“Se davvero l’atmosfera della Terra si sta riscaldando…” Dice l’uomo a Washington, sulla comoda poltrona che controlla il mondo, “Allora perché gli ultimi inverni sono stati tra i più freddi e lunghi della storia?” Oltre i picchi delle montagne costiere, al di là di un mare profondo e sulle coste di una landa remota, il suo stesso tono querulo viene impiegato da gente con tutt’altro tipo di problemi. “Se questa città veramente sta per scomparire, sommersa nelle acque del sottosuolo, allora perché i miei rubinetti restano ancora del tutto a secco?” Uomo di Jakarta, ottimista per definizione e (indubbia) sfortuna situazionale. Una delle città più tentacolari e sovraffollate del pianeta, con i suoi 10 milioni di abitanti metropolitani, oltre a ulteriori 20 nell’area immediatamente circostante della più importante isola d’Indonesia, tutti protesi a fare ciò che fa normalmente, l’uomo: consumare. Una risorsa sopra tutte le altre e quella risorsa, come apparirà evidente a questo punto della narrazione, è il fluido essenziale che ci da la vita, nella fattispecie quello estratto e portato entro le mura domestiche tramite metodologie per lo più private. Già perché in questi luoghi, vige una regola tipica di certi paesi in rapidissima via di sviluppo: lo vedi, ti serve, lo prendi. Esattamente come a Città del Messico, luogo affetto da una situazione simile benché a uno stadio molto meno avanzato, per cui le diverse comunità locali, in assenza di un allaccio affidabile alla rete urbana gestita dal governo, trivellano autonomamente in profondità, trovando una risposta artesiana (o almeno, così si spera) alla costante ricerca di fonti d’idratazione necessarie per continuare a condurre un’esistenza priva di stenti. Il che ha portato alla nascita di una sorta di graduatoria degli status sociali, secondo cui più è profondo e produttivo il tuo pozzo, maggiormente risulti degno di essere iscritto nell’albo dei “benestanti” o “facoltosi” abitanti della collettività. Ma come tutti noi sappiamo fin troppo bene, un palloncino sgonfiato alla fine inevitabilmente si affloscia soprattutto se sostiene un peso, e ciò risulta altrettanto vero quando si sta parlando di un gavettone non-più-ricolmo, sia che abbia il diametro di qualche decina di centimetri, che i circa 600 Km quadrati coperti dalle fondamenta di alcuni dei più svettanti (e ponderosi) grattacieli dell’intera area asiatica meridionale. Ecco, dunque, l’orribile verità: Jakarta sta affondando, ormai almeno da un paio di decadi, all’allarmante velocità di 7,5-14 centimetri l’anno, tanto che alcuni luoghi si trovano oggi circa 4 metri più in basso di com’erano al principio degli anni ’70. Il che non è propriamente o niente affatto l’ideale, quando si considera la vicinanza dell’Oceano, in costante crescita per il progressivo sciogliersi delle calotte artiche, nonché le frequenti e rovinose alluvioni che tendono a colpire a queste latitudini. Ed avrebbe molto probabilmente già segnato la fine di una tale metropoli, con conseguente spostamento della capitale altrove, come già teorizzato a più riprese sin dall’istituzione del governo democratico nazionale nel 1945, se non fosse per i pesanti interessi economici ed i copiosi investimenti compiuti per salvarla. Tra cui il più ingente, nonché significativo, resta ad oggi lo stanziamento di fondi per il progetto a lungo termine dello NCICD (National Capital Integrated Coastal Development) anche detto Tanggul Laut Raksasa Jakarta o “Muro gigante di Jakarta”. Le cui ali composte da isole artificiali, un po’ come le strabilianti ed inutili isole-palma di Dubai, dovranno innalzarsi a proteggere l’entroterra dalla ferocia ondeggiante del vasto oceano. Se soltanto le società appaltatrici, nonché i politici committenti, riusciranno finalmente a trovarsi d’accordo sui metodi e i tecnicismi collaterali…
L’ispirazione proviene dichiaratamente dal sacro Garuda, l’enorme volatile impiegato secondo la tradizione dal dio indù Vishnu in battaglia, capace di oscurare il Sole con l’inusitata vastità delle proprie piume. Costituendo anche, inerentemente, un importante simbolo nazionale dato il suo posto di primo piano nell’emblema di questo paese. La cui forma vista dall’alto, almeno in teoria, dovrebbe adattarsi perfettamente alle precise esigenze paesaggistiche del progetto, teorizzato per la prima volta in forma embrionale negli anni ’90 ed il cui completamento risulta oggi previsto entro il 2025. Sperando che sia un tempo abbastanza breve, prima che interi quartieri vengano trascinati via dalla furia delle onde, facilmente capaci oramai di varcare le mura raccogliticce, nonché largamente inefficaci, poste in essere dall’amministrazione cittadina in assenza di valide alternative capaci d’accrescere i propri propositi di sopravvivenza. Il muro-uccello dovrebbe avere, secondo i progetti ed i rendering pubblicati fino ad ora, una misura finale di 32 Km di lunghezza, disseminati di spazi adatti ad ospitare marine, porticcioli, club del libro ed ulteriori irrinunciabili grattacieli, svettanti palazzi capaci di ergersi a partire dal centro, come vertebre del volatile spropositato in un totale di 4.000 ettari di terra reclamata. Il tutto mentre i fondi residui (se mai ci saranno) saranno progressivamente stanziati per migliorare ed ampliare le dighe disgiunte attualmente poste in essere, nella remota speranza che allontanare il mare possa prolungare il tempo residuo a disposizione verso l’infinito.
Ma questo, come dato ad intendere in apertura, non farà sostanzialmente nulla per contrastare il problema alla radice, sia fisica che metaforica, dell’intera questione: il veemente svuotamento delle falde acquifere sottoposte a depurazione ed impiego costante, con conseguente abbassamento del livello del suolo cittadino. Una casistica, tra l’altro, già vissuta da svariate città nel mondo come la già citata capitale messicana ed anche la Tokyo di mezzo secolo fa, dove tuttavia un’applicazione di norme severe per contrastare la trapanazione autogestita, in aggiunta all’impiego su larga scala di costose metodologie per ricaricare e preservare le falde acquifere, ha permesso di recuperare l’antica stabilità e indifferenza ai risucchio fatale del sottosuolo. Laddove l’Indonesia delle molte disuguaglianze, terra dagli eterni conflitti tra interessi dei potenti ed ampie fasce di popolazione disagiate, sembrerebbe aver scelto la metodologia del cosiddetto shock & awe, ovvero prendere di petto il problema come un palafreno alla carica, dal quale tuttavia nessuno si sia premurato di togliere i paraocchi. Mentre già sorgono pesanti e problematiche controversie, sia relative al terribile impatto ambientale che una simile costruzione avrà inevitabilmente sui fondali e l’antistante barriera corallina giavanese, per non parlare delle proteste, spesso condotte fino all’impiego delle vie legali, dalle associazioni e i sindacati dei pescatori locali, per cui un accesso privo d’ostacoli alla costa rappresenta effettivamente l’unico metodo capace di garantire un lavoro sufficientemente remunerativo. E questo benché, come fatto notare da molti, pescare in prossimità di un simile conglomerato urbano significhi farlo in uno dei luoghi più inquinati e potenzialmente carcinogeni dell’intero mare d’Oriente.
I grandi progetti per salvare le città costiere dall’acqua, lo sappiamo molto bene noi italiani con l’esperienza del MOSE veneziano, non sono mai semplici da portare a termine. Poiché prolungandosi attraverso le singole, o multiple generazioni, finiscono per coinvolgere inevitabilmente successive iterazioni amministrative, ciascuna mossa da priorità ed intenti collaterali di natura sostanzialmente diversa. Un po’ come gli industriali che, continuando ad appesantire il contenuto ecologicamente gravoso della nostra atmosfera, antepongono spesso le ragioni del profitto a una visione capace di estendersi verso il futuro respiro della nostra discendenza incolpevole, spesso stanca di vivere con questa condanna. Ma il fato di Jakarta, come possiamo facilmente osservare, non potrà risolversi tra 20, 30 o 40 anni, semplicemente perché se tutto continua allo stesso modo, entro quell’epoca non esisterà più alcuna città presso questi luoghi.
Il sentiero alternativo, del resto, continua ad apparire per lo più nebuloso. Come potrebbe mai essere possibile trovare una contromisura, quando la maggior parte delle persone ancora non riescono a interpretare i chiari segni di un’apocalisse atlantidea incipiente? Forse, l’unica speranza resta invocare Aquaman. Affinché il suo tridente castighi gli ingiusti, sciolga i nodi burocratici, richiami i pesci a raccolta. Per ridere della nostra disgrazia, mentre corriamo a raggiungerli, interrogandoci su dove, o quando, ci siamo meritati una simile punizione…