Il rombo del motore, appena udibile alla postazione di comando, veniva totalmente soverchiato dal sibilo insistente del dispositivo RWR sopra lo scenario montagnoso del territorio nemico, avvisatore di segnali radar ben direzionati verso quella scheggia di metallo quasi del tutto invisibile nel vasto cielo. “Al tuo segnale, sono pronto a scatenare l’inferno” fece l’uomo seduto dietro, attraverso la sua maschera per l’ossigeno, scrutando attentamente i propri tre monitor multifunzione, il più grande dei quali era configurato in modalità SA, per analizzare la situazione mediante i dati ricevuti dal suo collegamento a banda larga con l’aerosorvegliante AWACS per il trasferimento dei dati. Tre, quattro, cinque rampe di lancio per missili terra-aria nemici, tanto che appariva totalmente inconcepibile che il loro vulnerabile uccello da guerra potesse, in tempo utile, scagliare altrettante munizioni simili, ma con capacità di cercare autonomamente le fonti di un segnale radio (alias HARM). “3…2…1…Fai fuoco ora!” Disse il pilota/comandante, mentre il secondo membro dell’equipaggio premeva il grosso bottone rosso posizionato al centro della propria plancia di comando. Con un rombo inudibile, quindi, l’arma principale e vera ragione d’esistenza della loro stessa missione iniziò ad emettere un segnale. Poi molti. In un attimo, l’RWR tacque: da ogni punto di vista rilevante, i radar nemici avevano smesso di funzionare, all’unisono. E non sarebbero tornati operativi… Prima che fosse, ormai, troppo tardi.
Ritornando con la mente all’apice degli anni ’80, due cose sopra tutte le altre sapevano incarnare il mito delle avveniristiche tecnologie, nuova metrica di ciò che fosse percepito degno d’influenzare le future generazioni, in quanto canone dell’innegabile ed irraggiungibile rule of cool: la prima, Tom Cruise a soli 24 anni, reclutato per finzione dalla US Navy e circondato dalla cabina di comando di un possente F-14 Tomcat nel film Top Gun, film il cui messaggio patriottico sarebbe stato messo in secondo piano dall’appassionante dipanarsi di quel dramma certamente atipico e soltanto lievemente melò. L’altra invece erano gli hacker della neonata corrente letteraria e culturale del cyberpunk, virtuosi operatori di un oggetto del mistero, il nuovo ospite di molte case con la sua tastiera, il monitor ed altri orpelli, non meno misteriosi per l’uomo di marciapiede di una procedura di atterraggio/decollo dalla portaerei o il raggio operativo dei diversi missili montati sotto le ali di quel cinematico falco d’acciaio. Ma mentre quest’ultimo, col suo costo di svariati milioni di dollari nonostante si trattasse del prodotto di un concetto di superiorità aerea risalente ad oltre 15 anni prima, appariva ormai avviato verso il viale del tramonto, tutti sospettavano che la guerra del futuro avrebbe avuto i metodi e le ragioni per svolgersi all’interno dello spazio non tangibile e del mondo digitale, in maniera ben diversa, da quella che potesse ritrovarsi celebrata su pellicola in siffatta maniera. Perché dico, ve lo immaginate? L’attore più pagato ed ammirato di Hollywood messo ad interpretare il pilota di un ponderoso Grumman EA-6B Prowler, l’aereo da 25 tonnellate di peso a pieno carico e quattro membri dell’equipaggio, che sin dall’epoca immediatamente successiva alla guerra del Vietnam, aveva ereditato dall’EF-111A Raven la mansione di trasportare sulla prima linea il modulo di disturbo ad onde elettromagnetiche AN/ALQ-99, unico capace di accecare letteralmente qualsiasi antenna radar schierata sul territorio nemico. Certo, tutto può essere reso affascinante con la giusta sceneggiatura e abilità registica in cabina di montaggio. Ma certe cose, appaiono meno probabili d’altre…
Dunque resta chiaro che tra le tante mancanze di cui possano essere accusate le Forze Armate americane, non figuri certamente l’incapacità comunicativa o pubblicitaria. Ragion per cui, quando nel 1991 un lungo processo tecnico condotto a più livelli stava per sfociare nella sostituzione su larga scala a bordo delle super-portaerei americane del beneamato Tomcat (“micetto”) con un letterale calabrone, lo sfinato ed innegabilmente alquanto mingherlino F/A-18E/F “Hornet” della McDonnell Douglas, più di una voce si sarebbe sollevata nel Congresso ed altrove per dubitare in primo luogo delle prestazioni di un così nuovo aeromobile, ma anche e sopratutto della sua palese carenza in materia di autonomia strategica, fattore necessario a combattere battaglie in alto mare distanti dal gruppo navale. Che tutti sapevano, si doveva risultare direttamente traducibile nel così fondamentale, imprescindibile carisma del cavaliere solitario.
Entro il 1995, dunque, lo scenario pareva essere il seguente: i capi di Stato Maggiore, con una copiosa porzione del loro budget annuale per il settore ricerca & sviluppo (notoriamente e tristemente superiore a quello stanziato per l’esplorazione spaziale) che si recano alla Boeing, per chiedere cosa potesse essere fatto con il fine di esser pronti ad un futuro conflitto diretto tra portaerei americane ed ex-sovietiche, oppure fuoriuscite direttamente dalla tana del Drago cinese, forse lo scenario considerato meno probabile nella guerra dell’intero secolo a venire. Ed è proprio da una tale richiesta che avrebbe preso forma l’F/A-18E/F “Super” Hornet, un aereo completamente rivisitato e addirittura richiesto in due versioni chiaramente distinte. La prima monoposto e la seconda in tandem, riportando per questo in aria la figura ingiustamente poco celebrata del co-pilota, capace di dividere e approcciarsi ai compiti da svolgere all’interno di una così complessa cabina. Compiti che sarebbero stati, nei fatti, decisamente vari… Avanzando quindi nella nostra cronistoria fino all’inizio degli anni 2000, ci troviamo al cospetto di un’altra, pesantissima questione: le funzionalità del succitato EA-6B Prowler, principale aereo per la guerra elettronica in dotazione a tutte le Forze Aeree statunitense, che vengono ormai giudicate insufficienti a seguire in zona di battaglia gli stormi di attacco aerei decollati dalle portaerei, costringendo alla ricerca di una soluzione e un approccio completamente diversi. Ed è allora, a tutti gli effetti, che i tecnici dei think-tank coinvolti avrebbero avuto forse la loro idea più geniale: se un co-pilota a bordo di un Super Hornet poteva occuparsi della gestione di tutti gli aspetti maggiormente complicati nella gestione dell’avionica e del moderno radar di combattimento, perché mai non poteva essergli affidata la supervisione solitaria di un intero array di sistemi di disturbo AN/ALQ-99, sostituendosi nei fatti ai tre membri dell’equipaggio, in aggiunta al pilota, che si erano occupati fino ad ora di quel compito? I vantaggi, del resto, sarebbero stati notevoli: immaginate voi l’efficienza di un aereo di disturbo elettronico che è a tutti gli effetti anche un caccia multiruolo, con esattamente le stesse doti prestazionali degli aeromobili che sarebbe stato incaricato di scortare, proteggendoli da potenziali sguardi nemici. Ciò detto, era ormai il 2006 quando l’EA-18G “Growler” (“ruggente”) avrebbe iniziato il lungo processo logistico e produttivo per sostituirsi all’intera flotta dei 170 EA-6B Prowler (“predatori”) ancora in servizio attivo nell’Esercito, la Marina e i Marine.
Costruito a tutti gli effetti con le soluzioni aerodinamiche di base presenti nel Super Hornet bi-posto ad uso convenzionale, il Growler presenta tuttavia alcuni tratti distintivi degni di nota. In primo luogo, la rimozione del cannone Vulcan da 20 mm per il fuoco diretto e le due rotaie di lancio sulla punta delle ali per i missili a ricerca di calore AIM-9, sostituiti rispettivamente dall’elettronica capace di generare i segnali disturbo radar e una coppia di ricevitori di onde AN/ALQ-218, parte imprescindibile del sistema AN/ALQ-99 e ospitati originariamente all’interno di un apposito globo, situato sulla sommità della coda del predecessore EA-6B. Per quanto concerne invece tali essenziali implementi finalizzati ad accecare lo sforzo bellico avverso, essi si presentano come grosse oggetti ellittici montati sotto le ali non del tutto dissimili esternamente dai serbatoi di carburante, se non fosse per la presenza di una piccola dinamo eolica nella parte anteriore, finalizzata a supportare l’alto consumo di energia elettrica richiesto da simili implementi. Mentre parte del carburante addizionale, in questa parzialmente rivisitata versione del Super Hornet, viene immessa nei rinnovati serbatoi nella parte superiore della carlinga, che possono permettersi di essere più preminenti grazie ad una completa rivisitazione del profilo aerodinamico nel suo complesso. L’aereo può trasportare, inoltre, una coppia a scelta tra missili aria-aria AMRAMM AIM-120 o anti-radar aria-terra di tipologia HARM, dimostrandosi potenzialmente valido nell’assistere i velivoli da combattimento propriamente detti, che dovrebbe idealmente accompagnare in pieno territorio nemico.
Il che non può che costituire la naturale dote di un mezzo da battaglia capace d’incarnare, al tempo stesso, lo spirito di Top Gun e quello di Neuromante, l’umana possenza del Gladiatore e la scaltra saggezza di Neo in Matrix, eroi del nuovo cinema e pietre di paragone culturali per una diversa, forse più fantasiosa e stravagante generazione. Un velivolo da guerra, dopo tutto, è anche un importante simbolo all’interno di specifici contesti. Un vero e proprio dissuasore. Ed è forse proprio a questo, che dovremmo aspirare di vederlo utile. Piuttosto che la dolorosa alternativa.