A San Pietroburgo, dentro al palazzo del ‘700 di Naryshkin-Shuvalov, inizialmente progettato dall’architetto italiano Giacomo Guarenghi per quella che sarebbe diventata una delle amanti di Alessandro I di Russia (1777-1825) dal 2013 si trovano nove degli oggetti più incredibili nell’intera storia dell’umanità. Che non possono definirsi rari, semplicemente perché sono unici, per l’abilità, la scelta segreta dei metodi e lo specifico volere di colui che li creò, nonché in forza del contesto completamente irripetibile che poté permettere la loro straordinaria concezione. Sono davvero pochi, al giorno d’oggi, a non conoscere la storia quasi leggendaria delle uova di Fabergé, nate dall’incontro di un gusto estetico che sarebbe impossibile non definire, a pieno titolo, Barocco, con l’inesauribile pool di risorse, tecnologiche e procedurali, offerte dalle prime propaggini tentacolari della modernità. Quando il celebre gioielliere con madre danese e padre tedesco Peter Carl Fabergé realizzò per la prima volta, su richiesta del 1885 del penultimo zar di Russia Alessandro III, un ineccepibile regalo di Pasqua per la sua amata moglie Marija Fëdorovna, lo fece nelle sue vesti del più prestigioso fornitore ufficiale della casa reale. Una posizione che dava diritto a numerosi vantaggi economici e di status professionale, tali da garantire che ogni minimo dettaglio dell’oggetto fosse realizzato con un’attenzione ai particolari totalmente priva di precedenti. La costruzione di un singolo uovo della lunga serie che sarebbe iniziata così, secondo quanto ci è dato di sapere, poteva in effetti richiedere molte settimane o mesi, al punto che alcuni dei migliori richiesero, secondo fonti ufficiali, l’intero anno a seguire dal momento in cui fu consegnato l’uovo precedente. E sarebbe forse un’esagerazione giungere a definire, tali dimostrazioni di sfarzo ed opulenza, come un segno preliminare dell’incipiente globalizzazione. Ma è anche vero che per costruire i suoi pezzi più celebrati, Fabergé importò materiali da mezza Europa, rivolgendosi ad esempio in Svizzera per i meccanismi, e fino ai paesi scandinavi per trovare dei pittori degni di realizzare le miniature che talvolta venivano incluse nel pezzo. Sfruttando quel sistema d’internazionalizzazione dei commerci che era stato costruito e mantenuto efficiente, nei lunghi secoli precedenti, proprio da quella classe dirigente di cui facevano parte i Romanov, ormai percepita come totalmente slegata dal concetto del vivere comune. E naturalmente, questi oggetti ci affascinano e colpiscono la nostra fantasia! Dove mai, prima d’allora, sarebbe stato possibile trovare una concentrazione simile di spunti drammatici e persino risvolti fiabeschi, alimentati, piuttosto che annientati come sarebbe dovuto succedere nell’idea dei Bolscevichi, dalla tragica fine a cui andò incontro questa intera famiglia…
Così oggi, due secoli dopo, è possibile fare il proprio ingresso dal portone principale di questo edificio neoclassico, sito sul fiume Fontanka nel centro della seconda città di Russia ed ammirare fra gli altri un uovo. L’Uovo. Il primo di tutti, alto 64 mm ovvero poco più di quello di una gallina, che appare perfettamente bianco ma è in realtà d’oro smaltato. Il quale poteva essere aperto, per rivelare al suo interno una sfera rappresentante il tuorlo, gialla e splendente come si confà a quello stesso metallo in cui era stato realizzato. Ma le meraviglie di questa ragionevole approssimazione della realtà aviaria non finivano certamente qui: aprendo tale forma infatti, sotto gli occhi della zarina si sarebbe palesata una scatola a forma di gallina, con al suo interno un gioiello che oggi è andato perduto, probabilmente una spilla o degli orecchini. Perché fu sostanzialmente questa, l’unica regola imposta dallo zar al suo gioielliere: che le sue opere contenessero sempre, come si confà alla tradizione pasquale, un qualche elemento totalmente imprevisto e sorprendente. E l’idea ebbe un tale successo che da quel momento, i laboratori di Fabergé non smisero mai di produrre delle nuove versioni dell’idea, sia ad uso e consumo della nobiltà che, annualmente, su specifica richiesta del regnante zar. Una prassi mantenuta viva anche dal suo figlio primogenito Nicola II, che regnò a partire dal 1894, per la morte imprevista di Alessandro III sopraggiunta all’età di soli 49 anni. Con una significativa differenza: a partire da quel momento, le uova annuali furono due, una per la madre Marija e l’altra per sua moglie, Aleksandra Fëdorovna Romanova. Da lì, insomma, iniziò un crescendo…
Nove uova, dunque, messe a pochi metri di distanza, in una concentrazione quasi senza precedenti, superata soltanto di un pezzo da quella dell’armeria del Cremlino dove lo Stato ne custodisce 10, sottratte e recuperate a loro tempo durante il saccheggiamento delle residenze dei Romanov, avvenuta a sèguito della grande rivoluzione russa del 1917. Ma è noto, e spesso ripetuto, come il grosso di simili tesori fu segretamente spedito all’estero dietro notevoli compensi quando non proprio venduto, con tanto di sanzione ufficiale, dagli stessi dirigenti della nuova epoca, germogliata nel mezzo di tali e tante macerie. E il contenuto di un simile straordinario museo non fa certamente eccezione: tutte le uova ivi contenute, infatti, provengono in realtà dalla collezione privata che fu un tempo di proprietà dei Forbes, la famiglia degli editori statunitensi della prima metà del ‘900, ricomprata in blocco con una singola offerta di 100 milioni di dollari dal magnate e presidente d’azienda di origini ucraine Viktor Vekselberg, poi diventato la quarta persona più ricca della Russia (stiamo parlando, per essere chiari, di un patrimonio di oltre 13 miliardi di dollari). Personaggio a capo del Renova Group, un conglomerato d’aziende che collaborano da lungo tempo col governo russo, per contribuire a modernizzare il paese. E che per sua passione e predisposizione personale, negli ultimi anni ha intrapreso una crociata a suon di offerte pluri-milionarie per riportare le opere d’arte russe all’interno del suo paese d’adozione. Nel 2006, fu lui a pagare circa un milione di dollari per sostituire le campane presenti in un edificio dell’università di Harvard, provenienti da un monastero moscovita e comprate negli anni ’30 da un imprenditore americano, premurandosi che fossero finalmente riportate al loro luogo di appartenenza. E fu nuovamente lui, nel 2012, a fare causa e vincere contro la prestigiosa casa d’aste Christie’s, per avergli venduto 7 anni prima un dipinto presumibilmente del maestro russo Boris Kustodiev, che si era nel frattempo rivelato essere un falso. Mentre le uova imperiali, il suo acquisto più significativo, restano sostanzialmente impossibili da imitare;
E la ragione è presto detta: chi mai potrebbe riprodurre un simile grado di perizia realizzativa? Il secondo uovo in ordine cronologico custodito nel museo è quello del Rinascimento (1894) ancora appartenente alla selezione commissionata da Alessandro III. Si tratta di uno squisito contenitore in vetro, al cui interno si sarebbe trovata, secondo la teoria più accreditata, una collana di perle. Con l’uovo successivo, purtroppo non mostrato nel nostro video iniziale, si passa invece alla selezione di quelli fatti costruire dal figlio Nicola II per farne dono alla moglie Aleksandra. Era sostanzialmente una bomboniera rossa, con dentro una scatola a forma di Bocciolo di Rosa (che da per l’appunto il nome al pezzo, risalente al 1895) nella quale furono fatti trovare, all’epoca, una coroncina con diamanti e rubini e un pendente con cabochon. Ma è al terzo uovo del museo che le cose iniziano a farsi davvero spettacolari: si tratta infatti del primo in grado di dimostrare un significato altamente simbolico ed in un certo senso pubblico, piuttosto che privato. Stiamo parlando dell’uovo dell’Incoronazione (1897) concepito per commemorare la salita al trono della nuova coppia reale, con un’incredibile guscio d’oro lavorato a ghiglioscé, sotto il quale era nascosta una sorpresa assolutamente inimmaginabile: la fedele ricostruzione in scala, d’oro e pienamente funzionante, della carrozza usata durante l’evento, una vettura originariamente appartenente alla grande imperatrice Caterina II. Altro pezzo davvero indimenticabile, risalente al 1898 è l’uovo dei mughetti, un vero e proprio florilegio con al suo interno un meccanismo in grado di far emergere a comando il ritratto del marito e delle figlie maggiori della zarina. Simili produzioni sarebbero state l’impronta da seguire per quelle degli anni successivi, sempre più complesse dal punto di vista tecnologico ed in qualche maniera rappresentative degli eventi correnti, fossero questi l’inaugurazione della Transiberiana, le battaglie di Nicola II durante la prima guerra mondiale o l’opera della sua moglie e figlie, che all’epoca lavorarono come crocerossine.
Come è noto, Nicola II ebbe un unico figlio maschio, che soffriva di emofilia B. Una malattia generalmente letale per l’epoca in giovane età, che tuttavia permise al ragazzo di sopravvivere fino ai suoi 14 anni, quando fu purtroppo assassinato dalla polizia segreta dei Bolscevichi. La sua tragica vicenda fu estremamente famosa all’epoca, soprattutto per la lunga partecipazione diretta, nel ruolo di presunto guaritore sovrannaturale e consigliere, della figura del mistico Grigorij Efimovič Rasputin, personaggio a sua volta sopravvissuto a svariati attentati (si diceva che fosse, addirittura, immortale!) Era il 1918 e simili eventi, progressivamente, resero chiaro quale fosse il futuro del paese e dei suoi regnanti. Il popolo sapeva ciò che voleva, mentre persino i più efferati crimini apparivano, in qualche strano modo, pienamente giustificati. Nella notte tra il 16 e il 17 luglio, dunque, l’intera famiglia superstite dei Romanov fu giustiziata dall’Armata Rossa, esclusa la regina vedova Marija, che era stata mandata in salvo in Crimea, e da lì a Copenaghen. Nel frattempo il gioielliere Fabergè era fuggito in Svizzera dove morì nel 1920, all’età di 74 anni. L’epoca degli zar e della loro sconfinata ricchezza, che aveva permesso la creazione di tali magnifiche uova d’oro dalle sorprese stravaganti, non sarebbe tornata mai più.
Ma non è forse, addirittura, meglio così? Se i giganteschi uccelli della Preistoria ancora volassero sulla Terra, nessuno potrebbe speculare sulla loro forma e l’ombra che essi proiettavano al suolo. Un pulcino che si trasforma in gallina è comune, persino banale. Soprattutto rispetto a un pennuto che è stato congelato nel tuorlo trovandosi a diventare, suo malgrado, leggenda.