Il 6 dicembre 1917, alle ore 9:04 e 35 secondi più approssimativamente 2 minuti, un oggetto non identificato sorvolò brevemente il cielo della Nuova Scozia canadese. Sibilando come il dardo di una balestra, gettò la sua ombra sul quartiere Richmond sito a ridosso dell’area portuale più importante del continente nordamericano, attraversando quindi l’intera penisola che costituisce la parte centrale dell’antistante città. Oltre le zone di Fairview e Clayton Park, fino al sottile braccio di mare che le separano dalla terra ferma, per andare ad infiggersi nel bel mezzo di una strada polverosa presso la periferia di Armdale, 3,2 Km più a meridione del suo punto di partenza. Un’asta affusolata di ferro nero. Se qualcuno avesse prestato attenzione, se soltanto una singola persona in tutto il vasto centro abitato fosse stata in grado di farlo durante quei drammatici momenti, questo fenomeno avrebbe suscitato, ancor prima che spavento, un senso latente di stupore. Poiché a un’analisi più approfondita, la vera natura di un simile dardo sarebbe apparsa fin troppo chiara: si trattava dell’asta centrale di un’àncora navale, prelevata in prossimità del canale dei Narrows e scagliata in una vertiginosa parabola, come per l’effetto della terribile furia di un gigante. Ma la gente di Halifax, in quel momento, era diversamente occupata. Per metà resa sorda (in maniera non sempre temporanea) a seguito di una delle deflagrazioni più terribili mai prodotti in prossimità di un centro abitato, e per l’altra metà intenta a scappare via dalle case, dagli uffici, dalle fabbriche, le cui pareti erano state letteralmente ripiegate verso l’interno, o semplicemente polverizzate, in una maniera che il mondo non avrebbe più avuto modo di conoscere fino al bombardamento americano di Hiroshima e Nagasaki. 1600 persone morirono istantaneamente. Altre 300 riportarono ferite abbastanza gravi da pregiudicare la loro sopravvivenza. Circa 5900 dei loro concittadini, in un raggio di 5 chilometri, che erano accorsi alle finestre per assistere al bagliore distante dell’incendio che aveva preceduto quel terribile istante, restarono colpiti dai vetri andati in frantumi, riportando danni di varia entità alla vista. 41 la persero in maniera permanente. Si stima che i danni riportati agli edifici, in un raggio di circa 3 chilometri, ammontarono all’equivalente attuale di 569 milioni di dollari, lasciando circa 25.000 persone senza una casa che potesse proteggerli dal resto del gelido inverno canadese.
In un primo momento, nessuno capì cosa fosse realmente successo. La voce serpeggiò insistente tra i sopravvissuti, che i tedeschi fossero in qualche modo riusciti a varcare l’Atlantico, per gettare un nuovo tipo di bomba sopra questo luogo strategicamente fondamentale, usato da Stati Uniti e Gran Bretagna per rifornire le loro navi prima del lungo viaggio fino alla Francia e il resto del Vecchio Continente. Una storia che parve tanto convincente, da dare inizio a diversi sforzi di evacuazione, mentre coloro che erano a conoscenza del verso svolgersi dei fatti, continuavano a scavare nel tentativo di salvare parenti, vicini ed amici semi-sepolti dalle macerie. Poiché la realtà era che la causa del disastro di Halifax, la maggiore esplosione prodotta dall’uomo fino a quel preciso momento della storia, era stata causata da un evento non ripetibile, ormai decorso nel luogo più drammatico della memoria. Poiché si era trattato di null’altro, che uno scontro tra due navi. Una delle quali, purtroppo, era la SS Mont Blanc. La peggiore. Fra tutte, quella deputata dalle forze armate francesi per andare a rifornirsi presso la città di New York, di un carico di TNT, acido picrico, benzolo e nitrocellulosa, la sostanza dall’alto potenziale esplosivo nota comunemente come fulmicotone. Ora, perché a un vascello tanto pericoloso in caso d’incidente fosse stato permesso di accedere al porto più interno della città è presto detto: verso la fine del 1917, all’apice della grande guerra, le navi di rifornimento intercontinentali avevano iniziato a subire i reiterati assalti degli U-Boat provenienti dalla Germania, costringendo le potenze alleate ad organizzare le spedizioni con il sistema dei convogli. Il che significava che uno di questi vascelli, prima di affrontare la traversata, doveva spesso sostare in un porto amico fino all’arrivo della scorta. Presso un luogo che fosse, senza la minima ombra di dubbio, del tutto sicuro. E Halifax aveva un primato in questo: la sottile via d’accesso al porto, ovvero lo stretto canale naturale tra la zona centrale e il distretto antistante di Darthmouth, era stata infatti protetta da una coppia di reti anti-sommergibili, che ogni sera venivano sollevate, impedendo nominalmente l’accesso a qualsivoglia ospite indesiderato. All’arrivo di una nave d’importanza logistica come la SS Mont Blanc, quindi, a nessuno sarebbe venuto in mente d’impedirgli l’accesso, lasciandola in balìa dell’eventuale e subdolo assalto nemico. Del resto, innumerevoli altre volte ciò era stato fatto senza alcun tipo di conseguenza…

La navigazione nel canale dei Narrows, largo poco meno di un quarto di miglio nel suo punto più stretto, non era propriamente un’impresa alla portata di tutti, avendo causato nella storia della città già diversi urti ed arenamenti. Ma la limitazione della velocità massima a 5 nodi, e l’obbligo di oltrepassare gli scafi provenienti in senso contrario a tribordo (ovvero, tenendo la destra) avevano da tempo prevenuto il verificarsi di nuovi incidenti. Se non che l’affermarsi di un senso di normalità, assieme all’abitudine reiterata, possono notoriamente abbassare la guardia dei capitani. E chi percorre un sentiero per troppe volte nel corso della sua vita, prima o poi, finisce per dare per scontati i propri fatali gesti. Fatto sta che quel giorno, in partenza dal porto di Halifax, c’era una nave che andava molto di fretta, e il suo nome era SS Imo. Si trattava di un mercantile a vapore battente bandiera norvegese, deputato nel contesto di guerra a prelevare da New York rifornimenti, per portarli fino alle truppe di stanza in Belgio. Le tempistiche erano essenziali. Se non che, il giorno precedente, le autorità portuali avevano tardato nel rifornire le sue stive di carbone per il resto del viaggio, impedendogli di ripartire prima del sollevamento delle reti anti-sommergibili. Così quella mattina il capitano Haakon From e i suoi 39 uomini erano partiti con l’intenzione di uscire il prima possibile dai Narrows, lasciandosi dietro ogni indugio per proseguire con la propria missione. Una volta imboccato lo stretto, tuttavia, la sgradita sorpresa: un mercantile americano, l’SS Clara, si trovava dal lato sbagliato del canale. I due equipaggi si scambiarono quindi i segnali di rito, accettando di superarsi vicendevolmente a babordo. L’incontro successivo con l’SS Stella Maris, una chiatta che viaggiava in posizione erroneamente centrale, portò quindi la Imo a spingersi ancor più contro il lato di Dartmouth. Inoltre la nave era vuota, poiché doveva ancora prelevare il carico, e stava andando troppo veloce. Fu allora che dinnanzi a se, si profilò lo scafo, molto più basso per via del carico, della nave di costruzione francese SS Mont Blanc, comandata da Aimé Le Médec e guidata dall’esperto pilota Francis Mackey. Le due sirene lanciarono il loro grido d’allarme, intimando alla controparte di lasciare il passo, ma era ormai troppo tardi. Il timoniere norvegese, John Johansen, riuscì all’ultimo momento a far deviare la sua nave, colpendo soltanto di striscio la murata della sua vittima, se non che all’ultimo momento, tentando di raddrizzare il timone, gli assestò un contraccolpo sufficiente a far rovesciare dei barili di carburante che si trovavano sul ponte. Naturalmente, all’inizio del secolo scorso le norme di sicurezza non erano articolate come quelle dell’epoca odierna. E le scintille causate dal metallo che strideva contro se stesso, ben presto, fecero il resto. Ora la parte superiore della nave carica di munizioni stava bruciando.
A bordo scoppiò il panico. L’equipaggio, in assenza di metodi adeguati per contrastare il rischio, o tempo sufficiente per avvisare gli altri, salì rapidamente a bordo delle scialuppe di salvataggio, dirigendosi verso la riva più distante della città. Molti di loro, effettivamente, riuscirono a trarsi in salvo. Navi provenienti dal porto, nel frattempo, si avvicinarono per tentare di spegnere il fuoco. Non che questo spostamento fece la benché minima differenza. Al momento dell’esplosione, il carico della Mont Blanc scoppiò con l’energia di circa 2,9 kilotoni, una potenza che sarebbe stata definita in seguito “circa un quinto di quella della bomba di Hiroshima”. Le conseguenze furono, come descritto in apertura, niente meno che devastanti.

L’esatto numero di decessi causati dall’esplosione di Halifax resta tutt’ora incerto. Per uno scherzo del destino, la sera di quello stesso giorno la Nuova Scozia fu colpita da una grave tormenta di neve, che ritardò l’arrivo dei soccorsi. Ciononostante il governo federale, ed il vicino stato del Massachusetts, furono rapidi nell’inviare tutto il personale di soccorso a disposizione, con una prontezza che ancora oggi troviamo difficile da emulare. Una scuola nell’area ovest della città fu deputata al ruolo di obitorio temporaneo, mentre uno sforzo spropositato venne messo in campo per recuperare ed identificare le vittime, sotto la guida del coroner Arthur S. Barnstead, figlio ed erede professionale di John Henry, l’uomo che aveva occupato la stessa posizione a seguito del tristemente famoso naufragio del Titanic, soltanto 5 anni prima. Fu ritenuto successivamente che dallo sforzo collettivo per assistere i numerosi feriti, in mezzo a un simile mare di macerie, sarebbero avanzati in modo particolare due campi precedentemente trascurati dalla medicina moderna: quello oftalmico e della pediatria. Oggi numerosi monumenti, tra cui uno costituito da quella stessa asta di àncora scagliata a miglia di distanza, ricordano in modo conciso l’evento, affinché le nuove generazioni non possano dimenticare l’esperienza che pesò così grandemente sulla vita dei loro sfortunati bisnonni.
Successivamente, vennero fatti molti tentativi di attribuire la responsabilità del disastro. Il primo accusato fu il timoniere della SS Imo John Johansen, che si ritenne potesse essere una spia proveniente dalla Germania. Questo perché tra i suoi averi fu scoperta una lettera scritta “in tedesco” prima che qualcuno di competente, finalmente, riuscisse ad identificare la lingua come norvegese. Quindi toccò a Le Médec e Mackey, accusati di non aver segnalato adeguatamente il pericolo costituito dal loro carico, nonché semplicemente, di essersi trovati in un luogo tanto vulnerabile all’eventuale deflagrazione. Entrambi furono processati di fronte al gran giurì, assieme a F. Evan Wyatt, il comandante canadese del porto che aveva dato il via libera all’SS Imo. Alla fine, tuttavia, furono assolti per mancanza di prove. Uno dei più terribili massacri causati dall’uomo nell’America settentrionale restò dunque privo di colpevoli, quasi fosse troppo terribile per attribuirlo a una sola persona.
Sarebbe bello poter dire che da quel momento, le norme comportamentali degli uomini di marina siano cambiate per sempre. Ed in qualche misura, forse, questo è anche vero. Ma la distrazione è un prodotto inevitabile della mente umana. Come immancabilmente testimoniato dalle nuove generazioni di nuovi, costosi e spesso evitabili disastri.