Morire in un luogo, soltanto per essere sepolti all’altro capo del mondo conosciuto: può capitare, quando vieni martirizzato e un angelo discende dal Paradiso per prelevare le tue spoglie, trasportandole dalla Galilea fino alle Asturie col fine preciso di rivelare ad un santo eremita, quasi ottocento anni dopo, la posizione esatta di un simile luogo toccato dal Signore. Naturalmente, essere uno dei sedici apostoli di Gesù aiuta, e fu il caso di Giacomo il Maggiore a raggiungere l’ultimo epilogo della spoglia tomba quadrata, collocata secondo la tradizione lungo il versante del monte Liberon. Prima che le sue reliquie venissero prelevate e spostate nel sito del Campus Stellae, dove un giorno non troppo lontano, successivamente alla visita del re Alfonso di Oviedo, sarebbe sorta una grande e magnifica chiesa con tutte le caratteristiche di una cattedrale. Case dei morti a vantaggio dei viventi, costruite secondo la migliore tecnologia della loro Era. E se vi dicessi invece che lungo lo stesso sentiero percorso dal sovrano, e molti dei suoi sudditi a seguire, alcune comunità rimasero legate a una tradizione abitativa persino precedente agli eventi sin qui narrati? Come esemplificato dalla piccola comunità montana, situata in terra di Galizia tra le catene di O Courel e Os Ancares, che prende il nome dall’etimologia remota di O Cebreiro. Famosa per due ragioni: il miracolo della Madonna comparsa nella tormenta ad un viaggiatore che stava per perdersi e morire nel mezzo di un gelido inverno, e le singolari costruzioni utilizzate per molti scopi dai suoi abitanti, descritte nel dialetto locale con la singola parola di palloza: mura in mattoni granitici, non più alte di un paio di metri; nessuna apertura fatta eccezione per la porta e piccole feritoie adibite al passaggio del fumo; e un alto tetto di paglia giallastra, acuto e digradante, non dissimile dal cappello di un antico pastore.
Visioni millenarie quasi istantaneamente riconducibili nel repertorio moderno alle case abitate dai Galli del cartone animato Asterix, ma anche i funghi cavi utilizzati dal popolo fantastico dei piccoli Puffi (Les Schtroumpfs) del belga Peyo. Rappresentanti variabilmente fantasiosi di un’intera classe di etnie diffuse nell’Europa del Mondo Antico, generalmente identificate grazie ad alcuni elementi comuni sotto il termine, omnicomprensivo, della cultura dei Celti. Gente pratica nonostante i pochi mezzi disposizione, che aveva imparato attraverso i secoli a lavorare le malleabili materie prime offerte dalla natura, intese sia come metalli che pietra, legno ed erba secca, ciascuno di essi componente primario del concetto ancora osservabile in questi specifici approcci abitativi, talmente efficaci nell’obiettivo perseguito da continuare ad essere costruiti, senza particolari modifiche, fino all’inizio del secolo scorso. Una palloza, generalmente a pianta circolare sebbene esistano anche versioni quadrate, costituisce in effetti l’interpretazione galiziana del progetto pan-europeo (e britanno) della hall house, unico spazio ampio condiviso da padrone, servi ed animali, proprio per questo più facilmente difendibile dagli attacchi degli elementi, bestie selvatiche o eventuali malintenzionati. In tal senso, in epoca Romana avrebbe assunto per analogia retroattiva la definizione di castro, da castrum – accampamento o fortificazione militare. Altro elemento celtico rielaborato secondo le specifiche necessità locali, nel frattempo, era la particolare struttura del tetto, costruita mediante l’impiego di una serie di travi e traverse non dissimili da quelle del torchis, nella tipica casa celtica delle regioni pianeggianti, non più utilizzato per sostenere fango bensì l’enorme quantità di paglia impermeabilizzante, generalmente ricavata dalle copiose coltivazioni di segale della regione galiziana. Non che manchino soluzioni alternative, tra cui frumento, triticale (l’ibrido di segale e grano duro) avena o persino ginestra selvatica, nelle comunità dedite primariamente all’allevamento e per questo prive di varietà domestiche da adattare allo scopo. Tutti elementi riconducibili al concetto tipicamente spagnolo, diffuso anche nei territori delle Asturie e Leon, del cosiddetto teito, qualsiasi casa il cui elemento coprente sia stato costruito mediante l’impiego di elementi vegetali. La cui costruzione tende a richiedere, indipendentemente dalla regione, una serie di passaggi attentamente definiti…

La costruzione della palloza inizia dunque con la creazione di un pavimento in terra battuta, attorno al quale si costruisce il basso recinto in legno che originariamente, sarebbe servito unicamente a delimitare e proteggere lo spazio dedicato agli animali. Convocate quindi sulla scena dalla famiglia committente le importanti figure del teiteros o teitadores, si iniziava la costruzione della struttura del tetto, realizzata comunemente con legno di noccioli o sorbo. Già in esso, per l’occhio esperto, è possibile rilevare la presenza di elementi tradizionali e perfettamente riconoscibili, facenti parte di un’antica metodologia: gli esteos e i toreados, pali obliqui portati a congiungersi sulla sommità presso la cume, trave madre o trave superiore. Circondata, a sua volta, dalla lunga serie delle tixeira, che agendo come i raggi di un cerchio contribuiranno a donare solidità e stabilità all’intera costruzione. Soltanto successivamente, a questo punto, si passa alla costruzione del muro in pietra propriamente detto, che sfruttando la pendenza naturale del terreno di montagna potrà in questo modo essere più basso da una parte, con conseguente risparmio di temi e materiali. Specifiche travi di legno, disposte tutto attorno alla sua pianta circolare, si occuperanno di colmare lo spazio rimasto libero in corrispondenza dei raggi più bassi, garantendo l’impermeabilizzazione da pioggia e neve.
É nel passaggio successivo tuttavia che gli addetti costruttori specializzati potranno dimostrare tutta la loro abilità, mediante l’implementazione di una di due soluzioni distinte, ciascuna esemplificativa di un diverso livello del lavoro svolto. Nel sistema beu, il più semplice e diffuso, i fasci di paglia verranno quindi legati direttamente alle travi, mediante l’impiego di cinghie in grado di assicurare il materiale ma anche renderne più complessa e dispendiosa la sostituzione in fase di manutenzione successiva. Mentre con l’approccio preferibile della spatola, gli esperti teiteros sfrutteranno l’eponimo attrezzo longilineo al fine di disporre ad arte la paglia in strati sovrapposti e intrecciati direttamente tra di loro, potendo intervenire anche successivamente senza per questo dover attingere ai campi di segale per un intero nuovo rotolo di paglia.
La struttura interna della palloza, di suo conto, rispecchiava quindi l’intelligente e pratico serie di approcci implementati durante la sua fase architettonica tradizionale. Con una vasta sala centrale, occupata generalmente dagli animali della fattoria, e un soppalco ligneo dove trovava posto la famiglia dei proprietari. Nel centro esatto prendeva posto invece la cucina, chiamata lareira, riconoscibile dal caratteristico arredo del burro (asino) con lo scopo di sostenere la pentola sopra il fuoco. Particolarmente interessante, ed atipica, risultava nel frattempo la metodologia per lo smaltimento del fumo, che prevedeva soltanto alcune minuscole aperture ricavate nel tetto e nessun accenno di canna fumaria. Gli antichi abitanti della palloza, infatti, erano soliti respirare a pieni polmoni l’aria permeata di una tale cupa sostanza, che serviva anche a riscaldare gli ampi spazi durante i lunghi ed inaccessibili mesi d’inverno. L’intero spazio, in maniera altrettanto sorprendente, risultava estremamente buio data l’assenza di finestre, con l’unica soluzione al problema della pasmón o candeleira, un ramo di agrifoglio sospeso in alto, che veniva inclinato mediante l’impiego di una corda a seconda dell’intensità e durata della luce desiderata in un dato periodo della giornata. Il punto focale del piano terra dell’abitazione, infine, era costituito dalla panca riccamente ornata della escano, dove normalmente si sedevano gli ospiti accolti all’interno della grande casa.

Le palloza sono state in epoca recente riscoperte ed apprezzate da una particolare branca dell’architettura biosostenibile: “Forse soltanto nel passato, sarà possibile trovare il segreto del futuro” affermava famosamente il naturalista e divulgatore Félix Rodríguez de la Fuente (1928-1980) cultore di un ritorno ai principi d’integrazione e sfruttamento della natura secondo le pratiche del Paleolitico, prima che il bisogno di subordinare e governare dell’uomo negasse quel rapporto simbiotico che con cui eravamo giunti nel mondo, pronti a farne il nostro territorio di caccia, allevamento ed agricoltura.
Trasformate tuttavia in una mera attrazione turistica come tanti altri elementi contemporanei del Cammino, e cadute anche per qeusto progressivamente in disuso, fatta eccezione per il ruolo di grossi granai o stalle per cavalli e bovini, le antiche palloze restano un perenne memento di quello che è stato ed avrebbe potuto essere, se soltanto avessimo provato a preservare le ancestrali metodologie nella ricerca di un’idoneo spazio abitativo. Fatto di praticità, immediatezza, convenienza. Materiali disponibili localmente… Sebbene qualche compromesso tenda a rendersi, inevitabilmente, necessario. Eppur quando mai la vita rurale, per sua implica e logica conseguenza logica, poté fare a meno di questo?