Esiste una teoria improbabile, eppure basata su prove stranamente convincenti, che il polpo terrestre sia in realtà frutto di una panspermia cosmica, ovvero possa essere giunto tra noi come embrione, in qualche maniera ibernato o incorporato all’interno di un asteroide proveniente da chissà dove. Questo perché, tra tutti gli animali che ci sono noti, esso risulta il meno adatto ad essere spiegato dall’evoluzione. In quale maniera, tra l’insieme degli animali marini, compaiono all’improvviso occhi complessi, un corpo flessibile, la capacità di mimetizzarsi grazie a cellule che possono modificare la colorazione? Come possono, simili animali, derivare dalle semplici caratteristiche del cefalopode originario, l’essere dalla conchiglia conica di nome Plectonoceras? Qualunque opinione si possa avere sullo studio pubblicato dall’astrobiologo Edward J. Steele et al. giusto l’agosto di quest’anno, resta tuttavia indubbia la trasformazione radicale subita nel periodo Carbonifero (359,2 milioni di anni fa) da una parte dei Coleoidea, principali concorrenti nella lotta per la sopravvivenza contro i pesci ossei dalla formidabile mascella, che abbandonata l’idea di sobbarcarsi il peso del guscio protettivo un tempo appartenuto alle Ammonoidea, iniziarono a fondare la propria sopravvivenza su metodi del tutto alternativi.
Al che parrebbe lecito, a scopo di discussione, immaginare un’epoca presente in cui la supposta invasione aliena non fosse mai avvenuta, permettendo a tentacolari esseri di tipo maggiormente ragionevole di dominare ancora adesso i mari della Terra. Approccio non difficile perché, del resto, tali cefalopodi esistono tutt’ora, con una diffusione assai probabilmente pari a quando, 450 milioni di anni fa, il nostro pianeta venne colpito dall’ipotetico asteroide gigante dell’evento di estinzione dell’Ordoviciano-Siluriano. Che nel devastare completamente ogni forma di vita marina prossima alla superficie, lasciò invece incolumi questi galleggiatori degli abissi, completamente impervi a un qualsivoglia tipo di apocalisse funzionale. Sto parlando, se non fosse ancora chiaro, del nautilus/Nautiloidea, sottoclasse di molluschi famosa in modo particolare per la forma del proprio guscio, una delle rappresentazioni più perfette prodotte dalla natura del simbolo della spirale, benché di un tipo che non corrisponde alla progressione numerica della sezione aurea, con somma delusione dei filosofi e artisti di tutto il mondo. Non che questo abbia impedito, attraverso i secoli, di farne una caccia spietata, per trasformarne la struttura fisica in lampade, boccali, soprammobili di vario tipo… È il dramma di tutte le creature che posseggono un quantum di bellezza ultraterrena. Per quanto sia poco riconducibile a quei canoni, che idealmente, determinano il passo e il senso delle nostre attività quotidiane.
Perché guarda, questa è la realtà: se il polpo può anche essere un extraterrestre (con i suoi occhi sporgenti, la testa enorme, gli otto arti protesi verso l’obiettivo) l’ispirazione del nautilus è invece una nave spaziale, ma del tipo frutto della manipolazione genetica, secondo le arcane procedure sopra i mastodonti di una qualche avanzatissima genìa; gli occhi enormi, benché poco sofisticati, i circa 90 tentacoli disposti tutto attorno al becco, da cui emerge una radula dotata esattamente di nove denti che impiega con successo ai circa 600-700 metri a cui sceglie di trascorrere la sua esistenza diurna. E ovviamente, la forma tubolare dell’hyponome sottostante, usato dall’animale per espellere aria mista a gas, allo scopo di spostarsi grazie al principio della reazione dei fluidi. Il che determina, in un certo senso, anche la ragione per cui non poté, o non volle, abbandonare il guscio nel corso dei suoi processi evolutivi: esso agisce, in buona sostanza, come un serbatoio. Ecco il genio, e la ragione stessa, per cui anche le seppie e i polpi contengono ancora, all’interno del loro corpo, una forma più ridotta dell’antica corazza dei cefalopodi: essa serviva, in origine, per permettere il passaggio del sifuncolo, l’organo all’interno del quale circola una soluzione ricca di ioni, capace di generare il gas usato al posto delle pinne, per raggiungere al giusto ritmo il proprio fondamentale obiettivo. Metodo che non significa, per forza, riuscire a farlo velocemente…
Una delle principali caratteristiche comuni a tutti quei molluschi che non sono stati toccati dal “miracolo” evolutivo dei polpi e delle seppie, è la metodologia di formazione del guscio. Che si forma, attraverso i diversi stadi della loro vita, per iterazioni successive, ciascuna leggermente più grande di quella precedente, abbandonata la quale l’animale, secondo il suo copione millenario, chiude l’ingresso, per creare una serie di piccole camere o compartimenti l’uno di seguito all’altro, con un singolo buchetto al centro. Ciò ha lo scopo, più che acclarato, di permettere al sifuncolo di attraversare i diversi spazi, permettendo l’accumularsi di una quantità maggiore di nitrogeno, fondamentale per il galleggiamento e lo spostamento del suo possessore. Contrariamente alla credenza antica secondo cui l’animale si sarebbe spostato usando i propri tentacoli come fossero una vela, da cui è stato fatto derivare il termine di nautilus (marinaio) originariamente attribuito, per convenzione, anche a quelli che oggi vengono definiti Argonauta, polpi pelagici dalla sacca delle uova in grado di ricordare superficialmente la forma di uno di questi gusci primordiali. Ma questo non dovrebbe trarvi in inganno: di Nautiloidea, allo stato attuale, ne esistono esattamente sei specie, divise in due generi distribuiti primariamente in alcuni dei luoghi più remoti dell’Oceano Pacifico, tra cui le isole Vanuatu, le Solomon e la Nuova Caledonia. Benché ci sia naturalmente difficile effettuare una stima sulle vaste popolazioni, che probabilmente popolano le zone pelagiche di un tale irraggiungibile universo.
Per quanto concerne invece l’intelligenza, oggi si ritiene che i grandi cervelli del polpo siano una naturale risposta all’esigenza di sfruttare a pieno l’ottima vista e il camuffamento ottico, risorse di cui il nautilus ovviamente non è dotato. Ed in effetti, in esso manca del tutto un ammasso cogitativo centrale, sostituito da un sistema nervoso ad anello il cui esatto funzionamento, ancora oggi, mette in difficoltà gli scienziati. Perché contrariamente a quello che si potrebbe pensare, il nautilus non solo non è stupido, ma si mostra addirittura capace di risolvere alcuni problemi complessi del mondo reale, come quello di associare elementi di contesto alla presenza di cibo. Una realtà dimostrata per la prima volta nel 2008, in uno studio condotto da Jennifer Basil et al, professoressa associata del Brooklyn College, prestigiosa università americana. La quale pensò bene, dopo un lungo periodo d’introspezione, di disporre i propri cefalopodi col guscio all’interno di un apposito acquario, nel quale ha quindi fatto lampeggiare una luce blu ad intervalli non del tutto regolari. Occasione nella quale, ogni volta, introduceva una fonte di cibo, facilmente individuabile grazie ai due tentacoli olfattivi che si trovano vicino agli occhi dell’animale. I nautilus costituiscono infatti dei veri e propri spazzini dei mari, predatori opportunisti che pur nutrendosi primariamente di gamberi e granchi, non disdegnano l’occasionale carcassa di pesce scovata alle loro notevoli profondità. Così che la scienziata, entro il periodo di circa un’ora, rilevò la maniera in cui i tentacoli si agitavano ogni qual volta la luce venisse accesa. Periodo trascorso il quale, improvvisamente, gli animali smettevano di reagire, in un’apparente dimenticanza di quanto recentemente appreso. E la storia avrebbe anche potuto finire lì. Tranne che, esattamente dopo 6 ore, all’improvviso ricordavano di nuovo, in funzione di un potenziale periodo di assimilazione e rielaborazione dei dati. Il che potrebbe sottintendere, del resto, un tipo diverso e più letargico d’intelligenza.
Per quanto concerne invece la conservazione, la situazione è decisamente complicata. Poiché nessuno conosce, esattamente, la quantità di nautilus esistenti, benché si sospetti che la vita straordinariamente lunga per un cefalopode (circa 20 anni) unita alla tarda maturità sessuale (15 anni) rendano queste creature molto vulnerabili allo sfruttamento eccessivo a scopi primariamente ornamentali, per non parlare dell’inquinamento progressivo dei mari. Perché i nautilus trascorrono una parte significativa della loro esistenza a profondità difficilmente raggiungibili dalla mano degli umani, quasi al confine con un rischio d’irrimediabile implosione ma periodicamente, sopratutto di notte, devono spostarsi in prossimità della superficie, allo scopo di cacciare o deporre le loro uova, generalmente attaccate a scogli o appezzamenti semi-solidi del fondale costiero. Il periodo di gestazione, quindi, durerà tra gli 8 e 12 mesi, esponendo i piccoli ad un ulteriore rischio di perire ancor prima di riuscire a fare la prima nuotata.
Ormai trascorsa da tempo è l’epoca dell’Ordoviciano, durante cui le loro conchiglie raggiungevano la lunghezza di 6-7 metri, facendone dei predatori aggressivi e profondamente temuti da qualsiasi forma di vita fosse tanto sfortunata da incrociare la loro via. Così oggi, il nautilus è solamente un guscio fra i tanti, benché siano in molti, sospetto, a ritenerlo erroneamente già estinto da tempo. Ma come ci dimostra sapientemente la natura, esistono molti tipi di diversi di adattamento. E talvolta il più efficace di tutti è anche il più semplice: non adattarsi affatto. Continuando a fluttuare in assoluto silenzio, nel mare oscuro dell’assoluta indifferenza.