L’odierna e funzionale riscoperta dei ponti ad arco nel sistema delle infrastrutture africane

“Così è il modo. Questo è il metodo. Abbiamo trovato la soluzione.” Parole significative scaturite, nel momento della prima opera portata a compimento, dai supervisori di uno dei progetti più importanti portati a coronamento negli ultimi anni dall’associazione belga di assistenza ai paesi in via di sviluppo, la Enabel impegnata a lungo termine entro i confini della Tanzania. Alla constatazione della massima efficienza, con cui il popolo di agricoltori della regione di Kingoma poteva finalmente raggiungere la piazza dei propri mercati regionali, senza dover camminare al di sotto del livello di sicurezza nel guado di svariati profondi e problematici torrenti. E per una volta non dovendo fare affidamento sulla buona grazia, la poca considerazione ambientale ed il continuativo supporto di un’impresa di costruzione proveniente dal facoltoso Nord del mondo. Bensì l’energia dei loro stessi muscoli, coadiuvata dal più utile ed operativo degli strumenti: la conoscenza. Quella contenuta per l’appunto all’interno di un conciso manuale, che potremmo collocare tra gli scambi più fondamentalmente utili derivanti dall’incontro con i popoli di questo continente. Il cui titolo è sorprendentemente semplice e diretto, così come l’effettivo materiale contenuto tra le sue pagine: Stone Arch Bridge. E chi l’avrebbe mai potuto immaginare che nel secondo decennio degli anni duemila, una significativa fascia di popolazione avrebbe tornato ad affidarsi a una simile tecnologia, risalente a niente meno che l’epoca del Mondo Antico, da cui tutt’ora alcuni esempi restano perfettamente in piedi e sono utilizzati occasionalmente. Avete presente, ad esempio, il ponte Fabricio verso l’Isola Tiberina?
Il tutto verso un approccio logico al problema che potremmo definire estremamente logico, quando si considerano le implicazioni del suo contesto. Nella stessa maniera in cui nel XIX secolo il Dipartimento per le Opere Pubbliche della Colonia del Capo assunse a distanza e accolse tra le sue fila il giovane ingegnere inglese Joseph Newey, le cui competenze avrebbero portato, per i 32 anni a venire, alla costruzione di un gran totale di 80 ponti dislocati in quella regione critica e i paesi confinanti, molti dei quali costruiti con le metodologie moderne del cemento precompresso e travi di ferro. Ma alcuni tra la moltitudine, nelle opere di restauro e miglioramento di strutture pre-esistenti, fondati sull’applicazione di un particolare metodo del tutto simile a quello utilizzato dagli Antichi Romani. Non c’è una grande necessità di risorse d’altra parte, materiali e tecnologia, quando tutto ciò che ci si mette a fare è sollevare una serie di centine ed altrettante volte, per tutta la lunghezza resa necessaria dall’attraversamento di turno. Laddove ciò che potrebbe piuttosto sollevare un senso di latente meraviglia, è il fatto che nel corso degli ultimi anni, a partire dall’inizio della venture collaborativa avviata nel 2016, la quantità di opere realizzate entro i confini di un paese oggettivamente molto meno facoltoso del Sudafrica abbia ampiamente eguagliato e persino superato di numero gli obiettivi raggiunti dal solo Newey nel corso della sua intera carriera. Anche grazie alla spontanea partecipazione d’ingenti parti della popolazione locale, motivata dai successi supervisionati direttamente dalla Enabel, scegliendo di aggiungere il proprio contributo al territorio natìo. Potendo finalmente realizzare il sogno proibito, e spesse volte neanche menzionabile, che fosse la stessa gente d’Africa, ad affrontare le sfide necessarie a migliorare la locale qualità della vita…

Questa tipologia di opere può essere anche costruita a secco, sfruttando il semplice incastro gravitazionale di materiali attentamente selezionati. Per le opere destinate all’attraversamento veicolare, tuttavia, la Enabel consiglia l’utilizzo di una certa quantità di cemento, per assicurare l’aderenza delle pietre generalmente ottenute dai materiali di scarto di una cava o miniera locale.

Il che da un punto di vista meramente incentrato sull’analisi della storia, ha in realtà parecchio senso. Soprattutto se si guarda verso i reperti archeologici di un’epoca poco documentata ed ancor più raramente inserita nelle trattazioni a beneficio dell’odierna cultura globalizzata. Vedi per esempio il sito di Butara, nei dintorni dell’omonimo villaggio nella regione nigeriana di Bokkos, ove sorge una struttura datata in via preliminare e con l’aiuto dell’UNESCO a circa due secoli prima dell’Era corrente. Nient’altro che un ponte sopraelevato, del tutto affine a quello di un acquedotto romano, se non fosse per la maniera in cui il viadotto costituito da grosse pietre oblunghe poggia direttamente su una serie di colonne verticali, nell’assenza di qualsivoglia metodologia per scaricare fisicamente il peso verso siffatti pilastri. Ovviamente, tale antichissima tecnologia non era mai stata insegnata ai suoi ignoti costruttori. Riesce facile finire per interrogarsi in merito alla maniera, dunque, in cui qualcosa di tanto rudimentale possa aver attraversato indenne le generazioni in un paese in cui qualsiasi infrastruttura “moderna” tende a deperire nel giro di qualche decina danni, nell’assenza di continue e significative opere di mantenimento. Il che ci porta nuovamente all’ingegno e l’effettiva logica vincente dell’approccio della Enabel. Perché far costruire opere direttamente ai nativi non significa soltanto armarli dell’indipendenza fortemente necessaria all’emancipazione di un’identità nazionale, ma anche procurare localmente i materiali, in base ad un criterio che contrasta implicitamente le problematiche ambientali di questi luoghi. Vedi l’annuale ricorrenza della stagione delle piogge monsoniche, capace di coprire d’acqua e progressivamente corrodere sovrastrutture costruite in base ai crismi europei, laddove un semplice mucchio di pietre, incastrate in questo o altri modi utili a costituire il ponte, può inerentemente resistere molto più lungo nella feroce battaglia contro la natura. Così come la terra usata per la superficie spesso carrabile, di un tipo rossiccio definito convenzionalmente murrum, ricco di ossidi ferrosi e composti salini, che gli concedono una capacità di costituire un tutt’uno compatto e notoriamente impervio alla pressione degli elementi. Aggiungete a ciò anche il vantaggio, certamente più prosaico ma di pari o superiore importanza, che i ponti realizzati con la pietra non suscitano l’interesse immediato d’eventuali saccheggiatori, in cerca di metallo da vendere abusivamente per il riciclaggio, garantendo un’immediato guadagno di ottimi presupposti per la continuativa esistenza di siffatti e imprescindibili strumenti alla viabilità collettiva. Ed infine, questione niente affatto trascurabile, il coinvolgimento diretto e autogestito degli utenti nella costruzione comunitaria del ponte contribuisce a qualificarlo ai loro occhi con il valore che effettivamente possiede, fornendo motivazione utile a garantirne un più attento mantenimento in condizioni d’efficienza per gli anni a venire. Forse la più utile, ed insostituibile, tra tutte le diverse implicazioni del meccanismo.

Il ponte ad arco di pietra fu il metodo di attraversamento preferito da numerose civiltà pre-moderne. Per la sua concezione semplice ma funzionale, oltre alla modularità estensibile fino a qualsiasi lunghezza necessaria nelle differenti casistiche d’impiego.

Dati alla mano, è difficile sopravvalutare dunque la portata dei benefici garantiti dal progetto tanzaniano della Enabel, che potrebbe presto trovare valide opportunità di replica in altri paesi del contesto africano. È stato dimostrato infatti come un ponte ad arco di pietra costruito secondo i metodi delineati dagli insegnanti, ed all’interno del manuale tradotto anche in Swahili dall’associazione possa essere ultimato con una spesa complessiva del 15-20% rispetto a quella di un’opera dalle dimensioni simili creata con metodi più moderni. Che sono d’altronde i preferiti al giorno d’oggi, è importante ricordarlo, proprio perché nei paesi cosiddetti “occidentali” i materiali e strumenti tecnologici costano meno della manodopera, laddove la situazione corrente in Africa si trova diametralmente all’opposto. E va anche considerata la maniera in cui le opere in cemento di questi territori vengano spesso realizzate in condizioni e tramite risorse non del tutto sufficienti, condizionando ulteriormente la loro capacità di attraversare indenni più di qualche misera stagione d’impiego. Ed infine, il problema più grande di tutti: la mancanza di organizzazione ed amministrazione puntuale da parte di una struttura governativa realmente efficace. Vedi il caso, per spostarci più settentrione, delle ingenti inondazioni dello scorso novembre nei dintorni della città ugandese di Mbale, capaci di costare la vita a 29 persone, e l’integrità a 1.500 dimore oltre a una dozzina d’importanti attraversamenti fluviali. Ponti spazzati via e tutt’ora mancanti di un risolutivo piano di restauro, tanto da aver costretto le popolazioni rurali della zona a sostituirli con opere provvisorie in legno realizzate al meglio delle proprie possibilità e conoscenze. La cui effettiva sicurezza d’impiego resta ahimé opinabile, così come le prospettive di poter resistere alla prossima stagione dei monsoni. Il che identifica, senza particolari dubbi residui, dove potrebbero concentrarsi i prossimi sforzi dell’associazione o altri enti simili entro l’anno 2023, per continuare questo ritorno alle origini della storia dell’ingegneria umana. Perché non sempre i metodi più innovativi sono adattabili a qualsiasi contesto immaginabile di questa Terra. Ed è opportuno voltarsi occasionalmente in direzione opposta al senso di marcia, cercando metodi ed approcci dal collaudo molto più che millenario.

Lascia un commento