L’isola delle case col tetto di alghe

Dal punto di vista dell’integrazione tra uomo e natura, non esiste un campo più rilevante di quello abitativo. Sin da quando, molti millenni fa, i nostri antenati si accontentavano di vivere all’interno di buche scavate nel fianco delle montagne, la civiltà si è evoluta ed ha trovato espressione, in primo luogo, negli spazi creati dal posizionamento di un uscio. Al di là del quale tutto è controllabile, ogni cosa risulta essere (ragionevolmente) chiara. Vi sono case che riflettono la visione dei loro costruttori, architetti dell’oggi capaci di disporre di risorse mezzi virtualmente illimitati… Per lo meno dal punto di vista del castoro che costruisce la diga coi denti, le unghie e la persistenza del roditore. Mentre altre trovano una forma fisica, principalmente, dalle ragioni delle mere e imprescindibili circostanze. Come avvenne, nel XVIII secolo, a Læsø, isola nel mare di Danimarca il cui nome significa “terra di Hlér”, il gigante norreno associato alla furia e le onde del mare. Vichinghi, tuttavia, non vivevano qui, dove l’economia scorreva soprattutto in funzione della messa in commercio di una risorsa, e soltanto quella: il prezioso sale, ricavato da un tratto  di mare in cui gli ioni abbondano ancor più del normale. Un’industria, questa, dalle opportunità di guadagno assolutamente significative, tuttavia non priva di un costo operativo importante: mantenere accessi, per molti mesi l’anno, i forni dell’isola, bruciando essenzialmente tutto il combustibile a disposizione.
Ora le isole, come loro prerogativa, sono un prototipo dei sistemi ecologici aperti, cosicché fu possibile osservare, nel giro di appena un paio di generazioni, la progressiva scomparsa di ogni forma di arbusti dalle foreste di questo luogo un tempo ameno. Intere zone furono letteralmente disboscate, con la nascita di caratteristiche del territorio come le dune di Højsande, dove il terreno bruciato dal sale non permette neppure all’erba di crescere indisturbata. Al che seguì la domanda, niente meno che fondamentale per prevenire l’abbandono progressivo dei villaggi e un triste ritorno alla terraferma: come sarebbe stato possibile, da quel momento in poi, costruire e rimpiazzare le abitazioni in legno, con tetto di paglia, costruite per la prima volta dalla distante generazione dei loro avi? Furono a lungo analizzate le possibili alternative, quindi si decise di impiegare, finalmente, gli occhi: sulle spiagge di Læsø si rinnovava in effetti, costantemente, un intricato groviglio di fibre vegetali, derivanti dalla famiglia di alghe delle Zosteraceae, genere Zostera. Letterali tonnellate di materiale trasportato a riva, letteralmente intriso di acqua di mare, quasi del tutto pronto all’uso, come il legno che, ormai da tempo, veniva recuperato dai numerosi naufragi che finivano in questi luoghi per la ferocia del Mari del Nord. Così che mentre gli uomini se ne andavano in barca, allo scopo di pescare e alla ricerca di nuovi relitti, secondo una credenza locale fu alle donne dell’isola che venne in mente una soluzione per impermeabilizzare e isolare dal freddo le loro case, mediante l’impiego di quella che qui viene chiamata alga tang. Da cui tangtage, costruzione [del tetto] mediante l’impiego della suddetta Zostera, una tecnica artigianale che, pur non essendo ancora parte dei patrimoni tangibili dell’UNESCO, risulta certamente unica al mondo. Nonché unicamente funzionale allo scopo: osservate, per un attimo, di cosa stiamo parlando. Il tetto di alghe nasce, in modo non troppo diverso da quello di paglia, da svariate tonnellate di alghe, arrotolate ed intrecciate a una struttura di sostegno, al fine di tenere gli elementi lontano dai suoi abitanti. Esso nasce, in effetti, con una tecnica non troppo diversa dalla cardatura della lana, rimarcando ancora una volta la sua appartenenza al mondo femminile. Originariamente, la copertura di una di queste case veniva realizzata nel corso di un singolo giorno, attraverso la collaborazione di circa 150-200 mogli del villaggio senza nessun tipo di compenso, per il principio ormai perduto dell’aiutarsi a vicenda. Una volta disposti i rotoli di alghe, quindi, vi si apponeva uno strato di torba, destinato a legarsi chimicamente con le fibre vegetali, diventando un impenetrabile ed indistruttibile tutt’uno. Tanto che, successivamente all’adagiarsi dell’impasto sulle mura laterali dell’edificio, sarà necessario ricavare dei buchi con la sega a mano tutto attorno alle finestre, pena la creazione di un antro oscuro degno di un vampiro di mare. Al termine dell’opera, la proprietaria offriva alle sue vicine di villaggio un banchetto, per ringraziarle della disponibilità e la sapienza che erano state in grado di dimostrare. Ben sapendo che prima o poi, avrebbe avuto l’occasione di restituire il favore…

L’arrotolamento delle alghe, oggi, può essere effettuato a mano o tramite l’impiego di un dispositivo rotante, come un trapano, per velocizzare grandemente la procedura. Anche l’impiego di ruspe sollevatrici per portare gli ammassi risultanti all’incrocio dei pali semplifica molto il completamento della casa.

Oggi sappiamo, da registrazioni e mappe tradizionali, che il concetto della casa d’alghe era talmente funzionale da aver visto, in passato, la sua applicazione per oltre 200 case differenti. Ci fu in effetti un’epoca, attorno all’anno 1786, in cui ogni singola struttura di Læsø faceva sfoggio orgogliosamente di un magnifico tetto d’alghe, con la sola eccezione delle due chiese, coperte con le tegole secondo la prassi clericale e convenzionale di un popolo ancora legato alle sue convenzioni continentali. Il numero di simili edifici andò quindi progressivamente diminuendo, in forza di una crescente semplicità nel far trasportare fin qui materiali molto meno esigenti in termini di manodopera, tempo e denaro. Finché non ritroviamo, verso la metà del XIX meno di 100 case d’alghe, un numero destinato progressivamente a calare ancora. Ma il vero colpo di grazia sarebbe arrivato negli anni ’20 del 900, quando l’improvviso diffondersi di una malattia fungina, arrivata chissà da dove, sterminò letteralmente le colonie locali di alga tang,rendendo impossibile il rimpiazzo e la riparazione dell’opera tanto faticosamente messa in piedi dagli avi. A ciò aggiungete anche come, in forza dell’industria e l’economia moderna, la commercializzazione del sale di Læsø fosse andata in declino, con progressiva riduzione del taglio degli alberi e conseguente ricrescita delle antiche foreste. Il che sarebbe stato senz’altro positivo, se non fosse per un problema unico di questi luoghi: i tetti ricoperti di torba che, per la prima volta protetti dal vento carico di sale proveniente dal mare, diventavano terreno fertile per l’attecchire di muschi, piante e licheni, con progressivo insorgere di uno stato di marcescenza. Le case frutto del tangtate, dette tanghuse, diventarono a partire da quel momento sempre meno ospitali, umide e fredde, mentre i loro abitanti si trasferivano in strutture percepite come migliori, dimenticando letteralmente l’antica arte dei loro predecessori.
Finché… Ragionandoci, dopo tutto, la questione è questa: il tetto di alghe presenta dei significativi vantaggi rispetto all’unica alternativa possibile, la paglia. Esso diventa straordinariamente rigido ed impermeabile una volta che gli si è dato abbastanza tempo. Proprio per questo, può facilmente resistere anche 200 o 300 anni in condizioni ideali, ed a patto che gli abitanti se ne prendano adeguatamente cura. Esso risulta avere, inoltre, un impatto ecologico prossimo allo zero, richiedendo per la sua implementazione una quantità di CO₂ del tutto trascurabile, per non dire insignificante. Oltre a costituire una preziosa eredità locale, proprio per questo, potrebbe anche rappresentare una valida speranza per il futuro. È stata così avviata nel 2013, con fondi privati e il premio di un bando pubblico, l’iniziativa di conservazione della Seaweed Bank (banca delle alghe) sotto la guida di Marcelle Meier, progettista facente parte dello studio KF Arkitekter, con una valida, quanto originale idea. Sulle coste di Læsø fu quindi edificato un grande capannone, dove far trasportare le alghe importate dalla Danimarca settentrionale un poco alla volta, trattandole in maniera adeguata ad incrementarne la durata nel tempo. Aspettando il momento in cui si sarebbe presentata, inevitabilmente, l’occasione di restaurare una delle poche case ancora esistenti, alla conta più recente poco meno di una ventina. Un’iniziativa che non fu facile da avviare, soprattutto in forza della diffidenza del pubblico locale, ma che ha già portato, grazie alla capacità tecnica dei suoi partecipanti provenuti da fuori, a rimettere in sesto una certa quantità di case. Un approccio diametralmente opposto, nel frattempo, è provenuto dall’architetto Søren Nielsen, che acquistando un lotto di terra nei pressi della casa di Kaline, una delle più famose tanghuse, vi ha costruito una sua reinterpretazione moderna per le vacanze, molto più pratica e rapida da edificare mediante l’impiego di tecnologia moderna.

Rotoli di alghe intrappolati, come salsicce, all’interno di una struttura reticolare, diversamente dall’antico metodo della cardatura. Nonostante le differenze strutturali, Nielsen si è preoccupato che l’alga rimanesse a vista sulle facciate dell’abitazione, che lui definisce per questo la sua piccola “casa pelosa”.

Entrambe le figure di architetti, oltre a una sensibile parte del pubblico più informato, concordano nel definire le alghe come uno dei principali materiali disponibili per il nostro futuro. In un tempo in cui i vegetali di superficie diventano sempre più preziosi, mentre le nostre emissioni sempre maggiori causano, di pari passo, una proliferazione di questi organismi uni- e pluricellulari. Che una volta eradicati e trasportati a terra dalla forza delle maree, non servono più letteralmente ad alcuno scopo, fatta eccezione per quelli eventualmente elaborati dalla società umana, purché si dimostri in grado di superare gli acquisiti preconcetti su cosa sia pratico e cosa, d’altra parte, sembri essere tutt’altro. Un tetto di alghe, perché no? Ancora oggi, fino a tre o quattro volte più costoso dell’alternativa, eppure capace di durare molto più a lungo, se adeguatamente trattato. Con la giusta prospettiva, sarebbe dunque difficile trascurare di definirlo come l’alternativa più economica in assoluto.
A patto che resti qualcuno che conosce ancora le antiche tecniche, o per lo meno sia disposto ad applicarsi per impararle. Il che è tutt’altro che scontato, quando si considera lo spettro sempre presente, e così dannatamente attraente, di una casa prefabbricata che può essere edificata nel giro di poche ore.

Un altro paio di esempi, riportati dall’articolo del portale Amusing Planet:

Lascia un commento