Quante persone servono per muovere una casa?

Bayanihan

È una situazione tipica dei nostri tempi, eppure al tempo stesso, non così diffusa in paesi che siano diversi dagli Stati Uniti. Una persona lavora per tutta la vita, mette da parte i soldi, incassa la liquidazione e poi… Deve decidere il farsi. Nelle terre della moderna ed incrollabile frontiera, non ci si attacca al luogo di nascita in maniera particolare. Sia pur soltanto, perché è molto raro che sia stato quello dei propri genitori. O dei loro addirittura, prima ancora? Impossibile. Quindi, ci si sposta: verso la Florida, la California. In luoghi tiepidi e ospitali, intranazionali e dotati di ogni massimo comfort. Oppure, se lo spirito d’avventura ancora arde nonostante gli anni, gente avventurosa parte per gli antipodi del mondo. Dove una pensione dello Zio Sam, sia pure di un livello medio, può bastare a far la vita di un aristocratico dei nostri tempi, ospite gradito fino all’ultimo dei propri giorni. Ed ecco una destinazione, fra le tante: l’arcipelago delle Filippine. Luogo di cultura antica, rigorosa religiosità, città caotiche non prive di problemi e campagne… Dove ancora si praticano strani usi e costumi. Tra cui quello, estremamente anacronistico, dell’umana solidarietà.
Così è possibile trovare, su YouTube, alcuni video d’istruzioni su come “ritirarsi nelle Filippine” generalmente accompagnati dalle osservazioni di un anglofono su questa o quella vista sorprendente tra le strade del paese austronesiano dal più alto numero di gruppi etnici distinti, che nonostante le difficoltà reciproche, convivono da tempo immemore nel bel mezzo dell’Anello di Fuoco del Pacifico, tra tifoni, vulcani ed uragani. Prima fra tutte, l’esperienza dimostrata anche nella sequenza di apertura: l’antica tecnica per il trasloco del bayanihan, in cui i vicini si radunano per aiutare una famiglia, che per motivi necessari o meno, ha preso l’ardua decisione di spostarsi altrove. Situazione nella quale, in determinati ambiti sociali e luoghi, è d’uso fare quanto segue: si inseriscono due pali paralleli sotto fra la piattaforma sopraelevata della tipica capanna di bambù e foglie di nipa, quindi se ne mettono altri due, trasversalmente. Poi venti, venticinque persone li afferrano ben saldi, li sollevano ed iniziano tranquillamente a camminare. E sembrano miracolose tartarughe, paiono creature d’altri mondi, questi tetti che senza oscillare se ne vanno per le strade, verso destinazioni tutt’altro che immediatamente chiare. Al termine dell’impresa, secondo l’usanza, i proprietari di casa stringeranno la mano a ciascuno dei loro aiutanti d’occasione. Poi gli offriranno da mangiare, in una cena dall’atmosfera celebrativa ed allegra. Non sono previsti altri metodi di pagamento.
L’impiego di questo particolare termine per riferirsi alla pratica costituisce in realtà un’antonomasia, laddove in lingua tagalog, la bayan costituisce la “comunità intera” mentre la particolare declinazione del termine utilizzata nel presente caso include il concetto di farne parte, esserne elemento imprescindibile e vitale. Nello specifico, la bayanihan è una qualsivoglia iniziativa comunitaria, altruisticamente finalizzata alla risoluzione del problema di un singolo individuo o gruppo familiare. Esistono in realtà molti sinonimi nel mondo, per simili prassi provenienti dai vari paesi: in Indonesia, c’è il Gotong Rotong, in Sudan l’usanza del Naffir. Tra i Quechua e gli Aymara del Sudamerica, lo sforzo collettivo prende il nome di Mink’a. Negli stessi Stati Uniti, benché una trascinante modernità guidata e misurata dal guadagno l’abbia ormai reso molto rara, esiste la parola Bee, riferita ad un lavoro autogestito, spontaneamente messo in atto eppure attentamente organizzato, per risolvere un problema significativo in ambito rurale, quale l’edificazione di un granaio, oppure riparare la chiesa e il municipio dopo il passaggio di un tornado… Oggi, questa parola ha subìto un ulteriore slittamento semantico, trovandosi impiegata in particolari progetti dell’open source informatizzato (alcune distro di Linux) sopratutto se diretti verso un pubblico prevalentemente filippino. Ma l’immagine della casa viaggiante resta così inscindibile, a tal punto collegata a questa particolare visione del mondo, che tutt’ora ricorre nella cultura popolare di questi luoghi e talvolta, in tutti quei casi in cui l’architettura impiegata sia ancora adatta a farlo, viene nuovamente messa in atto. Il che significa che la casetta deve essere del tipo…

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L’aereo concepito per volare pochi metri sopra il mare

Lun Class Ekranoplane

Fu il tipico problema di chi “vede le cose dall’alto” sperando di acquisire un valido quadro d’insieme del problema. Quando in realtà, più ti trovi lontano da un oggetto, meno è semplice capirne l’uso. Anche dalla prospettiva chiarificatrice per antonomasia, il volo dell’uccello spaziale. Erano gli anni tra il 1965 ed il ’70 quando i nuovi satelliti spia statunitensi, meri prodotti collaterali dell’obiettivo appena conseguito di arrivare sulla Luna, fotografarono presso una stazione di ricerca sul Mar Caspio un enorme mezzo di trasporto, che definire strano sarebbe stato estremamente riduttivo. L’apparecchio con la forma simile a un aereo, dotato di otto possenti motori montati parallelamente al muso ed altri due sul retro, lasciò gli addetti all’elaborazione delle immagini del tutto basiti. Perché aveva un peso stimato attorno alle 500 tonnellate ed era lungo 92 metri, ovvero poco meno di un campo da football… Quella fondamentale unità di misura statunitense! Eppure, ed è questo il fondamentale nocciolo della questione, le sue ali misuravano appena 37 metri dai rispettivi estremi, risultando quindi palesemente insufficienti a sostenere in volo la massa di un simile gigante. Si pensò, in un primo momento, che si trattasse di un  prototipo da completare con ulteriori componenti. Vennero tentate alcune simulazioni, con l’assistenza dei migliori ingegneri disponibili nel blocco occidentale. Ma nonostante l’impegno collettivo, non ci fu alcun modo per simularne prestazioni efficaci in volo. I tentativi di comprenderne il significato, quindi, furono rimandati verso data da destinarsi. Non poteva andare in nessun altro modo. Perché l’ekranoplano, che in seguito sarebbe diventato celebre col nome di “Mostro del Mar Caspio” non era in realtà fatto per staccarsi granché da terra, bensì per navigare sull’acqua, esattamente come una nave. Simile ad essa, in tutto tranne che nella velocità massima: circa 500 Km/h.
Fu un grande e terribile sogno, la possibile risoluzione di un dilemma che in quella generazione militare e politica veniva assai sentito. Come mai avrebbe potuto, una superpotenza moderna, far sbarcare le sue truppe sulle coste della rivale, senza che quest’ultima intercettasse la flotta avvistata con largo anticipo grazie ai satelliti, o bersagliasse con l’assistenza dei radar qualsivoglia aereo da trasporto? Ecco… Il premier Nikita Chruščëv aveva conosciuto, soltanto pochi anni prima, un ingegnere in grado di vendergli l’idea: dozzine, centinaia di carlinghe metalliche iper-veloci, troppo basse sopra la superficie marina per essere rilevate, ciascuna ricolma di dozzine di fieri soldati dell’Armata. Nessuno avrebbe mai potuto contrastare un simile piano d’attacco, se mai esso si fosse rivelato necessario. E come è noto, niente attirava i fondi sovietici più che un apparecchio dal possibile impiego militare. Il dado, quindi, fu tratto. E il mostro si sarebbe risvegliato.
Ma chi era, in effetti, Rostislav Alexeyev? Un tecnico, uno studioso, un appassionato di sport e di volo, celebre per i suoi esperimenti nell’ambito degli aliscafi. Nato a Novozybkov nel 1916 (e quindi all’epoca già quasi cinquantenne) con una notevole capacità di fare il punto sulle situazioni troppo spesso date per scontate. Tanto da riuscire, lui per primo, a comprendere le implicazioni più potenzialmente utili del cosiddetto effetto suolo, ovvero la condizione degli aerei in fase d’atterraggio che sviluppano un’irresistibile tendenza a galleggiare nell’aria, costringendo il pilota a contrastarla con tutte le sue forze, pena il rischio di andare lungo, dovendosi staccare nuovamente dal suolo. O altrettanto facilmente, schiantarsi contro una struttura estremamente inopportuna…

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La leggenda del carro armato senza testa

Swedish S Tank

Nascosto tra gli alberi di conifere, semi-sepolto nella terra di brughiera, un solo ed unico cannone avrebbe atteso l’avanzata del nemico. Basso, coperto da un telo mimetico, praticamente invisibile da una distanza superiore ai 200 metri. Dentro la casamatta corazzata, tre addetti ben addestrati, di cui due rivolti in avanti e l’altro in direzione totalmente opposta, ciascuno dotato dei più moderni visori termici e altri strumenti di rilevamento. Artigliere, servente/addetto radio, capitano: niente di così diverso dall’equipaggio di un comune bunker anti-carro, edificato sui confini di un paese che, per sua sfortuna, confinava con i suoi avversari storici più temuti. Con una significativa differenza dalla tradizione: l’occhio attento di una spia, assai probabilmente, l’avrebbe notato pressoché immediatamente: la bocca di fuoco da 105 mm di cui è dotato l’implemento misterioso, un cannone della BOFORS allo stato dell’arte, risulta incastrato saldamente tra le piastre d’armatura frontale, inclinata e spessa fino a 337 mm. Non soltanto, dunque, esso non può ruotare, ma neppure modificare l’alzo per sparare in alto oppure in basso. Esso è, per tutti gli aspetti e sotto ogni punto di vista, totalmente fisso in quella direzione. Finché un dispaccio radio, il trasalire di un momento, fumo e polvere al di là dell’orizzonte, non risvegliano il pronto equipaggio dal torpore: “Una colonna che avanza, tutti pronti al mio segnale!” Fa il più alto di grado, mentre una strana vibrazione percorre l’ambiente claustrofobico che ospita l’intera scena. È stato infatti acceso… Il motore.
Per comprendere cosa abbia portato, nel 1956, l’ingegnere della KAFT svedese Sven Berge a proporre uno dei veicoli da combattimento più avveniristici e bizzarri della storia, ed il suo governo ad iniziarne realmente la produzione in serie poco più di 10 anni dopo, occorre descrivere brevemente la posizione politica dei paesi scandinavi in quell’epoca, la particolare conformazione del loro territorio ed il ruolo che si sarebbero trovati ad avere, nel caso di un ipotetico surriscaldarsi del confronto silenzioso tra Stati Uniti ed Unione Sovietica. Cominciando con il sottolineare come, nonostante la politica nazionale di occasionale collaborazione con l’Occidente, la Svezia ci tenesse a qualificarsi come entità neutrale, ed in caso di guerra termonucleare globale avrebbe costituito un bersaglio di secondaria importanza, anche e soprattutto per l’abbandono, dovuto a mancanza di fondi, di un programma per l’acquisizione di armi atomiche di distruzione su larga scala. Ciò aveva radici profonde nella politica di quel paese, che dopo la drammatica riduzione della sua popolazione dovuta ai tragici eventi delle guerre napoleoniche, aveva saputo guadagnarsi una classe politica che non sentiva più il bisogno di affermarsi in campo internazionale con l’uso delle armi, tanto che a partire dalla guerra in Crimea del 1856, il governo di Stoccolma iniziò a rifiutarsi di assistere sul campo di battaglia il suo alleato storico, la Russia. Durante la prima guerra mondiale, questo paese più compatto che mai diede la stessa risposta alla Germania, suo fondamentale partner commerciale e addirittura nel 1914, quando i russi occuparono abusivamente le isole Åland per collocarvi una base di sommergibili, non venne attuato alcun tipo di rappresaglia o controbattuta, fatta esclusione per una protesta formale al termine del conflitto, rivolta alla neonata Società delle Nazioni. Una scelta che si rivelò vincente a lungo termine, quando durante l’intero secondo conflitto mondiale, il paese riuscì a rimanere relativamente inviolato dalle forze nemiche, in mezzo al vortice dell’Operazione Weserübung, che portò all’occupazione tedesca di Danimarca e Norvegia. Ma terminata quell’era di rabbia dei popoli, giunti alla pace apparentemente di vetro tra le nascenti super-potenze del secolo rinnovato, diventò estremamente chiaro un aspetto: che se pure la Svezia fosse riuscita a scampare alla furia di un primo assalto nucleare da parte dei sovietici o di chicchessia, la vicinanza meramente geografica al più grande paese del mondo l’avrebbe resa un territorio ideale in cui dispiegare gli armamenti, per disseminarli oltre e nasconderli, per quanto possibile, dagli occhi scrutatori provenienti da Oltreoceano. E questo, loro non l’avrebbero mai accettato.

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L’evoluzione strategica delle portaerei italiane

ITS Cavour

In queste riprese risalenti al 2013, l’ammiraglia della flotta italiana mette in mostra gli artigli acciaiosi in occasione del meeting tenutosi a sud della Sardegna dell’Atlantic Council, il comitato politico e militare statunitense venutosi a costituire oltre 50 anni fa per favorire la cooperazione tra le diverse potenze economiche globali. Come per l’incontro tra Renzi, la Merkel e Hollande di questo attuale agosto 2016, ospitato stavolta sul meno massivo incrociatore portaeromobili Garibaldi (13.850 Vs. 27.900 tonnellate) lo splendore del ponte di volo in condizioni di operatività era diventato l’occasione di mostrare momentaneamente al mondo che si, dopo tutto esistiamo. E siamo pur sempre pronti ed abili, nel definire obiettivi strategici di portata internazionale.
Se è vero che la “guerra è la continuazione della politica con altri mezzi” come scrisse il grande von Clausewitz, allora la mobilitazione di ciascuna delle tre possibili forze armate di ciascun paese potrebbe corrispondere ad un diverso tipo di messaggio diplomatico: perché l’aviazione interdice o acquisisce, l’esercito conquista o difende, e la marina…Fa un po’ di tutte le cose, ma anche e soprattutto, per via della sua capacità di essere dislocata in ogni regione del mondo senza il bisogno di alcun preambolo, applica lo status de facto di un’estensione della propria operatività, su medio o lungo termine, quale il nemico, o controparte che dir si voglia, può contrastare unicamente con una dimostrazione di forza ancor più grande. Ed è per questo che fin dall’epoca della prima guerra mondiale, la presenza di anche soltanto una singola nave da battaglia nemica all’interno delle proprie acque costituiva l’inizio percepito della fine, una situazione che annunciava generalmente l’ultimo capitolo del conflitto. Fu dunque in funzione di questo che gli Stati Uniti per primi, notoriamente lontani dai confini in arme di qualsivoglia nazione ostile, giunsero ad inventare, finanziare e schierare un nuovo e diverso tipo di unità marittima, capace di dominare i mari come nessuna prima di lei. Erano dunque gli anni immediatamente antecedenti alla grande guerra, quando Eugene Ely, famoso aviatore, decollò per primo dal ponte dell’incrociatore corazzato USS Birmingham nel 1910. Per poi riuscire persino ad atterrare, in una diversa occasione nel corso dell’anno immediatamente successivo, sulla struttura temporanea costruita sopra la poppa dell’USS Pennsylvania. Nulla, a seguire di questo, sarebbe più stato lo stesso. Basi mobili, piattaforme umanitarie, strumenti diplomatici dall’alto tasso di visibilità: le portaerei moderne costituiscono una risorsa costosa ma versatile, che soltanto alcuni dei paesi più potenti del mondo possono permettersi di schierare. Resta tuttavia importante non dimenticare quanto segue: in qualità di armi, esse esistono soltanto perché forgiate nel fuoco della battaglia. E temprate nel sangue versato dalle trascorse generazioni di eroi.
La storia delle due portaerei correntemente schierate dal nostro paese viene generalmente fatta risalire, in via remota, all’episodio di una cocente sconfitta subita nel corso del secondo conflitto globale: la battaglia di Capo Matapan (28 marzo 1941) combattuta contro la Royal Navy degli inglesi per il controllo delle regioni marittime antistanti alla Grecia. Prima di allora, sussisteva ancora l’idea di un’Italia “popolo di navigatori” naturalmente in grado di prevalere tra l’onde, nonché l’insensata metafora di epoca fascista secondo cui la nostra penisola, con la sua posizione strategica nel bel mezzo del Mare Mediterraneo, potesse automaticamente costituire “la portaerei di se stessa”. Da quel momento in poi, il regime duramente umiliato sui campi di battaglia e già in via di disgregazione prima dell’armistizio segreto di Cassibile (3 settembre 1943) lavorò alacremente per crearsi, alla pari dei molti nemici, delle navi dotate di almeno un’intera squadriglia d’aerei. A tal punto pesò, la presa di coscienza della nostra inadeguatezza nel contrastare una forza costituita su questo nuovo precetto dell’ordine di battaglia per mare. Tutto iniziò con una missione teoricamente piuttosto semplice: bloccare i convogli di rifornimento inglesi che si stavano spostando troppo liberamente tra l’Europa e l’Africa, secondo quanto esplicitamente delineato dagli alleati tedeschi. Ma le cose iniziarono quasi subito ad andare per il verso sbagliato…

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