Makoko, la Venezia derelitta delle coste d’Africa orientale

Un continente antico e al tempo stesso giovane. Ultima spiaggia dell’economia contemporanea ed anche, sotto svariati punti di vista, terra d’opportunità selvagge e inesplorate. Luogo di straordinarie meraviglie, sia dal punto dell’eredità culturale umana che per quanto concerne la natura. Ma al tempo stesso territorio in cui si aprono, dalla quieta superficie delle cognizioni largamente acquisiti, abissi occulti e senza nome, terribili presupposti di un nuovo livello di disattenzione, e per la collettiva sfortuna di chi possiede senso critico al di là dei suoi confini nazionali, tragico degrado. Ove il progresso dei diritti civili tende a giungere, talvolta, alla maniera di una freccia che attraversa i diversi strati della società, andando a colpire unicamente il suo bersaglio che gli era stato assegnato. Considerate, a tal proposito, quanto segue: la Nigeria è un paese di cui la società europea discute molto raramente, fatta eccezione per l’occasionale raccolta fondi messa in atto dalle associazioni senza scopi di lucro o dal Clero. Eppure proprio qui si trova, all’insaputa di molti, la quarta città per popolazione del mondo intero, maggiore d’Africa e la prima fuori dalla Cina. Sto parlando di Lagos coi suoi 16 milioni d’anime, agglomerato in grado di creare in autonomia un Prodotto Interno Lordo superiore a quello dell’intera nazione kenyota. E che perciò inizia ad essere dotato, come molti altri vasti centri della parte del mondo in via di sviluppo, di uno skyline non del tutto privo di grattacieli, espressioni significative del bisogno umano per l’appariscente verticalità. Ma poiché le contraddizioni, come dicevamo, sono parte d’Africa quanto i leoni e le giraffe, è proprio qui che ha luogo a esistere la più notevole tra le diverse antitesi possibili di un tale approccio alla questione abitativa. Qualcosa di tentacolare, spontaneo, incontrollabile e del tutto fuori dagli schemi.
In altri termini: Makoko, lo slum galleggiante (a.k.a. favela, oppure bassifondo) abitato da un numero variabile tra le 86.000 e le 300.000 persone (nessuno può dire realmente di saperlo) che sorge in mezzo alla laguna pesantemente inquinata della megalopoli, proprio ai lati del Third Mainland Bridge, ultimo ponte costruito in ordine di tempo per collegare la terra ferma all’isola di Lagos, centro economico e culturale, al pari di Manhattan negli Stati Uniti, di questa intera regione che si affaccia sull’Oceano Atlantico Meridionale. Benché sarebbe forse più corretto dire, a tal proposito, che è la città stessa ad essere sorta attorno a Makoko, dato il suo effettivo comporsi di sei villaggi di pescatori esistenti da oltre un secolo e abitati da appartenenti all’etnia locale Egun, dai nomi di Oko Agbon, Adogbo, Migbewhe, Yanshiwhe, Sogunro e Apollo, gradualmente inglobati, ed in seguito paradossalmente emarginati, dall’espandersi dei confini urbani dovuto all’aumento esponenziale della popolazione nel corso delle ultime trascorse. Il che ha creato questo luogo fuori dal mondo e dal tempo, in cui famiglie drammaticamente numerose vivono all’interno di edifici su palafitte o imbarcazioni auto-costruite, tentando di trovare quotidianamente il meglio in uno stile di vita che dal punto di vista oggettivo, ben pochi sarebbero pronti a definire Serenissimo…

Dimensioni e confini che sfuggono all’immediata comprensione, quando si considera come l’intera popolazione stimata di quella che è stata più volte chiamata in precedenza “la Venezia Nera” (antonomasia senz’altro ironica) sia potenzialmente addirittura superiore (di oltre 50.000 effettivi) a quella della celebre Repubblica dell’Adriatico settentrionale.

Cionondimeno, senza acqua corrente, senza luce, gas o altri servizi Makoko è… Ovvero esiste, ed è questa la realtà con cui sarebbe necessario venire a patti sotto i più rilevanti punti di vista. Oggi un territorio largamente inesplorato e misterioso ove persino la polizia e le autorità mancano d’inoltrarsi, che si estende lungo una porzione significativa della costa pesantemente urbanizzata, permettendo a intere fasce economicamente deboli del vasto agglomerato di sopravvivere ai suoi margini, contribuendo in modo significativo alla sua immagine e inficiando il grado di benessere percepito dalla collettività. Per non parlare delle attività industriali ed edilizie, dato il contributo lavorativo offerto da molti dei suoi abitanti ai cantieri che ogni giorno sorgono nell’entroterra, sia in termini di personale che per quanto concerne la materia prima, in considerazione dell’impegno costante dei suoi abitanti nel recupero di sabbia dai fondali, un compito particolarmente faticoso ed ecologicamente insostenibile ad oltranza. Una delle ragioni per cui, forse, a luglio del 2012 fu deciso (da qualcuno, almeno) che la città ne aveva avuto abbastanza, spedendo oltre la linea degli ultimi pali della luce una gremita squadra di demolitori con seghe elettriche, machete ed altri efficacissimi implementi, con lo scopo di “demolire le abitazioni abusive” a completo discapito di chi, suo malgrado, non aveva nessun altro spazio vitale. Una di quelle soluzioni che dal punto di vista superficiale tendono ad apparire stranamente soddisfacenti, per lo meno in modo transitorio, benché nel caso specifico venne commesso un significativo errore: la mancanza di un preavviso adeguato, il che portò allo sgombero forzoso di un’elevata quantità di famiglie. Con conseguente ferimento e morte accidentale di almeno un individuo stando ai resoconti frammentari, evento a seguito del quale gli incaricati governativi scelsero di propria iniziativa (e con probabile istinto d’autoconservazione) di auto-sollevarsi dall’incarico. Una strada mai più percorsa, almeno fino ad ora, benché continui a pendere come una spada sulla testa degli Egun.
Ma l’eternamente mutevole Makoko costituisce anche e soprattutto, dal punto di vista di alcuni, una terribile vergogna, così ben visibile mentre fluttua sulla laguna maleodorante ai lati del singolo ponte più percorso d’Africa, verso le torri d’avorio, vetro e acciaio dei detentori della sua ricchezza maggiormente significativa. Molti tentativi, quindi, sono stati fatti per screditarla: che potesse essere un focolaio per la malattie trasmissibili come il colera, condizione i cui malati avrebbero ben presto riempito gli ospedali. Benché in effetti, all’interno della baraccopoli non ne sussista formalmente alcuno, dopo la misteriosa sparizione di quello galleggiante costruito anni fa da Medici Senza Frontiere, a cui comunque gli abitanti locali preferirono sempre l’utilizzo di cliniche basate sulla propria medicina tradizionale. Oppure venne affermato che dovesse trattarsi necessariamente di un covo di criminalità e popolazione malfamata, quando una rapida ricerca online dimostra come Makoko possa dimostrarsi almeno abbastanza sicura, allo stato attuale delle cose, per l’organizzazione di regolari tour “turistici” dal costo variabile tra i 70 e i 100 euro, finalizzati a far conoscere all’uomo (possibilmente) bianco un luogo tanto inconcepibile ed alieno. Mentre le interviste e i reportage più approfonditi parlano di un luogo dalle molte industrie e imprese autogestite, dove i numerosi appartenenti a nuclei familiari composti da almeno cinque o sei figli per ciascuna generazione fanno il possibile per acquisire un ruolo nella grande macchina civile, inventando lavori o partecipando alla sempre difficile mansione educativa.

La scuola galleggiante era dotata di 256 barili di plastica come galleggianti, risultando per questo capace di ospitare fino a 100 alunni allo stesso tempo sui suoi multipli livelli abitativi.

Un esempio dell’ottimismo tristemente immotivato che permane, nonostante tutto, a Makoko può essere rintracciato nell’episodio emblematico della scuola galleggiante. Idea messa in pratica verso la fine del 2012 proprio dopo il drammatico tentativo di sgombero, grazie a un’iniziativa dell’architetto locale Kunle Adeyemi e con fondi raccolti su scala internazionale, per la costruzione di un edificio di studio che potesse sopravvivere alle frequenti mareggiate e pesanti piogge della regione, essendo privo di palafitte ma dotato di un pavimento capace di galleggiare al di sopra delle forti onde dell’Oceano antistante.
Costruzione esteticamente appagante con il suo tetto a cuneo degno di una baita svizzera e capace, persino oggi, di monopolizzare in buona parte i risultati ottenibili su Google in materia del suo contesto situazionale, l’intera baraccopoli di Makoko. Ma proprio in funzione di tutto ciò, prevedibilmente attaccata con spietatezza dalle fasce dei soliti guardiani dello status quo. “Insicura” oppure “instabile” venne chiamata, mentre la mancanza dei permessi pubblici minacciava di condurre alla sua demolizione preventiva, ancor prima che potesse diventare necessaria e irrinunciabile per la popolazione locale. Una storia che appariva destinata a finire molto male già soltanto per l’effetto deleterio delle gesta umane, se non che a giugno del 2016 la faccenda avrebbe finito, alquanto inaspettatamente, per risolversi da se: quando l’abbattersi di una tempesta meteorologica significativa avrebbe finito per abbatterla fino al suo livello più basso, fortunatamente mentre nessuno si trovava al suo interno. Distruggendo, assieme ad essa, l’ipotesi di costruirne delle altre in futuro.
Perennemente soggetta all’inclemenza degli elementi e i preconcetti dati per scontati, la tentacolare città galleggiante continua a evolversi e mutare. Niente di quanto la compone viene mai completamente buttato via, mentre ogni materiale trova un qualche tipo di reimpiego, grazie a un collettivo ed inerente bisogno di mutare! Ma che dire di tutte quelle sovrastrutture, meno che spontanee le quali, per una ragione o per l’altra, non sembrano appartenere a un tale modo di affrontar la vita…

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