Come il volo dei dinosauri sopravvive, nell’antica strategia di fuga del chukar

Superbe, gigantesche, ponderose creature, alte almeno quanto un pachiderma e non più agili di lui; questo continua ad essere, con l’aiuto d’innumerevoli illustrazioni e narrazioni popolari, l’interpretazione universalmente data per buona di quelle robuste presenze che un tempo dominavano la Terra. Il che potrà anche essere formalmente corretto, in una lunga serie di casi lungamente vissuti e svaniti attraverso un periodo di quasi 200 milioni di anni, ma non arriva neanche lontanamente a incorporare l’intera vasta portata della questione. Dove per ogni membro ed esponente della cosiddetta megafauna, ciascun incubo di denti, grossi muscoli e una coda irta d’aculei devastanti, uno svelto e scaltro corridore, dai sensi acuti ed affilati dal bisogno, percorreva le distese in cerca di un rifugio valido a poter sopravvivere un altro giorno. Tutti quegli erbivori e non solo, la cui dimensione oltre che l’aspetto poteva essere ricondotto vagamente agli odierni uccelli con la loro andatura dondolante, come gli oviraptosauridi e terizinosauri. Tacchini da guerra se vogliamo, ma del tutto privi di un aspetto che dovremmo definire assolutamente primario nella descrizione di quel pennuto: la presenza di un pur sempre pratico, sebbene poco utilizzabile paio d’ali. Così attraverso il trascorrere degli eoni, i loro discendenti come il deinoico, l’achillobator e ovviamente, il velociraptor, avrebbero iniziato a guadagnare un qualcosa di essenzialmente riconducibile ad un folto manto di piume. Ma nessuno aveva mai capito, essenzialmente, in quale maniera avessero imparato il segreto del volo, ovvero quale tipo di pressione evolutiva potesse indurre a sollevarsi da terra, dimenticando ogni potere residuo posseduto dal principio universale della gravità. Almeno finché al biologo Kenneth P. Dial dell’università del Montana non venne in mente d’osservare più da vicino, ed in maniera estremamente approfondita, l’essere più simile che ancora abbiamo a dimostrare chiara discendenza da una simile ed antica genìa: la graziosa e amata coturnice orientale, ovvero quella che viene chiamata su scala internazionale con il nome scientificamente onomatopeico di Alectoris chukar. Stiamo qui parlando di un fasianide originario della zona Paleartica con vasta diffusione in India e Pakistan, Iran, Turchia e parte dell’Est Europa, ma favorito dai cacciatori di mezzo mondo, per la sua facilità ad adattarsi ai climi non nativi ed un’innata fiducia nei confronti degli umani. Completamente all’opposto rispetto al comportamento schivo e riservato della nostrana Alectoris graeca, del resto esteriormente distinguibile soltanto per la presenza di un ulteriore piccolo trattino nero a concludere la linea che circonda gli occhi, il becco e il collo di entrambi. Eppure dotato fin dal momento della nascita, cionondimeno, di un potente meccanismo di sopravvivenza che potremmo ricondurre alla più chiara ed assoluta origine del volo. Identificato da un acronimo moderno che pare quasi derivare dal regno tecnologico dell’aeronautica umana: sto parlando del WAIR, o Wing-assisted incline running, locuzione che potremmo tradurre come “Corsa in salita con l’assistenza delle ali”. Questo erbivoro e spazzino opportunista di semi, frutta caduta ed altre fonti di cibo esclusivamente vegetali (sebbene non disdegni di andare in cerca di spazzatura negli ambienti urbani) appartiene in fatti a quel particolare gruppo di volatili che, pur essendo capaci di spiccare il volo mediante l’uso delle proprie corte e tondeggianti ali, preferisce mettersi in salvo da potenziali situazioni di pericolo semplicemente sfruttando le sue zampe rosse e potenti, correndo via veloce del sottobosco. E se possibile, lungo la superficie quasi verticale dei tronchi. Capite di cosa sto parlando? Qui siamo di fronte a una creatura il cui estinto, soprattutto quando recentemente fuoriuscita dall’uovo e il nido dei suoi genitori, generalmente costruito come un buco nel terreno nascosto tra felci o cespugli, possiede un istinto innato ad arrampicarsi, nonostante l’assenza di appositi artigli, arti prensili o altri ausili concessi dall’evoluzione. Ma un qualcosa, se vogliamo, di ancor più efficiente a tale scopo: la capacità di far muovere lo strumento aerodinamico delle sue ali. Prima ancora di annullare completamente la spinta verso il basso posseduta da qualsiasi entità materiale, ma riducendola abbastanza da poter correre in maniera quasi verticale. Un po’ come fatto da Neo di Matrix, in uno dei film più rappresentativi del passaggio di secolo tra gli anni ’90 e il 2000…

La chukar, così come la sua controparte dell’Europa Occidentale, presenta una riconoscibile linea nera su bianco che parte dagli occhi e le circonda il collo, mentre le ali sono striate con probabile finalità di mimetismo. Entrambe si distinguono dalla pernice per la tonalità rossastra di quest’ultima, oltre a un habitat più remoto verso gli alti picchi montani.

Prima della ricerca di Dial pubblicata nel 2003 sulla rivista Science con il titolo Wing-Assisted Incline Running and the Evolution of Flight, esistevano in effetti due principali teorie su quale potesse essere stata l’origine del volo nei dinosauri teropodi. La prima, che li immaginava agitare istintivamente su e giù gli arti anteriori una volta imparato a correre in posizione parzialmente eretta, nel tentativo di mantenere il più possibile l’equilibrio; e che una tale prassi, reiterata e condotta fino alle sue estreme conseguenze per molte centinaia di secoli, possa averli portati a guadagnare l’abilità di cavalcare efficientemente l’energia del vento. Mentre la seconda, oggettivamente più probabile, immaginava creature antesignane dell’archeopteryx in dubbio su come procedere, una volta raggiunta la cima degli alberi grazie all’impiego dei propri artigli, finché non guadagnarono la conformazione fisica e strumenti necessari a planare senza conseguenze fino al solido e accogliente suolo della Preistoria. E se invece, si sarebbe chiesto lo scienziato, una simile pressione avesse influenzato il corso della storia evolutiva nella sua fase ascendente? Ovvero quando il piccolo dinosauro, per sfuggire all’ora della sua fine, avrebbe iniziato a correre nel luogo elevato più universalmente disponibile fin dalla prima comparsa in larga scala dell’ossigeno su questo pianeta. Sto parlando, chiaramente, del tronco degli alberi variabilmente inclinato, ma quasi mai del tutto verticale, come un lampione o palo della luce posto in essere da mani umane. Ovvero in altri termini, capace d’agire come una rampa verso la salvezza, a patto di riuscire a percorrerlo con tutta la rapidità di una vera e propria scala a pioli.
La ragione per cui l’animale analizzato con maggior soddisfazione nelle ricerche sull’aspetto odierno dell’antica pratica del WAIR sia stata proprio la coturnice, nella sua accezione asiatica e più facilmente soggetta agli stringenti crismi comportamentali dell’addomesticazione, può essere rintracciata nella sua inclinazione particolarmente innata a tale tecnica di sopravvivenza, tale da venire praticata già dai suoi pulcini appena venuti al mondo, del resto in grado di salvare se stessi da situazioni di pericolo nel giro di appena due o tre settimane. Quando le loro ali, ancora ben lontane dall’essere del tutto sviluppate, non potrebbero certo garantirgli alcun tipo di accesso al regno di Icaro, pur consentendogli, grazie al peso ridotto, di arrampicarsi con successo anche sul più ripido e torreggiante tronco della foresta. Un passaggio niente meno che fondamentale al fine di raggiungere l’età riproduttiva di circa 10-12 mesi, quando i maschi inizieranno a sviluppare lo sperone dietro le zampe che costituisce l’unico tratto distintivo rispetto alle loro controparti di sesso femminile. Fino a una stagione degli amori consistente nell’emissione ripetuta del caratteristico richiamo chuk-chuk-chukar, cui fa seguito un breve rituale di “spilluzzicamento” in cui entrambi i potenziali partner iniziano a beccare tutto quello che riescono a trovare intorno, facendo a turno nel mimare l’opulenza di un immaginario banchetto. Al termine del quale sarà sempre lui, immancabilmente, a fare la prima mossa, aggredendo la consorte mentre afferra col becco le piume del suo collo, con modo di fare chiaramente irruento e dettato da un comportamento di tipo ancestrale. Le coppie chukar sono ad ogni modo in genere inclini a praticare la monogamia, con la consueta divisione dei compiti che vede lei covare le fino a 14 uova mentre lui perlustra attentamente l’area circostante il nido, mantenendo una serie d’invalicabili confini nel prezioso territorio familiare. Il che si trova forse all’origine della natura alquanto burrascosa di questi uccelli all’interno di allevamenti in cattività, dove risulta molto difficile mescolarli con altre creature aviarie, almeno senza andare incontro a frequenti risse e tafferugli di natura piuttosto cruenta. Il che non ha impedito, d’altra parte, all’uccello di diffondersi in numerosi territori non nativi successivamente alla sua importazione con finalità ornamentali, arrivando a minacciare l’habitat di svariati fasianidi del Nuovo Mondo, particolarmente nelle zone maggiormente montuose dello Utah. Sebbene non tutto venga sempre per nuocere, visto come nelle Hawaii questi stessi famelici pattugliatori del sottobosco abbiano occupato con successo la nicchia ecologica precedentemente appartenuta a specie native già estinte da tempo, ripristinando perciò anche l’importante funzione di propagazione dei semi di piante che necessitavano grandemente del loro aiuto. Una gentile concessione, da parte di un aiuto provenuto da molto lontano, sia in senso geografico che della lenta progressione temporale dell’Universo.

L’organizzazione sociale delle coturnici le vede riunirsi in gruppi di fino a 40-50 esemplari, capaci di avvisarsi a vicenda nel momento in cui dovesse avvicinarsi un predatore (naturalmente, ciò è del tutto controproducente nel caso di cacciatori umani). Le coppie in amore, tuttavia, diventano immediatamente territoriali.

Creature importanti per quanto distanti nell’incedere di tale lunga marcia, i dinosauri hanno rappresentato fin dall’inizio uno degli enigmi più duraturi sottoposti allo studio della biologia terrestre. Portando a innumerevoli capovolgimenti, se non veri e propri cambi di paradigma, nei propri approcci al quotidiano e la mai troppo semplice sopravvivenza. Forse per la comprensibile predisposizione, da parte dei paleontologi e ogni altro studioso dell’antico, di approcciarsi alla questione soprattutto per il tramite di quei preziosi e insostituibili reperti, le ossa, fossili ed impronte. Ma poiché una cosa morta resta, in ultima analisi, nient’altro che un pallido eco di ciò che è stato, estremamente validi risultano essere i sentieri verso la conoscenza basati sull’osservazione delle discendenze. In un mondo in cui nulla scompare senza lasciar traccia, ma tutto si evolve, scorrendo verso il nuovo stato di massima praticità e convenienza. La saggezza delle cinguettanti coturnici, in un mondo di creature che hanno abbandonato le proprie radici. Pur continuando a risalire il tronco del possente albero della Creazione, laddove l’alternativa non ha luogo ad essere, salvo intromissioni indesiderabili ed estremamente poco opportune.

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