L’arte dello slittino che percorre il filo del disegno

Linerider

Line Rider è il semplice trastullo internettiano che consente nel tracciare una linea in mezzo al vuoto cosmico dimenticato. E quindi, premendo play, di diventare Bosh. Chi è Bosh? Un bambino stilizzato (forse) col cappello di lana e la sciarpa a strisce rosse, nato con il compito di scivolare, verso il basso, sempre più veloce, grazie all’impiego di un piccolo slittino. Senza nessuna possibilità di premere sul freno, ma soltanto di schiantarsi, alla fine, con roboante rotolata verso la totale dannazione. Si tratta di un vero classico dell’era ludica moderna, pubblicato nel settembre del 2006 per l’opera di Boštjan Čadež, studente svedese. Ringraziamolo, ancora una volta. Perché ha la caratteristica invidiabile, questo suo ammasso di bytes, di poter funzionare direttamente nella finestra di un quasi qualsiasi browser, grazie all’impiego dell’ormai bistrattata tecnologia Flash. Un tempo fondamento stesso dell’architettura grafica del web, mai bloccata dalle aziende né filtrata dai severi server di blacklisting. Nulla da installare, nessun segno immanente dell’esecuzione del “programma”, dunque, se non nella mente rigenerata dal piacere dello svago. Allora pronti, via! Chissà quanti manager annoiati, tra le mura di un luminoso ufficio, in attesa di nuove opportunità di mettersi all’opera nei loro rispettivi campi, si sono invece cimentati in questo, della mano che calibra il percorso di una tale linea, attentamente misurato perché il protagonista possa dirsi vittorioso, in qualche modo…E chissà quanti commessi, impiegati, grafici e programmatori, ci hanno perso ore, minuti e intramontabili secondi… L’avventura di Bosh è chiara e coinvolgente. Sarebbe difficile non immedesimarsi. Soprattutto avendo l’occasione di osservare, dall’inizio alla fine, strepitosi video come questi. La cosiddetta community di un videogioco, a ben pensarci, è un concetto assai recente. Prima delle imageboard, dei forum autogestiti e dei subreddit, la gente con la stessa passione interattiva s’incontrava per discutere soltanto sui lidi del tutto incolori di Usenet (i famosi newsgroups) o in alternativa, qualche rara volta, faccia a faccia. Ciò rendeva incredibilmente inconsuete, quasi leggendarie, le figure di quegli individui che riuscivano a produrre l’arte, per il tramite dei videogiochi altrui. Ci sono molti validi esempi. Le bizantine basi spaziali costruite dagli utenti con l’editor di Doom (1993) fatte circolare sulle BBS, poi raccolte in pantagruelici CD, rari pezzi da collezionismo. O ancora il sofisticato editor di mappe di Duke Nukem 3D (gennaio 1996) con il quale noi, tastiera e ambizioso mouse alla mano, tentavamo di ricostruire gli ambienti familiari della nostra adolescenza, come la casa natìa, la scuola e il ponte di comando della nave spaziale Enterprise. Per non parlare di Warcraft II (aprile 1996) il primo gioco di strategia fornito di un vero e proprio strumento creativo, funzionante su Windows, con tanto d’interfaccia non così dissimile dal coévo Photoshop – fu forse proprio quello, chi può dirlo, il punto di partenza d’innumerevoli carriere?!
C’è stato un momento, soltanto un attimo glorioso, in cui sembrava che le grandi software house, con il proseguire delle generazioni, si sarebbero affidate alla loro risorsa più importante, i giocatori, per prolungare l’interesse nel tempo delle loro vaste produzioni. Finché non si capì che sarebbe stato meglio vendere la stessa cosa l’anno dopo, ancora e poi di nuovo.

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Quanto costa un gioco nato da 14 anni di lavoro?

Tobiasgame

Assolutamente… Potrebbe definirsi il fondamento stesso dell’immaginifico di stampo tolkeniano: “Un antico male si risveglia” sta alla fantasy moderna, come il “C’era una volta” aveva corrisposto ai classici dei celebri fratelli Grimm. Entrambe le alternative letterarie, ciascuna a suo modo, hanno da sempre costruito un piano prospettico temporale prolungato, pensato per donare rilevanza all’avventura. Ma mentre l’antefatto della fiaba si accontentava di allontanare dal quotidiano il punto di partenza, colpendo soprattutto un pubblico compiacente di bambini, l’altra cupa controparte… È decisamente carica di sottintesi. Nonché terribili preoccupazioni, perché verrà da chiedersi, ad alcuni: “Un antico male? E chi lo rimetterà a dormire? Di sicuro, non io”. Direi che fosse proprio questo il nesso dell’impresa, alla fine. Stabilire le regole di un grande gioco. Vade retroMammòna: questa fronte suda senza guadagnare. Nulla!
Da queste nubi temporalesche prese forma Tobias and the Dark Sceptres (notare la grafia britannica, laddove in America si sarebbe scritto Dark Scepters) l’opera maestra di Adam Butcher, una poliedrica avventura pixelgrafica tra terre di tormento e mostri torreggianti, da viversi nei panni di un curioso personaggio in giubba verde, liberamente tratto dalle pagine sugli hobbit de Il Signore degli Anelli. Un videogioco concepito nel 2000, disegnato, poi messo a punto e programmato dalla mente di lui, solitario e sola-mente; con qualche interruzione. Ciò è soltanto naturale. Del resto, nel frattempo, l’autore si era reso celebre come fabbricante di ottimi cortometraggi per il pubblico del web, dall’alta circolazione sui lidi dilaganti di YouTube. Centinaia di migliaia di click all’attivo. Per lui che a un certo punto sarà giunto a pensare: perché non unire le due cose! Trovare finalmente il tempo… Dopo tanti anni, di apporre la parola Fine sulla grande Opera, di un se stesso delle scuole medie, per poi trarne un pantagruelico racconto. Da narrare tramite l’apporto di tecnologia del nuovo secolo & la cultura info-memetica dei nostri giorni. Il gioco è bello. Il video, un’avventura ancor più grande: un post-mortem animato pieno di rimpianti, che tuttavia risuona del magnifico vagìto, lungamente atteso. Ecce gamus: per chi lo volesse, e non vedo proprio come resistere a una tale fantasia, il munifico prodotto è disponibile sul sito ufficiale, per il prezzo di cui parlavamo sopra. Nessuno. Ma con un guadagno, per chi l’ha creato, veramente significativo. Immaginatevi per un momento, questa sensazione di poter sfruttare un popolo senza confini, l’intero insieme di chi naviga per sport, al fine di realizzare i propri sogni di ragazzo. Diventare, finalmente, famosi; per ciò che si amava fare allora. Oltre che per quello che si è fatto dopo. Se non è questo un miracolo della tecnologia…Ma vediamola un po’ più nel dettaglio, questa gemma dell’interattivo-fatto-in-casa.

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Il volo del pilota addormentato

Trackmania PF

Le automobili di Trackmania sono prive di sostanza, come fossero fantasmi del concetto stesso di velocità. Non hanno leva del cambio, né volante, né cinture di sicurezza sui sedili. Il cofano è dipinto, il portabagagli non si apre. Sono definite, in fin dei conti, unicamente dal continuo movimento. E poiché i piloti non risiedono all’interno del veicolo, rischiando il proprio collo su ogni curva, hanno l’abitudine di scatenarsi presso pascoli spietati. Le piste virtuali più indimenticabili del mondo. Perché a farle sono loro, i giocatori. L’esperienza, in questi casi, è davvero galoppante solo quando guida i suoi partecipanti (piuttosto che il contrario). Guardate qui che roba! Dalla linea di partenza fino all’incredibile traguardo, 6 minuti di avventure, salti, voli e giri della morte. Con un singolo segreto, tuttavia: solo un tasto. Da premere con il dito medio, “W”. Tutto il resto va da se. E vivavivavivaviva-viva, tutto d’un fiato, si ode il canto del motore digitale, sulla pista tridimensionale e così via…Chi si ferma!
Originalità, virtù. La celebre serie di giochi di guida acrobatici della software house Nadeo presenta almeno due quantum di profonda distinzione. Il primo è quel suo essere pensato fin da subito per l’interazione tra perfetti sconosciuti, chiamati a correre sui server sparsi in giro per il mondo. Chiunque abbia provato a cimentarsi online con un simulatore semi-serio, vedi Gran Turismo, ben conosce la problematica di certi avversari scorretti o guidatori incapaci, che con due sportellate strategiche ti rovinano la gara. E poiché non c’è onore tra i ladri delle prime posizioni, il gioco da quel punto si trasforma in un terribile autoscontro, con rincorsa vendicativa e conseguente distruzione del fair play. Non qui, non ora. Come potrebbe mai succedere, con delle auto tanto trasparenti, intangibili e totalmente incapaci di scambiarsi la vernice… Un’idea davvero pratica e conveniente, soprattutto, perché semplifica notevolmente la programmazione della fisica di gioco. Questi francesi!
Il secondo merito, quello maggiormente celebrato dalle recensioni, resta sempre l’editor di piste. Cinque anni prima di Little Big Planet, lo zuccheroso pupazzetto senza-contesto della Sony, dalla Francia già ci avevano affidato gli strumenti per Creare. Le possibilità, fin da quel remoto 2003, furono letteralmente infinite. Liberi da considerazioni ingegneristiche come la consolidazione strutturale, poggiavamo le alte palafitte in fondo ai canyon dell’imprescindibile immaginazione. I nostri voli pindarici, stilisticamente simili alle avventure automobilistiche di Hard Drivin’ (1989) Stunts (1990) ci portavano a miglia di distanza dalle rigide imposizioni dell’asfalto troppo vero, noioso, a volte, quanto il traffico dell’ora di punta. Le migliori sottoculture nascono con un preciso manifesto, lo scopo dichiarato della loro sussistenza. Poi cambiano, perché decadono dall’epoca dell’oro. Ciò che viene dopo è sempre godibile, proprio perché imprevedibile.

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Musica di Lamborghini & Samurai

Perturbator She is Young, She is Beautiful

Il nuovo video musicale di Perturbator, tra gli autori della colonna sonora di Hotline Miami, è un concentrato di estetica e stilemi cyberpunk. Intitolato, assai appropriatamente, She is Young, She is Beautiful, vede la protagonista correre sulle autostrade di un’immaginifica località statunitense, con gli emblematici occhiali a specchio de La notte che bruciammo Chrome. Si tratta di uno scontro, ad un’analisi più approfondita, tra umani e macchine, la razza robotica degli incubi catastrofisti, qui generata, in qualche modo, dalle tenebre dell’iperspazio. Soltanto lei, come rappresentante del concetto di eroina fantastica dei primi anni ’90, guerriera con la katana molecolare e il giubbotto da motociclista, può evocare lo strumento salvifico della pantera cyborg trasformabile, uscito dritta dritta da un dischetto del Commodore Amiga. Ci sono nette corrispondenze visuali, tra questa sequenza in stile retrogaming e alcuni significativi titoli dell’epoca citata. La Countach con la strada ripresa in prospettiva, con il punto di fuga largo pochi pixel, come in Crazy Cars (1988) oppure Lotus Esprit Turbo Challenge (1990). La belva feroce, per niente dissimile dall’antagonista leonino della prima sequenza di Another World (1991), il capolavoro di Eric Chahi. Lo stile illustrativo ed i colori al neon delle sequenze d’intermezzo di Flashback (1992) ma con una protagonista al femminile che ricorda quella del manga Ghost in the Shell di Masamune Shirow, uscito giusto l’anno prima.
Erano, questi, momenti selvaggi tra le alterne maree dell’intrattenimento digitale: fuoriusciti finalmente dall’interminabile monopolio giapponese, voluto e fortemente sostenuto da Nintendo, l’Occidente riscopriva un settore ormai dimenticato. Fuoriuscendo dalla botola anti-atomica del Vault, lasciava correre lo sguardo verso nuove fantasie: laddove prima albergavano le astronavine di Asteroids, l’astrattismo fantascientifico di Tempest o le montagne vettoriali del vetusto Battlezone, ora c’era una distesa di potenti bytes, la landa vergine delle opportunità. Per la prima volta, oltre a far premere i bottoni, si potevano narrare delle storie. 16 bit non è soltanto un termine dal peso matematico, ne mai lo fu: quel mondo di tastiere beige, con mouse squadrati e joystick rumorosi, fu per molti un traghetto verso i pilastri letterari del fantastico, piuttosto che l’ambito creativo del fumetto. C’era un senso di costante futurismo che oggi, assai più vicini all’ideale grafico e tecnologico, anche intellettualmente, stiamo sempre più perdendo.
Seppure le ragioni sono molte, la principale a mio parere resta l’eccessiva disponibilità di potenza tecnologica, che facilmente trae in errore chi ricerca un facile guadagno. Finché ciascuna sequenza d’intermezzo, completa di colonna sonora, occupava un’alta percentuale spazio sui limitati supporti digitali, vigeva il regno del gameplay. Per ciascun gracchiare del drive, a seguito di ogni macchinoso swap di floppy disk, lo sviluppatore ben sapeva che doveva farti avere in cambio qualche cosa. Roba Memorabile. Gli automatismi portano all’indifferenza. Ci sono, ad oggi, giochi che pesano 30, 45, 60 gigabyte. Durano 200 ore, di cui forse, il 2% sono un film, con tanto di attori celebri e congrui investimenti nel motion capture. Tutto il resto è…

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