L’esistenza ultra-competitiva delle mosche dagli occhi a martello

“…Che fanfarone! Nessuno è in grado di rispondergli per le rime?” Le foglie pennate di Phoenix dactylifera, comunemente chiamata palma da datteri, oscillavano nel forte vento egiziano, mentre i due si fronteggiavano a distanza di sicurezza. “Nessuno? D’accordo: ci penso io. Voi avete degli occhi… molto, uhm, distanti!” Ogni ronzio tacque in attesa della sua risposta. “Questo è tutto?” Rispose lui: “È assai poca cosa. Se ne potevano dire, ce n’erano a josa!” Enunciò, danzando agilmente sulle sottili zampe anteriori, mentre i peli sembrarono sollevarsi al pari delle due antenne. “Potevate essere… Aggressivo: se avessi peduncoli oculari tanto lunghi, me li farei subito tagliare; Amichevole: quando mettete gli occhiali, mi raccomando di tener d’occhio lo stipite delle porte; Arrogante: ragazzo, chi vi ha omaggiato di tal carrello? Vi si potrebbe appoggiare l’ombrello! […] E così via a seguire.” Come una sorta di brivido, in quel momento, sembrò percorrere il tronco della pianta, ove si trovava la folla indistinta delle femmine della loro specie: “Ma di spirito, voi, miserrimo artropode, mai non ne aveste un micron, e di lettere tante quante occorrono a far la parola: IDIOTA!” Un altro duello, per fortuna di natura soltanto verbale, si consumò in questo modo nel caldo pomeriggio dell’estate nordafricana. E fu così che il maschio dominante dovette spiccare il volo, lasciando il posto a chi possedeva la “qualità” che ogni dama desidera, anche quando non ne è cosciente: una distanza tra le pupille considerevolmente superiore alla media. Anche di creature MOLTO più grandi di loro…
Diopsidae o come siamo soliti definirle in maniera comune: (piccole) mosche dagli occhi peduncolati. Un’intera famiglia di ditteri ragionevolmente cosmopoliti, diffusi soprattutto nelle aree tropicali ma anche nella parte mediana dell’Asia, in Nord America e in un particolare caso ungherese, persino nel nostro beneamato Vecchio Continente, profondamente distinti dai loro simili per una serie di caratteristiche, sia comportamentali che relative alla particolare conformazione fisica del loro corpo. A cominciare dal metaforico elefante nel barattolo di miele: l’eccezionale costrutto somatico che poggia sulla loro testa triangolare, costituito da due peduncoli direzionati ad Y, ciascuno ospitante i principali orpelli dell’apparato sensoriale dell’insetto. Sarebbe a dire, il paio di antenne e gli altrettanti occhi di un color rosso acceso, così tanto simili a ciliege infilzate sulla punta di uno spillo. Caratteristica, questa, presente soprattutto nei maschi delle rilevanti specie, in cui l’estensione di tali organi supera spesso l’estensione longitudinale del loro stesso corpo, laddove nelle femmine, piuttosto, succede sempre il contrario. Questo perché al momento dell’emersione adulta dallo stato di ninfa (altresì detto metamorfosi o sfarfallamento) nessuna mosca diopsida presenta alcuna estrusione peduncolare, bensì occhi perfettamente ravvicinati e posizionati ai lati della testa. Almeno questo finché, secondo un preciso copione iscritto nel loro codice genetico, non iniziano a risucchiare aria con la bocca, gonfiando i peduncoli come fossero i lunghi palloncini di un clown. E tutto questo, con un preciso, non-poi-tanto segreto senso d’aspettativa…

Notevole tratto distintivo delle diopside è la loro tendenza a riunirsi in veri e propri lek (aggregazioni per stabilire il diritto all’accoppiamento) coronati da raffinati duelli rituali, nel corso dei quali soltanto come ultima risorsa si ricorre al contatto fisico diretto. Un po’ come preferiva fare il celebre spadaccino Cyrano de Bergerac.

L’effettiva funzione di tale caratteristica, già descritta scientificamente nel XVI secolo dallo studioso quacchero Fothergill e successivamente classificata nella più grande e famosa opera del naturalista Carl Linnaeus, è stata quindi approfondita soltanto in epoca ben più recente, mediante l’applicazione delle moderne nozioni sul comportamento e le scelte istintive degli animali. Facendo riferimento, in prima battuta, al principio dell’handicap o “segnale onesto” teorizzato per la prima volta nel 1975 dal biologo Amotz Zahavi, secondo cui la presenza di tratti evolutivi apparentemente svantaggiosi in un esemplare maschio può suscitare in modo particolare l’interesse di potenziali partner femminili, proprio per il suo dimostrarsi capace di sopravvivere e dominare il gruppo nonostante l’ostacolo di tali problematiche caratteristiche ereditarie. Un caso tipico di tale faccenda, tanto per fare un esempio, è la lunga coda del pavone in grado di renderlo maggiormente vulnerabile ai predatori e ostacolarlo durante la fuga. Oppure lo stotting, particolare comportamento di talune gazzelle che saltellano sul posto due o tre volte sperando di essere viste, prima di mettersi a correre in direzione diametralmente opposta all’affamato grande felino della savana. Il che d’altra parte, benché applicabile in linea di principio alla più limitata agilità e compattezza di simili mosche, non tiene conto della notevole capacità scrutatrice di quest’ultime, che proprio in funzione della particolare disposizione dei loro occhi finiscono per avere una pregiatissima visione binoculare capace di sfidare quella umana in termini di FOV (campo visivo) 135° contro i nostri 150°. Caratteristica la quale, una volta che incontra il tempo dilatato dagli ottimi riflessi dei ditteri, rende queste scaltre volatrici sostanzialmente impossibili da colpire con la prototipica paletta devastatrice.
Detto ciò, l’effettiva funzione della lunghezza dei peduncoli, benché apparentemente connessa davvero alla sfera sessuale, sembrerebbe avere un diverso e più sofisticato obiettivo. Quello di fungere da marker genetico per le femmine, proprio perché associato a una particolare, importantissima caratteristica genetica. Interconnessa ad un’ulteriore e rara propensione di queste mosche: quella di mettere al mondo una quantità superiore (quasi il doppio) di esemplari femmine rispetto ai maschi. Verso un diverso, e comunque non meno funzionale, approccio per garantire la ronzante sopravvivenza della loro specie…

Gli esperimenti con le mosche Diopsidae partono sempre dalla segregazione di particolari gruppi di maschi, divisi in base alla lunghezza dei loro peduncoli oculari. Ciò riconferma, nella ricerca statistica, l’importanza del tratto distintivo considerato più importante dalle loro potenziali partner d’accoppiamento.

La base di tutto ciò va ricercata quindi nella presenza di un particolare gene chiamato condizionatore meiotico, che agendo come un virus attacca il cromosoma Y durante la sua riproduzione attraverso la mitosi, eliminandolo sistematicamente a favore di quello X ed assicurando tanto più spesso, in tale maniera, la formazione di un altro esemplare di sesso femminile. Processo apparentemente problematico in realtà favorito, secondo una serie di studi condotti nell’ultimo decennio, unicamente dalla particolare dotazione genetica degli esemplari dai peduncoli troppo corti, semplificando in questo modo la scelta da parte delle femmine di partner che potranno garantirgli di mettere al mondo una maggior quantità di uova contenenti dei figli di sesso maschile. Il che, in un contesto con i rapporti tra i sessi decisamente spostato verso il lato gentile, non potrà che incrementare esponenzialmente la probabilità di una riuscita trasmissione dei loro geni alle molte generazioni a venire. Niente male come tecnica, vero?
Abbastanza funzionale, questo è certo, per rendere simili insetti un problematico agente invasore di molte coltivazioni del secondo e terzo mondo, in aree disagiate d’Africa e d’Asia, dove l’eccezionale proliferazione di questi ditteri ha portato non pochi grattacapi alle già affaticate industrie agricole locali, in funzione dell’eccezionale capacità riproduttiva di simili agenti volatori con la testa a forma di boomerang ingioiellato. Attraverso il verificarsi di una serie di passaggi particolarmente riconoscibili, che partono con l’assembramento apparentemente casuale di grossi nugoli, soprattutto verso gli orari crepuscolari, immediatamente seguìto, al rilascio di un qualche non meglio definito segnale feromonico, alla formazione di impressionanti assembramenti con copiosa sovrapposizione dei singoli esemplari, tali da far apparire probabile l’imminente annuncio della venuta di Belzebù sul nostro vulnerabile, azzurro pianeta.
Ma come in tutte le cose, ci vuole pazienza. E la propensione ad affrontare un simile problema con l’unica arma possibile a nostra disposizione: mangiar mosche, prima che loro divorino la nostra intera, effimera civiltà. Una scelta che potremmo anche trovarci a dover fare, secondo accurate proiezioni, entro il concludersi delle prossime tre, quattro, dodici generazioni!

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