L’esperimento acustico che ha finalmente rivelato i metodi di caccia del grande gufo grigio

Nella corsa alla armi evolutiva di due gruppi di creature contrapposte, forse nessun caso risulta essere più lampante di quello osservabile nell’interazione ecologica tra varie specie della sottofamiglia degli arvicolini (cricetidi scavatori) e gli strigidi (Strix, Bubo, etc.) ovvero il tipo il di rapace che siamo soliti individuare dopo le ore del tramonto, mentre sosta sopra un ramo producendo ad intervalli ragionevolmente regolari il suo richiamo dal tono funereo. A meno di appartenere ad una specie assai diffusa dal punto di vista geografico, per cui il silenzio non è solamente d’oro, ma un letterale e probabilmente il più imprescindibile degli strumenti di sopravvivenza, come reso evidente dall’imponenza della sua particolare anatomia d’ascolto. Non un padiglione, né la cartilagine di orecchie sporgenti, bensì la forma stessa di un ampio e impressionante “faccione” cerchiato da ondate sovrapposte di piume, in una serie di cerchi concentrici capaci di massimizzare l’effetto scenografico di un uccello dall’aspetto già assai distintivo. Una forma tanto estrema e preponderante, a dire il vero, da trascendere le semplici necessità dell’apparenza, risultando a pieno titolo dotata di funzionalità estremamente precise. Prima tra tutte, quella di guidare in un percorso i suoni catturati tra gli arbusti della foresta, permettendo alla creatura leggendaria d’individuarli, per mettere in scena un formidabile, nonché spietato copione. Sto parlando dunque della specie che la scienza definisce Strix nebulosa, ma nell’eloquio volgare vede vari appellativi tra cui allocco o gufo della Lapponia o ancora, molto più semplicemente, il grande gufo grigio. Un animale molto noto nel suo vasto areale eppure sorprendentemente poco studiato, a partire da una classificazione tarda documentata soltanto a partire dal 1772 in Canada, ad opera del naturalista in trasferta canadese J. R. Forster, particolarmente noto per aver accompagnato pochi anni dopo l’esploratore James Cook. Così schivo e indifferente all’avvicinamento dell’uomo, restando perfettamente immobile e mimetizzato, che in effetti ben pochi dettagli erano stati accertati al di là di meri aneddoti per quanto concerne istinti e metodologie di caccia, almeno fino al nuovo articolo pubblicato lo scorso 23 novembre da Christopher J. Clark, studioso del dipartimento di biologia dell’Università della California. Un lavoro molto approfondito che non si è semplicemente limitato ad osservare il gufo nel suo ambiente naturale, ma contribuire attivamente a ricreare le condizioni che precorrono ed anticipano questo momento di rapida e precisa attività pennuta, culminante con lo stringersi assassino di quel becco ricurvo sulla schiena del piccolo roditore. Mediante un approccio semplice, eppure mai battuto prima di questo momento: la sepoltura temporanea sotto la neve di alcuni altoparlanti, capaci d’imitare il suono ben riconoscibile e sommesso prodotto dall’arvicolina nel momento del suo furtivo incedere sotterraneo. Con dei risultati capaci, a conti fatti, di sorprendere chi aveva preso nota dei presupposti…

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Lo sguardo magnetico dell’unico rapace che ha imparato a vivere sottoterra

E quando la lunga notte sarà finita, sotto la luce inclemente dell’astro solare, troveremo il modo di prolungare le tenebre che ci sono care. Spingendo insistentemente oltre i confini di un mondo ulteriore; quello sepolto tra radici contorte, pietre silenti e vermi privi di raziocinio. Dov’è che nessun tipo di regola può applicarsi allo stesso modo? Dove, lo sguardo dell’uomo non riesce a spingersi salvo speciali eccezioni? Appena oltre il velo del tutto non-trasparente di un cumulo d’elementi, sotto l’erba folta che si continua ad aggrovigliarsi. Un singolo verso, più volte ripetuto: “Hoo, hoo!” Non è altro che lui, gufo più distintivo del Nuovo Mondo. Famiglia Strigidae, genere Athene, specie cunicularia. Benché a voler essere maggiormente precisi si tratti realisticamente di una civetta, viste le dimensioni di appena 19-28 cm ed un corpo corto e tondeggiante, caratterizzato nel caso da un paio di zampe straordinariamente lunghe e sottili che ricordano vagamente i Tripodi, mostri meccanici sotterranei della Guerra dei Mondi di H.G. Wells. Ma non c’è alcunché di profetico, o alcun monito nei confronti delle impreparate nazioni della Terra, nella loro vita tranquilla ed abitudinaria fondata sull’istintiva risposta ad una semplice domanda: quale potesse essere la soluzione abitativa migliore, una volta scelto di abbandonare i rami degli alberi esposti alle attenzioni dei loro molti nemici, alati (falchi, aquile) o meno… Questione a supporto della quale, in maniera non del tutto scontata, sarebbe accorsa l’opportunità tutt’altro che infrequente di ricorrere all’operato collaterale di creature provenienti da una storia evolutiva del tutto diversa. I piccoli, scattanti, agili cani della prateria (gen. Cynomis) grandi e rinomati scavatori di cunicoli simili a vasti reticoli sotterranei. Naturalmente con il suo vasto areale esteso in entrambe le metà del vasto continente americano e le ben 18 sottospecie riconosciute, non tutte le civette delle tane trovano appoggio grazie all’operato di tali piccole creature, con altrettanto vantaggio ricavato da traslochi abitativi degli altri membri del gruppo tassonomico degli sciuridi, tra cui marmotte e scoiattoli di terra, ma anche tartarughe e persino l’occasionale costruzione umana, come canali o varchi per far passare l’acqua piovana presso i caotici confini delle città. Tutto ciò senza contare la capacità di far ricorso ad una capacità di scavo personale che potrà forse non essere pari a quella di un animale di terra, ma permette nondimeno a questi uccelli di sopravvivere facendo affidamento sulle loro esclusive forze. Il che purtroppo tende a renderli variabilmente invisi agli abitanti degli immediati dintorni, vista la netta preferenza mostrata dalla civetta per terra morbida e priva d’ostacoli, come quella delle coltivazioni agricole, gli spazi lasciati vuoti tra le piste degli aeroporti e le verdeggianti piste da golf. Benché tali rapaci operosi, dall’aspetto particolarmente distintivo ed accattivante, finiscano non di meno per rappresentare di fronte all’opinione pubblica l’importanza della biologia e la conservazione ecologica, arrivando ad offrire il pretesto per feste e ricorrenze annuali, tra cui quello particolarmente famoso di Cape Coral, nella penisola della Florida statunitense. Un’occasione di far conoscere, attraverso stand educativi e vendita di merchandising di vario tipo, questo animale di cui tutti sembrano aver sentito parlare in America, ma che ben pochi conoscono al di là del vasto mare. Il che non può che lasciare blandamente sorpresi, quando si considera l’estrema diffusione di tali uccelli, prolifici e adattabili, tale da valergli una classificazione particolarmente tranquilla da parte dell’indice internazionale dello IUCN. Ma chi, senza una valida conoscenza pregressa, potrebbe facilmente riuscire ad associare una creatura volante agli spazi notoriamente angusti del sottosuolo?

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Lo sguardo del demonio che appartiene ai gufi della foresta pluviale

“O diablo, te digo. Porque você não acredita em mim?” Il tono di voce dell’uomo era stridulo, il suo sguardo atterrito. Francisco aveva preso in esame l’interlocutore che si era precipitato all’interno del centro di protezione degli uccelli della città di San Isidro, a 23 chilometri da Buenos Aires, visibilmente ubriaco già verso la metà di un caloroso pomeriggio d’estate. “Non è che non ti credo. Vorrei capire perché sei venuto da me!” Aveva risposto, rivolgendosi al testimone della strana presenza fuori contesto, il quale immediatamente assunse un’espressione offesa ed indecifrabile. Quindi, spalancando gli occhi, tirò fuori dalla tasca dei pantaloni un qualcosa di piccolo, peloso ed a giudicare dal sangue, transitato recentemente a miglior vita. Francisco lo guardò bene: era un topo morto. Al topo morto mancava la testa.
Puntando la sua telecamera lontano dalla luce dei lampioni e verso la piccola isola di giungla completamente circondata dai palazzi della periferia urbana, l’uomo degli uccelli con specializzazione nei rapaci pensò nuovamente alla sua prima impressione: “Ho davanti a me un fole visionario, per di più inebriato” ma poi aveva iniziato ad interrogarsi in merito alle specifiche circostanze del caso. Creature cornute, demoni dell’inferno, misteriosi uccisori di tutto ciò che corre rumorosamente nel sottobosco: il folklore dei secoli ne aveva nominati molti. Ed ogni volta che si provava a scavare a fondo, la verità dei fatti finiva sempre per puntare nella stessa indiscutibile direzione. Quella dei gufi, allocchi e civette che si stagliano contro la luce della Luna notturna. Passarono altri 40 minuti di appostamento, mentre Francisco ripercorreva nella sua mente tutte le specie che avrebbero potuto palesarsi innanzi a lui da un momento all’altro. E fu allora che un suono sommesso, al culmine dell’attesa, attirò la sua attenzione verso il confine tra la zona illuminata e l’abisso inscrutabile degli alti arbusti. Puntò la torcia elettrica, e fu allora che le vide: due sfere rosse sospese nell’aere, come gli occhi dello stregatto di Alice, con sotto una serie di righe di color bianco e nero. Francisco trattenne un’esclamazione udibile di trionfo “Louvado seja, zebra” Gufo dei miei sogni proibiti. Agente alato di colui che può decidere, nel regno degli uomini che mai furono in grado di annichilirne l’esistenza.
Persecuzioni, superstizione, odio immotivato hanno per lungo tempo contribuito a ridurre la diffusione dei gufi nell’interno territorio sudamericano, qualificando l’uomo come principale nemico di questi esseri che avrebbero dovuto costituire, idealmente, dei superpredatori all’interno del proprio ambiente. Caratteristica tale da giustificare un’indole marcatamente solitaria, rendendo gli occasionali avvistamenti tanto più rari e con il proseguire dei secoli, significativi. Ragion per cui tutto quello che sappiamo su alcune particolari specie, caratterizzate da un areale vasto ma che tende a interrompersi ogni qualvolta ci si avvicina a territori più densamente abitati, deriva dagli occasionali avvistamenti ed alcune sporadiche osservazioni, d’esemplari finiti per lo più fuori dal proprio habitat naturale, per scontarsi ancora una volta con le credenze pregresse del malaugurio ed il sacro terrore folkloristico/religioso. Un’ideale condizione in cui possiamo facilmente collocare, nel nostro filo d’analisi, la vicenda in epoca moderna e contemporanea del magnifico uccello chiamato in territorio locale Coruja-preta (gufo nero) o più correttamente, gufo dalle strisce bianche e nere o ancora, allocco zebrato. E che in ambito scientifico, sembrerebbe conservare un certo livello d’incertezza in merito alla sua posizione nell’alto e complesso albero della vita…

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Quella nursery per gufi reali, il mio davanzale

Destandomi la notte ad ore insolite, quel suono fastidioso, l’ansia penetrante dell’intruso: coo, coo, coo. Di nuovo? Disturbi? “Piccoli piccioni appena nati, soliti visitatori senza qualità.” Questo pensava, ed in tale modo ci racconta Jos Baart, l’abitante olandese dell’appartamento al terzo piano di un palazzo presso il centro di Geel, città belga celebre per il maggior progetto sociale medievale a vantaggio dei malati di mente… Ma non c’è follia, né fantasia, in quanto egli stava per scorgere oltre il vetro della sua finestra. Due coppie di luci accese, grandi ed arancioni, collocate in alto sulla forma di altrettante creature candide e almeno all’apparenza, soffici quanto un cuscino. Bubo bubo e Bubo bubo (sub-adulti) nuovi nati membri di una specie che pur popolando quasi tutta Europa e una significativa parte dell’Asia, non si vede spesso, data l’invidiabile capacità di mantenersi ben lontano dagli ambienti eccessivamente abitati. Tranne quando, come in questo caso, avviene l’esatto opposto. E non è può essere del tutto chiara, la ragione, ma l’effetto è limpido e indimenticabile, di una madre che per qualche incomprensibile ragione ha scelto di deporre le sue uova dentro i vasi di questo probabile pittore, incredulo, che oggi non può fare a meno di ammirare lo spettacolo nel corso della sua artistica giornata. Quanto di frequente, d’altra parte, abbiamo l’occasione di ammirare lo splendore inusitato di una nuova storia, che riesce a dipanarsi innanzi ai nostri occhi per le incomprensibili ragioni della natura… Ed è proprio mentre Baart pensa questo, che una terza coppia di occhi emerge tra i cespugli verdeggianti: striata, di color marrone, e coronata da una coppia di magnifiche ed arcuate corna. Chi potrebbe essere se non la madre, regina notturna dei cieli!
Nel processo prototipico della riproduzione di queste creature, note in Italia con il nome di gufi reali e chiamati dagli anglofoni Eurasian eagle-owls (per distinguerli dalla versione nordamericana) si tratta di una casistica fuori dalla norma su più livelli, visto come normalmente il maschio sarebbe rimasto al fianco della sua consorte durante l’allevamento dei piccoli, per contribuire allo sforzo dei partner nel procacciare il cibo. Come allo stesso tempo appare anormale la scelta di un luogo tanto esposto per nidificare, in assenza del normale pertugio tra le rocce o i rami, evidentemente non impossibile da trovare in prossimità di tali e tanti edifici di cemento e vetro. Così verso il finire dell’inverno, stagione tipica, la femmina ha “deciso” di mettere al mondo soltanto due piccoli su un massimo di quattro, seguendo la prassi proporzionale notoriamente caratteristica di questi nobili cacciatori dei cieli. Chi ha mai visto, a tal proposito, una picchiata più elegante e silenziosa di quella messa in atto dallo strigide cosiddetto cornuto, la cui caratteristica dominante, per l’osservatore, tanto spesso risultano essere i due ciuffi di piume sopra gli occhi, la cui effettiva funzione sfugge da sempre agli studiosi e naturalisti di tutto il mondo. Non che tale ornamento, di suo conto, sia già presente sulla testa dei soffici “piccini”, nei fatti già più grandi e pesanti di un pollo adulto…

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