, una struttura che ricorda al tempo la torre Eiffel, un alto stupa indiano, il razzo sulla copertina di una rivista pulp e il grattacielo costruito da un eclettico stregone. Il simbolo totemico, nonché punto d’orgoglio, della piccola città di Liberec, famosa per le sue piste da sci ed altre attrazioni tipiche del contesto montano. Con una storia che getta le sue radici nel solido suolo dioritico fino al 1844, quando le forze militari inviate nel territorio per sedare le rivolte degli opifici tessili si abituarono a compiere gite sulle alture, rifocillandosi presso l’istituzione di ristoro itinerante dei coniugi Hasler. Che tre anni dopo diventò una baita in legno. E nel 1850 un capannone in pietra. Successivamente sostituito, per opera di un’associazione tedesca nel 1906, in un’affascinante cottage con 23 camere, che probabilmente sarebbe ancora tra noi. Non fosse stato per la scelta imprudente, il 31 gennaio del 1963, di un impiegato incaricato di scongelare i tubi di approvvigionamento idrico. Che utilizzando una fiamma ossidrica a tal fine, finì per dare fuoco all’intero edificio. Rammarico, rimpianto, dispiacere. Ulteriormente destinati a manifestarsi quando, un anno dopo, i lavoratori del cantiere di demolizione incendiarono accidentalmente anche la vecchia casupola degli Hasler, chiudendo il cerchio della devastazione accidentale. Ma da grandi ed imprevisti eventi, come si suole affermare, derivano opportunità importanti e non ci volle molto, quello stesso anno, perché la gente di Liberec iniziasse a raccogliere spontaneamente le ingenti cifre necessarie per ricostruire lassù… Qualcosa. Erano questi, d’altra parte, gli anni del governo di Antonín Josef Novotný, un segretario del Partito Comunista relativamente aperto all’espressione individuale e l’eclettica realizzazione delle idee. Come quella dell’architetto Karel Hubáček destinata ad essere selezionata, nell’aprile del ’63, come vincitrice del prestigioso concorso indetto al fine di trovare un sostituto per la cima rimasta spoglia del Ještěd. E sulla quale assai difficilmente, in quegli anni, avrebbe potuto trovare posto una semplice croce. Né semplicemente un albergo, con accanto una pratica torre per le telecomunicazioni. Bensì l’insolita, perfettamente funzionale combinazione di queste due cose…

Lungamente trascurato nelle sue costose opere di manutenzione, l’albergo ormai di mezzo secolo è stato sottoposto ad un primo restauro nel 2016. Tuttavia diverse problematiche tra cui le infiltrazioni d’acqua nel basamento, allo stato attuale, restano irrisolte.

Nella sua forma facilmente osservabile da molte miglia di distanza, l’hotel a vysílač (albergo e trasmettitore) di Ještěd è costituito da una forma paraboloide rotante, con una pianta circolare di 33 metri e l’altezza complessiva di 100. Tale da sovrastare, ed in qualche modo valorizzare, la frastagliata sagoma della montagna. Occupata nel suo primo piano sopra la reception, accessibile mediante scala a chiocciola di marmo, da un ristorante panoramico con arredi futuribili attentamente selezionati da Otakar Binar, l’edificio lascia quindi il posto nei livelli oltre il quarto ai tipici arredi di un albergo di montagna, per un totale di 12 camere e un appartamento disposti attorno al cerchio del cilindro centrale. Ospitando poi nei piani superiori, in modo alquanto prevedibile, gli spazi dedicati all’elettronica e manutenzione della svettante e potente antenna. Una configurazione atipica capace di condurre a non pochi problemi logistici, derivanti almeno in parte dalla difficoltà di trasportare materiali pesanti o prefabbricati con l’unico ausilio veicolare della vecchia funivia, costantemente battuta dai venti e dalle intemperie di questa regione d’Europa meteorologicamente turbolenta. Al punto che all’interno del pinnacolo elettrificato, l’ingegnere strutturale Zdeněk Patrman assieme ai colleghi dell’Università Tecnica di Praga (CVUT) avrebbe scelto d’implementare un pendolo di stabilizzazione assolutamente avveniristico per l’epoca, soltanto una delle molte soluzioni insolite adottate nell’edificio. Tra cui un rivestimento d’alluminio brevettato ad-hoc per l’isolamento termico, finestre rinforzate nella parte bassa per resistere all’occasionale distacco di lastre ghiaccio dalla sommità della torre ed uno scudo in materiali termici contro la diffusione delle microonde, per proteggere gli ospiti da irradiazioni indesiderate. Una letterale tempesta perfetta di tecnologie prive di precedenti, destinata a complicare ed allungare non poco il completamento dell’opera, tanto che nel 1968, durante l’invasione dell’allora unita Cecoslovacchia da parte delle truppe dei paesi del Patto di Varsavia le maestranze straniere coinvolte dovettero fuggire via in tutta fretta, complicando ulteriormente le operazioni. Aggiungete a questo l’avvenuta e inevitabile successione al governo di Hubáček da parte del nuovo Segretario di partito Alexander Dubček, una figura molto più conservatrice e meno aperta nei confronti d’influenze moderniste percepite come provenienti dall’estetica possibilista del blocco occidentale. Tanto che al completamento e conseguente inaugurazione nel 1973 del grande capolavoro di Hubáček, architetto semplicemente troppo celebre ed ammirato nel paese per poter pensare di fare un passo indietro sul suo progetto, quest’ultimo non venne neanche ufficialmente invitato, dovendo essere fatto entrare di nascosto dalla porta sul retro. Un’antipatia surreale e reiterata che aveva nel frattempo portato a revocargli il passaporto quattro anni prima, contestualmente al suo ottenimento del premio Perret conferitogli dall’Unione Internazionale degli Architetti (UIA) da ritirare a Buenos Aires. Inficiando in tal modo l’unica opportunità, ad oggi, da parte di un architetto di nazionalità Ceca o Slovacca di ricevere quel prestigioso riconoscimento.

L’estetica spaziale degli interni dell’albergo, ripresa anche nelle camere e diverse suppellettili a corredo, doveva spiccare in modo ancor più significativo nell’epoca uniforme dell’egemonia sovietica. Permettendo ai visitatori di sperimentare, in modo alquanto problematico, l’eccezionale ebbrezza dell’espressionismo individuale e la capacità di sovvertire i modelli.

Oggi un importante punto di riferimento ed attrazione turistica della Repubblica Ceca, l’albergo di Ještěd rappresenta una proposta eccezionalmente fuori dal contesto del suo ambito e territorio d’appartenenza. Non così diversa, per lo meno da un punto di vista metaforico, dal macigno errante “del gobbo” Kamen Krejčík, visibile con occhio attento dalle sue finestre panoramiche, segno a valle di un’ancestrale incontro tra l’eponimo abitante del villaggio e gli elfi, chiamati dallo Spirito della montagna per riorganizzare e definire il paesaggio. Se non che improvvisamente spaventati, da codesto burbero individuo, ne lasciarono cadere un singolo mattone costituente e numerosi altri frammenti, destinati a rotolare rovinosamente verso valle. E chissà come avrebbe reagito, l’incidentale avversario del cambiamento, all’atterraggio di un simile UFO proveniente da galassie lontane. Almeno prima di risedere, almeno una volta, tra l’argenteo ed accogliente involucro di quelle digradanti mura.

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