L’incredibile genoma del pesce elefante

Se c’è un lato positivo nel trascorrere la propria vita inseguendo una chimera, è che prima o poi potrebbe capitare di riuscire a prenderla. Ed allora, finalmente, si avrà chiara l’intenzione ultima della Natura. Considera, ad esempio, un pachiderma. Animale composito, nel senso che i suoi tratti rilevanti appaiono creati in modo casuale: una lunga proboscide serpentiforme, orecchie simili a dei radar della seconda guerra mondiale. Lunghe, appuntite zanne per difendere se stessi e il branco. Sarebbe difficile negare che se esiste un animale frutto degli esperimenti genetici degli antichi alieni… Dumbo, dopo tutto, ne è la prova: stranezza chiama stranezza. E una volta preso atto che un cucciolo in un circo può imparare, con l’aiuto dei disegnatori, a staccarsi dal suolo e fluttuare libero nell’aria, cosa accadrebbe qualora il suo DNA secondario derivasse, invece, da uno squalo di 70-120 cm di lunghezza? Ancora più improbabile? Tutt’altro. Siamo adesso, a dire il vero, dentro il regno della pura e semplice realtà. E vi dirò di più: persino la nostra discendenza umana, in un senso tutt’altro che astratto, deriva dall’identico (o quasi) antenato del genus Callorhinchus, ordine chimeriformi, fossile vivente e a dire il vero, il singolo animale più primitivo che ancora nuoti, strisci, barrisca o voli tra le lande dell’azzurro pianeta nostrano. Celacanto incluso. Rispetto a noi che abbiamo, nel nostro codice genetico, circa 3,2 miliardi di basi, lui ne vanta poco meno di uno. È il più corto dell’intero regno vertebrato. Persino meno esteso di taluni vegetali. E questo non tanto per una questione di semplicità generativa, quanto per un aspetto particolarmente rilevante della sua posizione nell’alto albero della vita: il callorinco, come viene generalmente italianizzato il nome, non si è mai effettivamente evoluto, restando a costituire in chiari termini il più antico degli Gnatostomi, ovvero gli animali dotati di mascella per facilitare l’assunzione del cibo. Vi ricorda nulla? Benché tale strumento sia sensibilmente diverso dal nostro ausilio alla masticazione o quello dei suoi parenti più prossimi, gli squali, in quanto saldata in modo rigido al cranio. Ragione per cui, al fine di svolgere la propria funzione determinante, la bocca di questo pesce cartilagineo (condroitto) è fornita di una particolare appendice carnosa, che è poi l’origine del suo particolare nome: spesso definita una proboscide, benché assomigli a tutti gli effetti a qualcosa d’altro. Ovvero, fra tutti gli oggetti, il vòmere, ovvero la parte anteriore dell’aratro, concepita per rovesciare e dissestare il suolo. Qualcosa che, nei secoli, si è adattato a fare pure il callorinco.
I pesci elefante, o pesce gallo come usano chiamarli in Sudamerica, uno dei loro tre territori di provenienza, risultano infatti troppo lenti per riuscire a catturare i loro distanti cugini, i pesci dotati di scheletro osseo, mentre fluttuano con le loro ampie pinne pettorali simili ad ali, preferendogli quindi come pasto quotidiano i molluschi presi a largo della costa, i granchi e gli altri piccoli organismi che riescono a trovare presso i loro fondali preferiti, alla profondità di 200 metri o più. Nel “Dizionario pittoresco della storia naturale e delle manifatture” del 1840, un testo in italiano basato sui viaggi e le ricerche del celebre biologo naturale francese Félix Édouard Guérin-Méneville, si parla brevemente di questi pesci, erroneamente inseriti tra gli sturionidi e dei quali si dice esista una singola specie, che abita in maniera generica nel vasto ambiente dei “mari meridionali”. Oggi, invece, ne vengono generalmente riconosciute tre, rispettivamente abitanti presso le coste del Brasile, Uruguay, Argentina, Cile e Perù (Callorhinchus callorynchus); Africa meridionale (Callorhinchus capensis) ed Australia, Tasmania e Nuova Zelanda (Callorhinchus milii) dove viene generalmente associato alla figura piuttosto spettrale dello “squalo fantasma”, generalmente qualche chimeride delle ancor più estreme profondità. Benché la protuberanza carnosa usata per nutrirsi dimostri chiaramente l’appartenenza a questa specifica genìa. Per non parlare delle abitudini e il particolare stile di vita…

Il pesce elefante viene considerato rilevante per la pesca in tutti e tre gli habitat geografici, e la sua carne dal gusto rinomato. Il pescatore dovrà tuttavia prestare massima attenzione, nel momento della cattura, alla spina velenosa collocata a ridosso sulla prima pinna dorsale.

Se c’è una massima sfortuna per tali insoliti esseri, è a tal proposito la loro prassi riproduttiva, che prevede successivamente alla fecondazione, un viaggio delle femmine fino ai fondali in prossimità della riva, dove deporranno le loro caratteristiche sacche delle uova. Momento in cui, il più delle volte, cadono facilmente vittima dei pescatori più o meno amatoriali, per i quali tale pesce viene considerato una cattura pregiata dalle carni, generalmente paragonate a quelle della gallinella di mare (Chelidonichthys lucerna) talmente simili che alcune pescherie prive di scrupoli tendono a farle passare per queste ultime, con un più considerevole guadagno. Mentre il callorinco, per le sue implicite caratteristiche, è un essere degli abissi tutt’altro che raro o alcunché di speciale, rientrando, in tutti e tre gli areali, tra i pesci catturati più di frequente con le reti a strascico e serviti sulle tavole senza alcun accenno di rimorso. Benché negli ultimi tempi, finalmente, stia iniziando a materializzarsi il primo accenno di un programma internazionale di conservazione.
Il momento della riproduzione è effettivamente simile a quello degli squali: il maschio si avvicina alla femmina e l’afferra coi suoi pterigopodi (o claspers) organi preposti all’incanalamento dei gameti riproduttivi nella cloaca della sua consorte. La quale, una volta pronta, deporrà una grande ootecha cuoiosa semi-rigida, lunga e piatta come un astuccio. Con all’interno in media 8 uova distinte, nelle quali i piccoli dovranno vivere per un periodo di 8 mesi, durante i quali si nutriranno delle sostanze commestibili contenute all’interno, finché non saranno pronti a fuoriuscire da un’apposita via di fuga, nuotando istintivamente verso acque più profonde. Il pesce elefante non ha, del resto, alcuno strumento difensivo rivolto ai predatori, neppure i denticoli dermali che ricoprono la pelle degli squali, rendendola impervia agli assalti dei loro nemici. Né gli stessi denti del pesce, larghi e piatti per una più efficiente masticazione, risultano effettivamente adatti ad attaccare piuttosto che fungere da arma di autodifesa. Tra tutti gli squali, il callorinco resta dunque indubbiamente il più pacifico, completamente privo di istinti predatori. A meno di essere un mollusco o un gambero intento ad avventurarsi sui fondali, facilmente tracciato grazie alla presenza nella “proboscide” degli organi noti come ampolle di Lorenzini, strumenti in grado di rilevare il campo elettrico delle più piccole forme di vita.
A partire dal gennaio del 2014, la rivista Nature ha suscitato con un suo articolo l’interesse per il Progetto del Genoma dello Squalo Elefante, mirato a sequenziare le caratteristiche genetiche di questa creatura, potenzialmente utili a comprendere l’origine stessa del vasto ambito dei vertebrati. Recenti esperimenti hanno infatti dimostrato come lo scheletro cartilagineo dei pesci condroitti, tra cui tutte le chimere, sia in realtà la risultanza dell’assenza di un singolo gene capace di trasformare la cartilagine in osso, emerso all’incirca 450 milioni di anni fa. Essi potrebbero rappresentare, dunque, gli antenati di quasi tutti gli esseri che oggi percorrono la superficie  di questo pianeta. Lo stesso sistema immunitario dei pesci elefanti risulta degno di nota, poiché si trova a metà strada tra quello degli esseri più primitivi e la specifica modalità adattiva del nostro, capace di reagire in maniera procedurale alle minacce microbiche e virali. È perciò indubbio che un loro studio più approfondito potrebbe, un giorno, portare a conclusioni rilevanti nel campo della medicina.

Con la sua forma strana e tutt’altro che idrodinamica, il callorinco possiede un fascino esteriore che potremmo definire del tutto suo. Una qualità che se vogliamo, si estende anche al suo embrione rossastro, dai fitti capillari che assomigliano ad altrettanti capelli trattati con l’elettricità statica di un’anguilla.

La stessa definizione del concetto di mostro, oppure chimera, non può che essere, in ultima analisi, del tutto soggettiva. Un cucciolo di elefante in grado di staccarsi dal suolo e perlustrare i cieli non è propriamente qualcosa che si riesca scorgere successivamente ad ogni sorgere del Sole. Tanto meno ciò avviene laggiù, dove l’astro principale del cielo non può neppure far giungere i suoi raggi, tra gli arredi viventi di una sala da ballo remota, dove ogni singolo gesto è attentamente cadenzato, per risparmiare le sempre più preziose energie. Dumbo, col suo ottimismo non ancora piegato dalla selezione naturale, tutto questo l’avrebbe istintivamente capito. Ed avrebbe continuato a far oscillare le sue orecchie, finché non fossero diventate pari alle ali di una possente manta, forse la più affascinante delle chimere abissali.
Ma sapete qual’è davvero il punto? Tutto ciò si è davvero verificato, però in senso esattamente contrario. E noi ne siamo, fra tutti gli esseri dotati di mascella, la più lampante delle prove. Chissà quando decideremo, finalmente, di ripagare un tale debito privo di confini…

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