Come nel romanzo epico delle Isole scritto da Michener nel ’59, la capostipite raggiunse le pendici del Mauna Kea hawaiano armata dei suoi metodi, le sue prerogative, nient’altro che le ottime speranze possedute da un semplice seme. Una semplice asteracea in fieri, del tipo che cresceva all’epoca più che altro nei campi di catrame della California, in qualche modo riuscita ad aggrapparsi rimanendo intrappolata tra le piume di un uccello migratore. Forse un piviere (Pluvialis Fulva) o magari una berta dell’Oceano (Puffinus spp.) che giunti oltre i confini di queste remote coste, se ne liberarono là sopra, lasciandola cadere sulla terra scarna e priva di bacini idrici degni di nota. Eppure senza acqua preminente, una pianta può riuscire a sopravvivere, se le sostanze nutritive sono sufficienti. E così quell’ancestrale pianta erbacea riuscì a creare almeno un fiore prima di tornare al grande vuoto della non-esistenza. Ben presto seguìto dall’essenziale capsula dei semi. Molti furono i millenni necessari, per non dire eoni, affinché i discendenti di una tale esploratrice raggiungessero lo stato necessario a prosperare in quell’ambiente. Favorendo alcuni tratti a discapito di altri, per dare i natali ad una delle piante più notevoli ed atipiche di questo intero bioma e del mondo. Sarà opportuno, a questo punto, esplicitare i fatti: c’è soltanto un luogo dove cresce l’effettiva Argyroxiphium sandwicense, ed un altro per la sua cugina A. kauense. E così via a seguire, per ciascuna placida depositaria della cosiddetta alleanza delle Silversword (Spade d’Argento), egualmente collegate a stretto giro a una specifica colata lavica, completa di un particolare gradiente, circostanze climatiche, direzione del vento. Ponendoci di fronte a pieno titolo a quello che potremmo definire come l’apogeo dell’endemismo: esseri viventi senza termini di paragoni, rari e inconfondibili. Letteralmente inesistenti altrove.
E quale splendido spettacolo doveva essere stato, negli anni ormai remoti della sua abbondanza, una macchia di queste rappresentati locali della genìa dei girasole, carciofi e margherite, famosamente descritta dalla scrittrice e viaggiatrice Isabella Bird nel 1890 come “Personificazione dell’inverno o della luce lunare”, prima che i risvolti progressivi delle condizioni contestuali si trovassero a contribuire ad un’accentuazione del successivo secolo di privazioni. Poiché vedete, lo stesso punto chiave di una pianta simile, il suo pretesto necessario all’esistenza, è la totale mancanza di erbivori affamati all’interno del proprio areale di riferimento. Una condizione destinata a scomparire con l’espandersi dei territori dedicati alla pastorizia, alture dove capre, pecore e bovini erano lasciati pascolare senza limiti. Senza contare il più terribile pericolo di tutti: il turista in cerca di esperienze da inserire nel taccuino della sua memoria…
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Riecheggia nuovamente, magnifico tamburo che avvisava del pericolo i villaggi della Costa d’Avorio
Soldati in equipaggiamento europeo dell’inizio del XX secolo che s’inoltrano entro una macchia di vegetazione densa di ombre e prospettive poco chiare. Convinti di poter sorprendere, grazie ad un’accurata pianificazione strategica, i capi della ribellione che ormai da svariate settimane impediva ai rifornimenti di raggiungere le fattorie dell’entroterra dietro i posti di guardia sui confini di Adjamé, la laguna costiera scelta per sfuggire al clima arido, le malattie e le belve del difficile territorio nordafricano. Quando il capitano francese della spedizione, facendo un cenno agli uomini di fermarsi a lato del sentiero, si protende ad ascoltare un suono trasportato dal vento. Come un ritmo stranamente meccanico ed irrituale, ovvero la lamentazione di una mistica creatura risvegliata. E allora tutti seppero che il loro intento era fallito. Poiché dall’altro lato della foresta, sollevandosi in maniera graduale, un secondo suono simile iniziava a riprodurre l’articolata risposta. Tutti ormai sapevano del loro arrivo. Il villaggio dei nativi, al termine di quella lunga marcia, li avrebbe accolti con musica, una festa ed abbondanti libagioni. Ma nessun colpevole da riportare nelle avulse prigioni…
Il problema principale del colonialismo è che il suo il suo funzionamento implicito non tollera, dal punto di vista di chi costruisce gli insediamenti, l’incontro e commistione di sistemi sociali contrastanti. In un capovolgimento storico di quell’integrazione tanto spesso evocata, al giorno d’oggi, nel commentare e limitare il verificarsi dei flussi di migrazione che non hanno mai cessato di operare al susseguirsi dei fattori della civilizzazione vigente. Così che il supposto “pentimento” dei grandi poteri dell’Occidente, col trascorrere dei secoli, si è trasformato in utile strumento con cui chiedere a popolazioni strategicamente in minoranza di “dimenticare” ciò che un tempo erano, annichilendo in modo molto pratico le differenze. Ma se invero dovrebbe essere la geografia, intesa come appartenenza storica di un popolo ad un luogo, a determinare il fato di costoro e i loro discendenti, perché un simile approccio non si applica anche alle cose che costituiscono la loro eredità tangibile, un potente filo di collegamento tra l’antico e il moderno? Se c’è stato un pentimento, perché non restituire ai popoli diseredati, quanto meno, i loro perduti tesori?
Si trattò di un importante punto di svolta, nella storia condivisa tra la Francia e i territori un tempo dominati sotto il suo vessillo nel vasto continente africano, quando l’attuale presidente Emmanuel Macron pronunciò il discorso del 28 novembre 2017 a Ouagadougou, in Burkina Faso, chiedendo scusa per la prima volta in merito a ciò che un tempo si era verificato. E promettendo di operare politicamente in modo concreto al fine di rimediare, nella misura in cui era possibile, agli strascichi di quel periodo storico di crudeltà e disuguaglianze. Cominciando con la compilazione del cosiddetto memoriale di Sarr-Savoy, una lista di alcune decine di opere d’arte africane (tra le oltre 90.000 possedute dai musei francesi) ai loro luoghi originari di provenienza. Una decisione che oggi, dopo molti ritardi di natura logistica ed amministrativa, sta iniziando finalmente a trovare margini concreti d’implementazione situazionale…
Guidando nel Guizhou: le stalattiti sull’asfalto ci accompagneranno all’altro lato della montagna
Manifestazione notturna di una delle paure ataviche dell’uomo, è l’incubo di chiunque abbia mai praticato anche soltanto una volta la nobile arte amatoriale della speleologia: trovarsi all’improvviso, senza una ragione registrata a chiare lettere nella memoria, all’interno di un pertugio obliquo da cui liberarsi manca di sembrare facile, o scontato. Apogeo della temuta circostanza, in cui non si può andare avanti e neanche indietro, con tutto il peso del massiccio che minaccia di schiacciare il nostro stesso senso della ragionevole coerenza situazionale. Prendete come termine di paragone, adesso, il caso molto più mondano di essere alla guida e non poter tornare facilmente nella vostra dimora. Bloccati nel traffico, oppure vittime di un sostanziale restringimento della viabilità, o ancora condotti fuori strada da un navigatore che ha dimenticato il volto stesso del suo creatore. Presso luoghi dove tendono a convergere, in maniera non del tutto prevedibile, i due punti estremi dello spettro fin qui delineato, frapponendo un tipo di esperienza notevole ma non del tutto raccomandabile per chi soffra di claustrofobia e/o crisi di panico alla guida. Circostanza videografica del tipo replicato molte volte online, con il tipico profilo di un contenuto virale per Facebook, Instagram, Tiktok e le molteplici alternative non altrettanto famose, osservate per comparazione la notevole sequenza in prima persona di questo singolare attraversamento. Dove l’apertura dall’aspetto totalmente naturale, nel fianco di un rilievo collinare ricoperto di vegetazione, lascia presto il passo ad una vera galleria del tutto percorribile senza lasciare la presa sul volante del proprio fidato mezzo di trasporto su ruote. Un tunnel stradale, da ogni punto di vista rilevante, ma di un tipo che potrebbe non avere termini di paragone nell’intera storia della viabilità antica e moderna. Giacché nulla è stato fatto, nella casistica di chiara pertinenza, per dare uniformità alle adiacenti pareti né coprire con il tipico soffitto ad arco la carreggiata. Il che restituisce l’esperienza incomparabile di stare percorrendo l’antico paesaggio di una caverna carsica, così come la natura stessa ne aveva lungamente scolpito l’estensiva cavità mediante gli acidi presenti nelle infiltrazioni idriche venute dalla superficie. Il che non sarebbe stato poi così lontano dalla verità almeno fino all’anno 2021, quando quasi l’intera collettività di 238 persone del villaggio rurale di Baigong, nella contea di Changshun, provincia di Guizhou ebbe la ragione e il chiaro intento d’imbarcarsi in un progetto collettivo: l’allargamento sistematico del varco in questione, storicamente “percorribile soltanto da cani e gatti” affinché fossero da quel saliente momento gli automezzi e motocicli, a poterlo iscrivere tra i distretti adibiti al transito della propria veicolare esistenza. Così da trasformare l’ora abbondante di tragitto lungo tortuose strade di montagna in appena 10 minuti per passare da un lato all’altro della massiccia barriera paesaggistica. Un significativo quanto apprezzabile margine di miglioramento…
L’antica capitale nella giungla diventata il regno dei macachi dello Sri Lanka
In nessun luogo come lo Sri Lanka, la storia degli insediamenti umani può essere desunta dalla costruzione dei sistemi d’irrigazione. Isola tropicale dal clima caldo per l’intero estendersi dell’anno, fatta eccezione per alcuni limitati territori dell’entroterra, venne a un certo punto determinato dai suoi abitanti che per trarre il massimo dal suolo fecondo, l’unico sentiero percorribile consisteva nello scavo di ampi serbatoi e lunghi canali strategicamente dislocati ai margini della vegetazione selvaggia. A partire dalla parte settentrionale e lungo l’intero estendersi di quelle coste con la forma di una goccia sul profilo dell’Oceano Indiano, per seguire quindi l’andamento della colonizzazione verso sud e fino ai centri urbani di Colombo e Kandy, entrambi destinati a diventare capitali politiche e amministrative di quel paese. Cinque secoli prima dell’arrivo dei Portoghesi, tuttavia, questi luoghi sopravvivevano sotto il giogo di un’occupazione straniera, quella delle forze imperiali dei Chola provenienti dall’India, che avevano spodestato il predominio dell’originale regno di Anurādhapura, fondato nel remoto 377 a.C. Che per tredici secoli aveva dominato, senza significative interruzioni, finché in seguito alla conquista ed al saccheggio dei propri principali centri amministrativi a cavallo dell’anno mille, non avrebbe visto seguire un lungo periodo di sottomissione alle autorità nemiche, destinate a dominare incontrastate le genti cingalesi. Situazione destinata a terminare quando dalla fortezza decentrata di Dambadeniya, il condottiero Vijayabahu I discese nel 1055 vincendo una serie di tre importanti battaglie, culminanti con la conquista dell’insediamento amministrativo di Polonnaruwa, punto di convergenza d’innumerevoli rotte commerciali ed infrastrutture civili. Il che l’avrebbe portato a confermarsi, nelle lunghe generazioni a venire, come luogo di residenza della nuova dinastia dominante sull’isola, portatrice di un’Età dell’Oro da molti punti di vista totalmente priva di precedenti.
Furono per poco tempo il fratello e successivamente il figlio di Vijayabahu, dunque, a contendersi per qualche tempo il regno destinato poi a passare sotto il controllo del nipote del principe di Vijayabahu, il signore della regione di Dakkhinadesa destinato a passare alla storia come Parakramabahu I il Grande. Sovrano illuminato, riformatore, il cui regno della durata di oltre 40 anni avrebbe visto la costruzione di molte opere monumentali inclusa la larga parte delle meraviglie che ancora oggi, tra scorci di natura selvaggia non totalmente sotto il controllo dei giardinieri, è possibile ammirare attorno ai siti della sua antica dimora. Polonnaruwa per come si presenta oggi costituisce, in effetti, uno dei luoghi di maggior fascino dell’isola che non tutti si prendono la briga di visitare, in parte per la sua collocazione relativamente remota e potenzialmente, per la poca affinità nei confronti degli animali. Ormai diventato la perfetta residenza per una comunità dalle dimensioni significative, dei circa 5 milioni di macachi dal berretto che vivono a fianco degli umani nella popolosa isola dello Sri Lanka…