La tronfia imponenza della rana che sognava di essere una tartaruga

È abbastanza ragionevole nella maggior parte dei casi, riuscire a riconoscere se non proprio l’animale, almeno l’area biologica di appartenenza di eventuali creature ritrovate durante gli scavi di preparazione di un cantiere, così come possiamo immaginare essersi aspettato di fare l’operaio cambogiano Lim Khyhong verso la fine dello scorso gennaio. Quando successivamente all’opera preparatoria della ruspa, si trovò al cospetto di qualcosa che molto difficilmente avrebbe potuto prevedere d’incontrare nel corso della sua tranquilla esistenza: tondo come un disco, grande come il suo palmo, gonfio come un palloncino, l’animale gracidante che sembrava avere la forma approssimativa di un rettile rimasto privo, per qualche bizzarra ragione, del guscio normalmente facente parte del suo bizzarro corpo. Completato da tozze zampe tridattili e uno sguardo… Uno sguardo che potremmo definire nettamente scocciato per essere stato preso in mano, in forza delle palpebre semi-abbassate, la bocca larga e rivolta all’ingiù ed il labro inferiore sporgente in avanti, quasi nell’accenno di una comica espressione imbronciata. Dando inizio a una legittima stagione del dubbio che avrebbe potuto estendersi anche per parecchi minuti ed ore, non fosse stato grazie allo spunto d’identificazione offerto all’improvviso dall’iniziativa canora del piccolo abitante, che dinnanzi al concentrato sguardo dei colleghi (come resistere a una tale distrazione?) scelse di mettersi soavemente a gracidare, con un suono che potremmo azzardarci a traslitterare come 呱呱, 呱呱 (guagua-guagua). Combinazione di fonemi ripetuti che chiunque, semplicemente chiunque risulta in genere capace d’identificare presso queste terre, dove si attribuisce senza esitazioni alla diffusa rana ungok o “del collo di bottiglia” come viene chiamata per la forma appuntita del suo muso, perfezionato dalla natura al fine di nutrirsi di formiche ed altri piccoli insetti che camminano nella profondità delle notti senza luna. Poiché nella maggior parte del tempo e fino alla stagione delle piogge e conseguenti accoppiamenti, l’animale in questione è solito vivere per l’appunto sotto terra, dove scava delle buche ben protette ove nascondersi e restare ben lontano da occhi indiscreti. Benché nel caso in cui una simile strategia dovesse rivelarsi inefficace, può fare ricorso anche a una diversa strategia d’autodifesa, che nelle fotografie diventate celebri all’inizio di quest’anno vendiamo attiva in tutta la sua spettacolare magnificenza: la rana, infatti, può riuscire ad aspirare copiose quantità d’aria e trattenere a lungo il fiato. Finché il suo intero corpo, piuttosto che i soli polmoni, si riempia di quella miscela di gas ossigenati valida a conferirgli VOLUME, ed in conseguenza di ciò, un’impressionante PRESENZA.
Ora, ciò è tutt’altro che raro nelle circostanze tipiche di questo territorio nazionale, soprattutto presso le regioni dell’entroterra dal clima relativamente più secco dove l’incontro soprattutto gastronomico con la specie chiamata scientificamente Glyphoglossus molossus risulta essere piuttosto frequente. Eppure c’era qualcosa, nell’ultima protagonista di una simile serie di memi o memes Internettiani, che sembrava renderla speciale nella sua diffusa e vagheggiante genia. Forse le proporzioni particolarmente “tonde” o magari il colorito grigiastro piuttosto che verde con occasionali macchie gialle, in questo caso nascosto da un sottile strato di terriccio che si era dimostrato in grado di aderire alla superficie porosa della sua pelle. Almeno finché una voce chiarificatrice, dagli abissi internazionali del vasto Web, non è sorta per fornire ottimi propositi d’identificazione…

La cattura delle rane ungok, praticata con trasporto in tutta l’Asia sud-orientale, costituisce l’unica via di accesso possibile verso un certo tipo di apprezzati banchetti stagionali. L’applicazione di un qualche tipo di regolamentazione, tuttavia, sta diventando progressivamente più necessaria.

Il post originale del Cambogiano Lim Khyhong ha acquisito vera popolarità in Occidente, solo successivamente al re-tweet effettuato dalla celebre erpetologa e studiosa di anuri Jodi Rowley dell’Università di James Cook in Australia, che oltre a fornire al pubblico in attesa l’identificazione esatta della specie originaria di Cambogia, Laos, Myanmar, Thailandia e Vietnam, si è applicata nel spiegare l’ineccepibile forma circolare dell’impressionante Pokémon, o come sembrerebbero aver preferito definirlo i giornali dell’area asiatica “creatura combattente” del confinante universo a cartoni animati di Battle Planet-Bakugan. Ovvero non resistere agli attacchi di alcun tipo di topo elettrico, fantasma o armadillo di pietra, bensì accumulare copiose quantità di umidità durante il periodo più arido dell’anno, per riuscire a sopravvivere fino all’ora in cui dovrà riemergere dalla sua buchetta. Nella speranza d’incontrare, successivamente all’emissione del suo ben udibile richiamo, una potenziale partner piuttosto che la mano umana pronta a chiudersi come una morsa, per immagazzinarla in pratici secchi di raccolta e da lì, direttamente nella pentola o sopra le fiamme assai poco invitanti di un barbecue. Particolarmente saporita ed apprezzata da tutte le classi sociali risulta essere, in effetti, la rana chiamata G. molossus per le sue dimensioni sensibilmente superiori a quelle di ogni altro appartenente locale alla vasta famiglia delle Microhylidae, uno dei più corposi, prolifici e variegati raggruppamenti di anuri al mondo. Poco studiata dal mondo scientifico, per la problematica tendenza a cessare ogni tipo d’attività e immobilizzarsi quando si sente minacciata, impedendo d’osservare le sue abitudini in natura, la ungok dalla testa smussata (come viene talvolta definita) è stata nonostante ciò fatta oggetto di un approfondito studio nel 2014 da Rondald Altig dell’Università del Mississipi e la stessa Jodi Rowley (The breeding behavior of Glyphoglossus molossus and the tadpoles of Glyphoglossus molossus and Calluella guttulata) capace di gettare finalmente luce su uno degli aspetti più importanti della sua biologia: quello riproduttivo. Così che all’interno di un racconto appassionante quasi come quello di un romanzo, i due descrivono l’avvicinamento crepuscolare presso un laghetto nella foresta decidua della riserva cambogiana di Phon Prich, sotto una pioggia battente. Che non gli avrebbe impedito d’identificare, comunque, una fiorente comunità di rane a palloncino in apparente attesa, destinate ad impegnarsi di lì a poco nel più sorprendente ed atipico rituale d’accoppiamento. Poiché il sentiero che porta queste notevoli creature alla canonica deposizione delle circa 200-300 uova, tutt’altro che insolite nella famiglia di appartenenza, fu scoperto in tale occasione passare per una sorta di elegante danza, con una serie di eleganti tuffi verticali in alternanza, finalizzati alla deposizione delle uova a mezza altezza nella colonna acquatica e conseguente fecondazione da parte del padre orgoglioso, prima che i due membri della coppia riuscissero a raggiungere un palese stato di soddisfazione. Soluzione riproduttiva, quest’ultima, facente a meno dell’amplesso che costituisce non soltanto un pericoloso attimo di vulnerabilità nei confronti dei predatori, ma potrebbe risultare logisticamente complesso data la forma tondeggiante di questi specifici, notevoli animali.

Roboante sul suo erboso trono, il re della foresta emette il familiare suono: “呱呱, 呱呱” GUAgua-i a chi entra nel suo territorio, se non può resistere al suo metodo intimidatorio.

Potrebbe anche sembrare, a questo punto, piuttosto strano che un animale giudicato tanto comune e consumato con tale trasporto a tavola possa trovarsi classificato come “quasi a rischio” dall’indice internazionale dello IUCN, una questione motivata per lo più dal declino lento, ma inesorabile della collettività osservabile negli ultimi 10 anni e collocato attorno al 30% della popolazione totale. Triste faccenda, che diventa assai più semplice da motivare nel momento in cui si osserva in prima persona la caccia (o per meglio dire raccolta, data la natura letargica e poco scattante di queste vittime in attesa) di tipo assai poco sostenibile operata dagli abitanti dell’intera ecoregione del sud-est asiatico continentale, che potremmo definire derivare anche dal più chiaro ed evidente bisogno di sfruttare ogni possibile fonte di nutrimento, piuttosto che una mera mancanza di coscienza animalista o implicita attenzione nei confronti della natura.
Fatto sta che scene come quella ripresa nel cantiere cambogiano a gennaio possono riuscire ad aumentare la percezione pubblica di un animale tanto insolito ed interessante. Oltre a suscitare l’entusiasmo spesso immotivato del multiforme popolo internazionale di Internet (dei netizen, come amano chiamarli in tutta l’Asia) che potrà anche non riuscire a smuovere montagne (digitali?) ma possiede in genere l’accesso per l’entrata a pieno titolo nel corpus cognitivo del senso comune. Potendo forse un giorno accrescere il tipo d’attenzioni riservate all’esistenza futura di questa gracidante genìa a forma di palloncino. Che risultava spesso troppo gonfia, oppure tronfia, per tentare di mettersi in salvo ritornando con un balzo tra i pacifici confini dello stagno immoto.

Voglio dire, chiunque potrebbe capire come la cattura di decine di migliaia di esemplari in età riproduttiva, proprio durante la stagione riproduttiva (senza avere nessun modo per capire se hanno già fecondato le uova) possa arrecare danni alla popolazione complessiva di una specie. Ma la storia degli animali c’insegna come talvolta, purtroppo, esistano per l’uomo differenti priorità.

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