Un oceano vario e diversificato, un abisso senza fondo e quasi totalmente privo d’illuminazione. Dove innumerevoli punti di vista virtuali, le finestre semoventi offerte dai ricercatori con le loro videocamere divulgative, mostrano abbaglianti esseri perduti nell’oscurità, creature inusitate dalla forma ed una vita particolarmente difficili da concepire. Qualche volta, inevitabilmente, gente compie l’errore perdonabile di ritornare sui propri passi. Nel vasto e inusitato spazio che è il Web. Così il titolo, fatto rimbalzare a gran voce: “Nuova specie scoperta nel Mar dei Caraibi! Siòri vènghino, a veder la belva tremebonda che somiglia a un mostro alieno da sconfiggere al completamento di un videogioco!” Omesso il nome, proporzioni, luogo esatto e circostanza dell’avvistamento in questione, perché poco conduttivi all’incremento delle interazioni del pubblico e conseguenti opportunità di guadagno (di consensi? Entrate pubblicitarie?). Oltre al “piccolo” dettaglio che l’intera sequenza d’immagini potrebbe o dovrebbe rappresentare nello schema generale delle cose un ritorno nostalgico ai bei tempi andati. In quanto una più attenta datazione avrebbe collocato l’esatta contingenza ad un periodo di otto anni fa, durante una delle spedizioni pregresse di quella che costituisce probabilmente al giorno d’oggi la singola nave da ricerca oceanografica più famosa al mondo. E c’è parecchio da condividere, per l’ennesima, nei commenti empatici del giovane equipaggio dell’EV Nautilus, di fronte al primo contatto con questa creatura qualche centinaio (o migliaio?) di metri sotto la superficie dello stretto di Anegada, un tratto di mare particolarmente burrascoso situato tra le Isole Vergini ed Anguilla famoso per i suoi vulcani sommersi ormai sopiti da tempo, tanto inviso ai marinai dell’era coloniale da esser stato soprannominato “Oh-my-god-a Passage”. Una forma rosea e spigolosa oltre ogni modo, con plurime ramificazioni sovrapposte dislocate alla maniera di un frattale. Ed otto zampe visibili, l’ultimo e quinto paio ben nascosto sotto il carapace che a una più puntuale analisi, si trova rivolto con il dorso in direzione dell’obiettivo del ROV (drone sottomarino) di turno. Dimostrando e dichiarando in fine al mondo di trovarsi nella fattispecie innanzi all’ennesimo risultato di qualche millennio di carcinizzazione, ovvero quel processo di convergenza evolutiva che conduce in modo inesorabile ciascun crostaceo ad assumere attraverso le generazioni la forma di un granchio. Il che non toglie, d’altra parte, l’opportunità di osservare stili e soluzioni particolarmente varie, inclusa la corazza dagli aculei strabilianti di questo animale rivelatosi all’epoca impossibile da catturare con i metodi convenzionali dell’aspiratore di esemplari a controllo remoto, e perciò classificato empiricamente come un probabile rappresentante del genere Neolithodes. Nient’altro che un granchio reale rosso, in altri termini, del tutto affine a quelli catturati in significative quantità da un industria della pesca largamente internazionale, famosa all’opinione pubblica per il tramite del reality televisivo Deadliest Catch. Sebbene neanche i più esperti protagonisti della serie sarebbero stati felici, di trovarsi a dover districare dalle reti una creatura dagli aculei dislocati in una così problematica maniera…
Creature dalla discendenza e qualche volta classificazione tassonomica controversa, molti degli appartenenti alla superfamiglia Lithodoidea sono stati ricondotti dai naturalisti a una possibile deriva bentonica dei paguri (fam. Paguridae) in maniera ancora desumibile dalla conformazione fisica asimmetrica di queste creature, anticamente ottimizzate per un guscio dalla forma a spirale ormai da tempo non più presente. Mentre risulta ancora osservabile, nella stragrande maggioranza delle specie, una disparità nelle dimensioni delle due chele, una delle quali utilizzata per tenere e l’altra fare a pezzi il cibo, generalmente rappresentato da piccoli organismi o detriti biologici presenti sul fondale del proprio ambiente elettivo d’appartenenza. Uno spazio entro il quale i king crabs si aggirano con grande propensione migratoria, proveniente dalla necessità delle femmine a vivere in ambienti relativamente caldi, al fine di massimizzare le opportunità di mantenere fertili le proprie preziose uova. Laddove i loro partner potenziali, di proprio conto, trovano rifugio dove la temperatura scende maggiormente, riuscendo in questo modo a conservare una maggiore quantità d’energie. Un’inclinazione paradossalmente problematica, poiché assieme all’elevato grado d’adattamento ha indotto vaste popolazioni di questi esseri a migrare senza preavviso in zone precedentemente inesplorate dei mari del Nord, attaccando e impoverendo la biosfera dei relativi ambienti, prima di spostarsi e continuare a farlo altrove. Non che questa inclinazione a proliferare paia particolarmente applicabile alla misteriosa tipologia avvistata dalla EV Nautilus, visto il singolo esempio che gli è stato possibile inquadrare nel corso della pur produttiva e lunga spedizione del 2013 ad Anegada. Probabilmente rilevante, di contro, l’analisi ecologica dei propri fattori di rischio ad opera dei predatori, che vede la forma larvale dei granchi particolarmente giovani come un bersaglio facile per un’ampia gamma di creature planctivore, fino alla metamorfosi oltre le prime mute della forma adulta, quando il granchio diventa semplicemente troppo impervio e difficile da catturare. Fatta eccezione, in contesti tuttavia molto diversi dagli abissi dei Caraibi, per carnivori determinati e pieni di risorse come le foche, le focene o le lontre marine. O pesci abbastanza grandi da riuscire a strappargli una zampa o due, pur dovendo necessariamente battere in ritirata di fronte agli aculei protettivi del loro carapace. Che progressivamente s’ispessiscono ed allungano con il trascorrere del tempo, fino al raggiungimento dell’età riproduttiva grosso modo rintracciabile attorno al quinto anno d’età. Preparandosi generalmente all’incontro con le controparti del sesso opposto in prossimità del punto del termoclino dove la temperatura varia, situato attorno ai 20-30 metri di profondità. Non che tale ipotesi sembri essere applicabile al caso granchio ridiventato virale in questi giorni, vista la sua appartenenza presso irraggiungibili recessi del mare aperto, con condizioni di vita e sfide biologiche particolarmente difficili da determinare. Così come appare probabile, ed effettivamente documentato nel caso di altri esponenti del macro-gruppo dei Lithodoidea, che nel caso delle specie abissali decada totalmente la stagionalità degli eventi riproduttivi in genere concentrati a partire dal mese di maggio, vista la continuità delle condizioni ambientali al di sotto di un certo livello di profondità. Sempre egualmente conduttivi al rilascio di ampie quantità di uova sottoposte a fecondazione esterna, in eventi collettivi dall’alto livello apprezzabile di frenesia. In maniera di sicuro difficilmente immaginabile, per creature acuminate come quella documentata nel misterioso video caraibico di cui sopra.
Ricco di spunti d’analisi e oggettive opportunità di scoperta, lo sconfinato oceano di Internet presenta anche il pericolo di essere sviati dall’opportunità di comprendere l’effettiva verità dei fatti. Soprattutto quando si presentano all’interno di contesti difficilmente definibili e con forme a fogge largamente prive di riferimenti pregressi. Ed è proprio questo, in ultima analisi, il valore dei gruppi di discussione e siti di approfondimento collaborativi, egualmente utili a contestualizzare il tipo d’immagini che resterebbero altrimenti una mera e improduttiva curiosità latente. Se soltanto un maggior numero di utenti, trasportati dalle imprevedibili correnti, scegliesse di percorrere questa strada!