Nel 2011 qualcosa di strano riemerse galleggiando nella baia del lago Brienz in Svizzera. Con tre protrusioni o estremità ed un tronco centrale ma nessun accenno di testa, coloro che ebbero il dubbio onore di prenderne atto non ci misero molto a capire la sua natura. Trattandosi, come potrete forse già immaginare, di resti umani. Tale corpo tuttavia, trasformato dal lungo periodo trascorso sott’acqua, aveva un aspetto tutt’altro che naturale. E soprattutto, come si scoprì ben presto, una consistenza più rigida della ceramica, più resistente persino del metallo. Esso era anche, per ragioni non del tutto chiare, di un color cobalto brillante, causa una pletora d’incrostazioni la cui provenienza restava del tutto incerta ma di sicuro NON erano semplicemente delle alghe. I primi coroner contattati per tentare di dare una soluzione al quesito fondamentale fallirono a causa dell’evidente contaminazione, risultando incapaci di fornire una data di morte, sospettarono in base a fattori di contesto il peggio: che potesse trattarsi di un defunto passato a miglior vita negli ultimi 15 anni, possibilmente una vittima d’omicidio. Il suo DNA, tuttavia, risultava anch’esso inspiegabilmente impossibile da rilevare. Lo sconforto continuò a dilagare. Finché ad uno di loro non tornò in mente la casistica di una notevole mummia, ritrovata nel 1991 in condizioni simili all’interno del territorio italiano. Il suo nome: Otzi, il reperto antropologico dell’uomo di Similaun. Conservatasi per oltre tre millenni all’interno dell’omonimo ghiacciaio, causa l’effetto del gelo ma anche un raro fenomeno connesso alla decomposizione. Causato dall’idrolisi dei tessuti umani, fino alla formazione di un guscio solido e letteralmente impenetrabile agli elementi, che prende comunemente il nome di adipocera. Materiale molto inviso ai patologi e criminologi, proprio perché tende a richiedere l’utilizzo di attrezzi pesanti, come seghe o martelli, per tentare di accedere al suo contenuto rivelatorio. Ma anche un “terreno” fertile per il verificarsi di un’ulteriore macabra trasformazione, quella delle molecole di fosfati facenti parte della nostra fondamentale essenza. Che dopo la dipartita, rientrate nel costante ciclo chimico delle infinite trasformazioni, tendono ad interagire con ogni sostanza che si trovano attorno, incluso il ferro e l’acqua. Una triade, se vogliamo, particolarmente fortunata. Poiché genera la formula Fe 2+ 3 [PO 4 ] 2 8H 2 O e conseguentemente, la Vivianite. Cristallo magico utilizzato per prevedere il futuro, mistico oggetto degno di venerazione. La fonte, in epoca medievale, di una polvere colorata più preziosa dell’oro. Non sempre, o necessariamente, la conseguenza di un corpo passato a miglior vita. Ma che quando ciò avviene, permette di spostarne la cronologia di svariati secoli indietro. Screditando, pressoché immediatamente, qualsivoglia malcapitata ipotesi d’omicidio…
Caratterizzato dall’insolita inclinazione a cambiare colore verso il blu quando esposto all’aria, pur possedendo un abito cristallino di colore verde al momento della sua formazione, il minerale vivianite costituisce dunque un idrato dei fosfati di ferro con l’occasionale contenuto di manganese, magnesio e calcio. Causa contingente dell’associazione, più volte riscontrata, tra la pietra e i siti di conflitti medievali o persino precedenti, dato l’utile apporto del metallo contenuto dalle armi ed armature dei loro antichi partecipanti. Comunque tutt’altro che infrequente nei sostrati di pianura soprattutto se alluvionali, anche in assenza di resti umani o d’altro tipo, essa venne scoperta e descritta scientificamente per la prima volta nel 1817 dal tedesco Abraham Gottlob Werner, che decise di denominarla in onore del politico ed appassionato di mineralogia di origini gallesi Henry Vivian (1785–1855). Esteticamente attraente nella loro configurazione cuneiforme, con lati lisci e riflettenti, tali cristalli risultarono tuttavia fin da subito quasi del tutto irrilevanti nel campo della gioielleria, a causa di una solidità trascurabile e la tendenza a spezzarsi nel senso della lunghezza. In altri termini, bastava un’unghia umana per riuscire a graffiarli. La loro caratteristica più notevole, d’altra parte, sarebbe diventata questione politica nel 1991, quando alla ricezione di alcuni corpi di soldati statunitensi periti durante la guerra del Vietnam, tardivamente ritrovati all’interno dei rottami di un aereo precipitato in una torbiera, i coroner dovettero costatarne la colorazione insolita tendente all’azzurro intenso. Sospettando in un primo momento, come conseguenza, che potessero essere stati intenzionalmente verniciati per impedirne l’identificazione. Di assoluto rilievo anche il ritrovamento nel 2016 di una fossa comune risalente alla guerra dei sette anni della seconda metà del XVIII secolo, presso la città di Liberec in Repubblica Ceca. I cui studiosi dovettero, essenzialmente, inventare un processo del tutto nuovo con particolari sostanze chimiche al fine di separare copiose quantità di minerale dei corpi, per il resto, ragionevolmente ben preservati. Questo perché, come dicevamo, la vivianite inibisce l’utilizzo del processo della reazione a catena della DNA polimerasi, una delle metodologie più funzionali al fine di determinare la provenienza biologica di un defunto.
Ma essa è anche alla base di alcuni dei più strani ed affascinanti ritrovamenti nel campo della paleontologia, avendo la propensione fisica a produrre il fenomeno della pseudomorfosi, ovvero l’assunzione della forma propria di un altro minerale, tramite contaminazione o incrostazione. Con il piccolo dettaglio, assolutamente non trascurabile, che quest’ultima controparte possa essere costituita da ossa, conchiglie, denti o persino membra fossilizzate, giungendo uno dei rari esempi di un minerale che “cresce” letteralmente sui resti di qualcosa che un tempo era stato vivente. Piuttosto che il contrario.
Tralasciando dunque i suoi utilizzi oggettivamente improduttivi nel campo dell’indagine alchemica e la cristallomanzia apotropaica, la Vivianite era conosciuta fin dal dodicesimo secolo per una funzione importante: la produzione di un pigmento utilizzato in campo tessile e nella pittura, successivamente passato alla storia come ocra blu. Decisamente meno costoso e raro rispetto all’alternativa a base di lapislazzuli, ma anche attestato in una quantità di culture vastamente superiori. Con esempi nell’arte greco-romana, nelle maschere ancestrali della Papua Nuova Guinea ed un impiego particolarmente efficace, tramandato attraverso i secoli, per la realizzazione dei tatuaggi delle popolazioni Maori di Australia e Nuova Zelanda. Di assoluto rilievo infine, nella storia dell’arte, l’utilizzo di questo pigmento provato scientificamente nel 2001 per alcuni dettagli del quadro di Jhoannes Vermeer, La Mezzana, in cui compare nelle tonalità delle stoffe e una ceramica blu di chiara provenienza cinese.
Applicazione anch’essa, sebbene attraverso metodologie del tutto artificiali, dell’imprescindibile propensione delle ossa ormai immobili a trasformarsi in qualcosa di diverso. Ma non dovrebbe forse costituire un destino nobile, per gli animali ormai dipartiti, trasfigurarsi nella fine polvere che può rinascere come porcellana? E quale miglior destino immaginabile, per noi stessi sepolti ormai da un tempo immemore, che tornare importanti a guisa di pietre che catturano il celeste splendore? O armature sinistramente rianimate, come in un classico prodotto dell’iconografia horror contemporanea, le scricchiolanti giunture ornate da puntute ed incrostazioni sporgenti. Grazie al sangue del grande Negromante, solennemente incline a chiedere legittimità del suo regno. Sæcula sæculorum, amen.