Jizai okimono, i draghi plasmati sulle incudini dei samurai

Con guanti e mascherina bianca, l’addetto del Museo Nazionale di Tokyo maneggia il piccolo dio dei fiumi come se potesse spiccare il volo da un momento all’altro. Apre e chiude la bocca, solleva le zampe, piega innanzi la coda. L’animale straordinariamente vivido, benché del tutto passivo, mantiene un’espressione indecifrabile mentre i suoi baffi oscillano lievemente, per il solo effetto dell’inerzia e lo spostamento d’aria. Mentre con il potere posseduto dagli antichi manufatti, riesce ad evocare non soltanto lo spirito degli antenati grazie a un ruggito inaudibile, bensì la stessa catena di eventi che avrebbe portato, senza deviazioni possibili, alla sua magnifica esistenza.
Invincibile, orgoglioso, pronto a tutto. Dopo quel cruciale inverno del 1615 in cui aveva diretto con successo la difesa del castello di Osaka, all’età non più giovanissima di 48 anni, il famoso samurai Sanada Yukimura dovette infine rassegnarsi a un crudele destino: l’alta fortezza temporanea in legno che portava il suo nome ormai smontata, così come i due fossati che circondavano il suo signore erano stati riempiti per l’inganno del conquistatore di Mikawa, che pur avendo promesso la pace continuava a insediare l’eredità di colui che avrebbe dovuto essere shōgun. Quel Toyotomi Hideyori figlio del reggente imperiale, tradito e circondato da truppe nemiche assieme ai più fedeli servitori, rimasti legati a un senso dell’onore che non era soltanto creato dalla forza, bensì dal diritto di nascita e le promesse fatte in una vita trascorsa, ormai soprasseduta dal progresso inarrestabile della storia. Così circondato dai Tokugawa e affrontato da un guerriero senza nome, che soltanto a partire da quel giorno ne avrebbe avuto uno sulle pagine della storia, il penultimo dei Sanada si tolse il celebre elmo con le sei monete sulla placca frontale. Ed ormai esausto, venne così decapitato sul campo di battaglia.
Il concetto particolarmente amato dalla filosofia nipponica del cosiddetto “Ultimo Samurai” viene generalmente attribuito alla figura di Saigo Takamori, colui che 9 anni dopo il totale rinnovamento politico del paese nel 1868 si ribellò assieme al suo feudo nel tentativo di riportare innanzi gli antichi valori. Per morire armato di spada ed arco contro le manovre di un esercito dotato dei più avveniristici fucili con canna rigata, ed alcuni esempi importati dalle potenze occidentali di primitive mitragliatrici con assemblaggio rotativo. Ma se quella fu la fine di un’ideale, resta difficile negare che il suo mestiere avesse cessato di avere una logica già oltre due secoli prima, con la fine dell’ultima vera, grande battaglia delle guerre civili per l’unificazione del paese. Il che avrebbe portato ad una serie di cambiamenti a tutti i livelli della società, incluso quello di un’intera industria metallurgica, per cui la costruzione di spade e armature aveva costituito, attraverso i secoli, la linfa vitale della propria stessa esistenza continuativa di un tempo. Sarebbe possibile affermare dunque che, così come la fine di un epoca si era consumata all’ombra delle mura del castello di Osaka, l’inizio di un’altra avrebbe avuto luogo sotto quelle di Himeji, l’antica rocca fortificata col soprannome di Airone Bianco che il trionfatore di Sekigahara e del successivo assedio avrebbe assegnato al suo seguace Ikeda Terumasa. Situata nell’omonimo centro abitato famoso, tra le altre cose, per la qualità del proprio artigianato guerresco. Di cui tra i praticanti più celebri figurava la famiglia Myochin, le cui armature ancora vengono celebrate nel mondo del fantastico e dei videogiochi, come sinonimo insuperabile del concetto di protezione personale. Ma quale poteva essere il loro scopo, nella nuova, lunga epoca di una nazione finalmente in pace con se stessa e gli altri?

L’artista gallese Lee Odishow della Carmarthen School of Art realizza un moderno okimono creato grazie alla fusione del bronzo, a partire dal vero carapace di un grosso granchio. Il meccanismo che consente il movimento di chele e zampe riesce a farlo sembrare quasi vivo.

Il primo di quelli che vengono a partire dall’epoca Meiji definiti come jizai okimono (letteralmente: oggetti di pregio articolati) che sia giunto a noi con una data ed il nome del suo autore, per l’appunto il magnifico drago di ferro mostrato in apertura, fu dunque l’opera di Myochin Muneaki e risale al 1713, mentre il successivo più recente di esattamente 40 anni fu costruito dal figlio Muneyasu e raffigura una farfalla. Queste meraviglie in miniatura, concepite come gli altri esempi di okimono con finalità esclusivamente decorative, per distinguersi dai netsuke che servivano invece allo scopo ben preciso di tener chiusi i cordoni delle borse, possedevano la caratteristica mai vista prima di essere posizionati in qualsiasi modo fosse considerato desiderabile, rappresentando in un certo senso la versione ante-litteram del concetto contemporaneo di action figure. In tal modo, essi erano la prova innegabile dell’eccezionale capacità scultorea e meccanica dei loro creatori, non più necessari a un’industria del combattimento sui campi di battaglia ma ancora dotati di un’eredità e un bagaglio di conoscenze più che millenario. Tra gli altri esempi giunti fino a noi dei primi appartenenti a questa notevole tipologia di opera creativa troviamo quindi un’ampia varietà di creature naturali, scelte tra quelle meglio rappresentabili attraverso un sistema che prevedeva l’attenta lavorazione dei metalli o più raramente, il legno: insetti, ragni, granchi, aragoste, pesci e uccelli, benché il drago continuasse ad essere il soggetto preferito nella maggior parte delle occasioni, dato il significato simbolico di tale creatura leggendaria. Durante la fine del periodo Edo (1603 – 1868) e l’inizio di quello Meiji, quindi, il grado di raffinatezza per i nuovi status symbol nati dopo il termine di ogni conflitto venne ulteriormente raffinato, passando dal ferro alle più raffinate leghe dell’artigianato tradizionale giapponese, lo shakudō (rame con una piccola quantità d’oro) e lo Shibuichi (rame+argento+oro). In tale migliorata accezione, gli jizai okimono iniziarono quindi ad essere concepiti primariamente per l’esportazione, sfruttando il fascino dell’Occidente europeo nel periodo del cosiddetto Japonisme, diffusosi grazie alla larga fama dei pittori francesi ispirati dal mondo delle stampe ukyo-e. Lo stesso termine che costituisce il loro nome nacque in questo periodo ed in riferimento a un esempio esposto alla Chicago World’s Columbian Exposition nel 1893 dell’artigiano Itao Shinjiro, definito unicamente come “okimono con le ali che si muovono liberamente dentro e fuori” probabilmente un insetto di qualche tipo. Oggetti più piccoli e leggeri, dato il maggior valore della materia prima, questi tesori entrarono a far parte di alcune delle più celebri collezioni museali da entrambi i lati dell’Atlantico, dove si trovano tutt’ora.
Nel mondo moderno, ritrovata grazie al costante viaggio di scoperta che i giapponesi compiono all’interno del proprio passato, quest’arte perduta sta quindi vivendo una seconda giovinezza grazie all’opera di creativi come Ohtake Ryousuke e Haruo Mitsuta, le cui mostre all’interno di alcuni dei più famosi musei nazionali ed esposizioni tenute all’estero hanno contribuito a diffondere ulteriormente la fama senza tempo dell’artigianato giapponese. Il cui conformarsi al valore mutualmente esclusivo della perfezione assoluta ha concesso, attraverso il succedersi delle epoche, una capacità di entrare a pieno titolo nelle cognizioni universali del senso comune. Quale altro paese, del resto, ha saputo dimostrarsi altrettanto capace di dar forma alle immagini e i mostri della sua fantasia?

Gli insetti di Haruo Mitsuta, realizzati con metalli scelti per la colorazione il più possibile realistica, possiedono un grado di articolazione comparabile a quello degli antichi capolavori costruiti dalla famiglia Myochin. Da questo punto di vista, essi rappresentano un ritorno alla tradizione, piuttosto che l’evoluzione o semplificazione dei presupposti di partenza.

Facilmente giudicabili come superati nel mondo moderno, gli jizai okimono continuano a costituire, in realtà, un importante classe di prodotti particolarmente preziosi al momento dell’esportazione, grazie all’entusiasmo di migliaia di appassionati sparsi per il mondo. Esistono in effetti almeno due compagnie specializzate nel produrne in serie valide versioni contemporanee, utilizzando per lo più la plastica: Takeya Shiki e Kaiyodo Revoltech, i cui prodotti vanno dalla scatola di montaggio dal prezzo ragionevole (non più di 100 euro) a vere e proprie opere d’arte prodotte in serie limitate, i cui prezzi riescono a superare abbondantemente 10 volte quella cifra. I loro soggetti preferiti, scelti per appassionare un pubblico giovane, includono personaggi e mostri dei fumetti, videogiochi e cartoni animati, i letterali tre pilastri della produzione creativa del Giappone dei nostri (strani) giorni. Sotto le mura di un’epoca ormai trascorsa, tuttavia, i martelli del fabbro continuano a colpire l’incudine in cerca di un possibile domani…
Così nel frattempo la famiglia Myochin, ancora in affari dopo quasi 900 anni da quando il leggendario capostipite produsse la sua prima katana, nella stessa bottega di Himeji ha dovuto cercare ulteriori strade per restare rilevante. Incapace di competere con l’appeal commerciale delle multinazionali e l’economia dei processi industriali, l’attuale settantacinquenne mastro dell’officina Munemichi Myochin non ha potuto far altro che dedicarsi alla costruzione di sonagli metallici concepiti per oscillare nel vento. Oggetti forse prosaici, ma non meno conduttivi al supremo grado d’eccellenza. Come Sanada e Saigo, ultimo esponente di un mondo ormai trascinato via dalle correnti del tempo, fieramente incline a raggiungere la perfezione prima dell’ora della fine. Quel colpo di coda dell’immane drago, che ogni cosa circonda, riflettendo sulle sue scaglie l’energia di un sole al tramonto.

Emergendo dalla sua scatola, il selvaggio bruco Ohmu di Nausicaä della Valle del vento (1984 – Hayao Miyazaki) incarna il messaggio fondamentale dell’esistenza: che tutti possono essere costruttori di armi (occhi rossi) o inusitate meraviglie (occhi blu). Tutto quello che conta, in fin dei conti, è continuare a strisciare.

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