L’eccessiva forza che deriva dall’unione dei chiassosi succiamiele australiani

C’è un esercito nel mio giardino. Un’armata cinguettante che non ha le mani e che per questo, non potendo stringere i fucili ed altre armi delle quotidiane circostanze militarizzate, può contare solamente sulla disciplina per imporre il proprio ferreo senso del controllo sulla collettività affamata. Di coloro che planando grazie all’uso delle proprie ali, per decine d’anni e molto più in maniera trasversale, questo luogo avevano provato a visitare. Ritornando sempre ai propri nidi con la pancia piena e un certo senso di soddisfazione: si, l’uomo potrà anche distruggere foreste e placidi cespugli dove andare in cerca di provviste. Ma immancabilmente tende a rimpiazzare, tutto questo, con giardini placidi e ordinati ricchi di piante da fiore. Entro cui l’ambrosia nettarina è custodita, nell’attesa di operosi becchi alla ricerca pressoché costante di soddisfazione. Forse… Un tempo. Ma ora? Tutto ciò che sento penetrare oltre gli infissi della mia finestra e qualche volta scruto, ai margini del campo visivo mentre guardo la Tv in salotto, è un marasma intollerante di crudeli “proprietari”. Pronti ad inculcare, in ogni modo inclusa la violenza, l’imprescindibile concetto aviario del territorio. Così piccoli ma numerosi, timidi passeriformi che salutano le prime luci che riscaldano le loro ali grigie, al suono cristallino che da sempre anticipa la primavera. Simili a dei merli, con una lunghezza di 24-28 cm ed un peso di 80 grammi al massimo, e cerchiature giallo canarino attorno e dietro ai loro occhi sopra il campo della testa tendente al nero, al punto che ricordano notoriamente l’aspetto del myna comune o “indiano” parlante, ormai da tempo trapiantato nel continente dei canguri, provocando i consueti problemi dovuti al diffondersi di una specie tutt’altro che nativa. Sempre inferiori di numero d’altra parte, a quelli causati dalla proliferazione prevedibile ma non propriamente controllabile del Manorina melanocephala, quello che i locali definiscono cobaygin, e i discendenti dei coloni non nativi di Botany Bay, noisy miner: il “minatore rumoroso”. Per la sua appartenenza alla famiglia dei Meliphagidae o succhiatori di nettare mielino, benché il corso dell’evoluzione e una naturale capacità d’adattamento l’abbiano abituato attraverso gli anni a nutrirsi anche di frutta, insetti, piccoli mammiferi, lucertole… Praticamente ogni cosa sufficientemente piccola o inerte che abbia la sfortuna di finire dentro il suo territorio di caccia, estremamente chiaro e definito nella mente puntigliosa di questi uccelli. Cui sarebbe insolito scegliere di riferirsi usando il singolare, vista la maniera in cui soltanto molto raramente un esemplare tende a rimanere solo, a ancora scelga d’isolarsi assieme alla compagna e il resto della sua cosiddetta famiglia nucleare. Perché l’esperienza insegna, ed ancor meglio riesce a farlo nel caso dei qui presenti bastonatori d’incolpevoli viandanti più o meno pennuti, che un contegno comunitario regolamentato da precise regole disciplinari può permettere a una collettività indivisa di regnare sopra i propri simili ed oppositori. Con quella fermezza da cui deriva il cosiddetto pugno di ferro, anche di un tipo meramente figurativo, vibrato collettivamente dai circa 40 membri di una tipica colonia in cui ciascuno ha il proprio ruolo. Ma ogni possibile mansione tende a decadere, nel momento in cui sussiste la necessità di collaborazioni improvvisate nell’arte di ciò che riesce a meglio a questa specie: farsi rispettare…

La stretta convivenza con i membri della propria stessa specie è assolutamente accettabile per i noisy miner. Mentre diametralmente opposta risulta essere la reazione del “branco” ogni qual volta si avvicini ad esso un qualsivoglia tipo di creatura diversa.

L’esperimento è stato condotto a settembre dello scorso anno da Jade Fountain e Paul G. McDonald dell’Università del New England, Armidale, raggiungendo una serie di risultati che potremmo definire niente meno che impressionanti. Soprattutto quando si considera il metodo sperimentale adottato, consistente nel mero posizionamento sopra un ramo di un esemplare impagliato di tre tipologie di pennuti “invasori”: diretto concorrente gastronomico (piccolo pappagallo, passero) specie neutra convivente (rosella orientale) e potenziale predatore (falco, currawong) ogni volta accompagnati da un altoparlante capace d’emettere gli effettivi versi di ciascuna specie. In modo tale da attirare l’attenzione dei succiamiele scatenando immancabilmente lo stesso tipo d’impressionante, formidabile reazione. Questo perché definire il nosy miner come “semplicemente” ostile verso chi emette cinguettii fuori dal coro è un sostanziale eufemismo, nella maniera facilmente desumibile dopo averlo osservato almeno una volta all’opera. Quando la vedetta dello stormo emette il complesso richiamo che indica pericolo proveniente da terra o dal cielo, stimolando i propri simili a riunirsi in una singola massa vociante e carica di furia oltraggiata. Che rapidamente cala sul nemico beccandolo da ogni lato, spingendolo da parte ed in ultima analisi, facendo il possibile per allontanarlo dalla fin troppo poco spaziosa congrega dei viventi, continuando a seguirlo anche successivamente alla comprensibile ritirata. Tanto che non per niente insolito, a seguito di un attacco collettivo, che la vittima di turno finisca per perdere la vita con il collo e le ali spezzate, anche se si tratta di un uccello molto più grande e forte di un singolo cobaygin. Al che sarebbe lecito interrogarsi sulla maniera in cui, esattamente, molti millenni d’evoluzione possano aver prodotto una creatura sostanzialmente incompatibile con il concetto primario di convivenza, implacabile nemica di ogni forma di vita incline a condividere gli stessi ambienti d’australiana volatile appartenenza. Il che ci porta direttamente alla seconda parte dello studio dei colleghi di Armidale, che analizza la maniera in cui il livello di aggressività degli uccelli in questione risulti essere esponenzialmente superiore all’interno di una specifica tipologia d’ambiente: il parco o giardino metropolitano (ed in misura minore, zone in cui è possibile rubare provviste dai tavoli di un bar o ristorante) ove l’abbondanza di fonti di cibo non prescinde l’assoluto desiderio di trarne un esclusivo beneficio da parte dell’armata svolazzante, con in più il valore aggiunto di un maggior livello di risorse e conseguente energie da spendere nel perpetrare il proprio implacabile regno del terrore.
Ecco, in altri termini, il caso di un volatile che dovrebbe essere perfettamente integrato nel suo ambiente di appartenenza, ma non riesce più ad esserlo a causa delle alterazioni operate dalla società contemporanea, diventando in senso pratico il portatore di un lento e inesorabile tipo di annientamento della biodiversità di partenza. Questo perché il noisy miner, per sua implicita natura, è anche in grado di trarre il massimo beneficio da simili ambienti dotati di pochi alberi e nessun tipo di sottobosco entro cui ripararsi, allargando il proprio anello di sorveglianza e riducendo al minimo ogni presupposto di predazione delle proprie uova. Deposte in numero di due-quattro a stagione, rigorosamente sorvegliate dai genitori e i loro numerosi “aiutanti” all’interno di una singola coterie (sotto-gruppo della colonia) che spesso includono parenti prossimi come zii, fratellastri o cugini. Tutti egualmente inclini a preservare il predominio del clan, indipendentemente dalla quantità di sangue che dovranno versare…

In condizioni normali due di questi uccelli non potrebbero intimidire la gazza, molto più forte e non meno agguerrita nella salvaguardia dei propri diritti. Ma persino lei li scruta con preoccupazione mentre mangia e si affretta a consumare i semi, ben conoscendo la probabilità dei rivali nel ricevere prima o poi i rinforzi, costringendola a una frettolosa ritirata.

Non è perciò del tutto erroneo affermare che questa particolare specie di succiamiele, molto più diffusa dei suoi tre simili all’interno del genere Manorina, costituisca oggi un problema che diversi enti ecologici hanno tentato, in maniera più o meno ufficiale, di risolvere con varie metodologie marcatamente operative. Prima in ordine di tempo la cattura e spostamento delle colonie, rivelatosi tuttavia piuttosto inutile data la capacità dei noisy miner di spostarsi collettivamente quando lo ritengono necessario, in misura di 20 Km ed oltre, colonizzando rapidamente anche zone che non erano state pensate per riuscire a contenerli. E questo senza neanche entrar nel merito della maniera in cui colonie vicine tendono ad aumentare istintivamente la propria produzione di prole quando percepiscono il crearsi di uno spazio vuoto, ampliando presto il proprio raggio d’influenza e riportando molto presto il proprio vicinato all’indesiderabile condizione di partenza. Tristemente nota e preoccupante per tutti coloro che gli vivono da presso, vista non soltanto l’eliminazione sistematica di ogni altra specie aviaria, ma anche la tendenza, soprattutto nei mesi della primavera australe che sta cominciando in questi giorni, a tuffarsi dall’alto ed attaccare le persone percepite come eccessivamente prossime ai loro nidi. Un’esperienza potenzialmente dolorosa ma a cui gli esperti consigliano di reagire semplicemente coprendosi la testa e continuando a camminare. Laddove ogni gesto inconsulto potrà solamente contribuire all’istituzione di un’ancor più ferrea ed intollerante legge marziale tra i pennuti maggiormente problematici e rabbiosi. Soltanto nell’ultima decade si è quindi giunti all’implementazione di quella che potremmo definire come l’unica soluzione rimasta: l’eliminazione sistematica ed attentamente regolamentata delle comunità ormai diventate troppo numerose dei succiamiele rumorosi. Episodi a seguito dei quali si è notata scientificamente (vedi S. J. S. Debus – 2008) un’immediata ripresa delle altre specie native ed il ritorno ad un relativo stato di pace e tranquillità situazionale. Una scelta senz’altro difficile, ma talvolta necessaria. Perché l’infinita tolleranza può essere un paradosso irraggiungibile ed altrettanto spesso controproducente. Anche quando ci si trova a ponderare lo stile di vita degli animali che dovrebbero, idealmente e stereotipicamente, essere “migliori delle persone”.

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