L’evoluzione strategica delle portaerei italiane

ITS Cavour

In queste riprese risalenti al 2013, l’ammiraglia della flotta italiana mette in mostra gli artigli acciaiosi in occasione del meeting tenutosi a sud della Sardegna dell’Atlantic Council, il comitato politico e militare statunitense venutosi a costituire oltre 50 anni fa per favorire la cooperazione tra le diverse potenze economiche globali. Come per l’incontro tra Renzi, la Merkel e Hollande di questo attuale agosto 2016, ospitato stavolta sul meno massivo incrociatore portaeromobili Garibaldi (13.850 Vs. 27.900 tonnellate) lo splendore del ponte di volo in condizioni di operatività era diventato l’occasione di mostrare momentaneamente al mondo che si, dopo tutto esistiamo. E siamo pur sempre pronti ed abili, nel definire obiettivi strategici di portata internazionale.
Se è vero che la “guerra è la continuazione della politica con altri mezzi” come scrisse il grande von Clausewitz, allora la mobilitazione di ciascuna delle tre possibili forze armate di ciascun paese potrebbe corrispondere ad un diverso tipo di messaggio diplomatico: perché l’aviazione interdice o acquisisce, l’esercito conquista o difende, e la marina…Fa un po’ di tutte le cose, ma anche e soprattutto, per via della sua capacità di essere dislocata in ogni regione del mondo senza il bisogno di alcun preambolo, applica lo status de facto di un’estensione della propria operatività, su medio o lungo termine, quale il nemico, o controparte che dir si voglia, può contrastare unicamente con una dimostrazione di forza ancor più grande. Ed è per questo che fin dall’epoca della prima guerra mondiale, la presenza di anche soltanto una singola nave da battaglia nemica all’interno delle proprie acque costituiva l’inizio percepito della fine, una situazione che annunciava generalmente l’ultimo capitolo del conflitto. Fu dunque in funzione di questo che gli Stati Uniti per primi, notoriamente lontani dai confini in arme di qualsivoglia nazione ostile, giunsero ad inventare, finanziare e schierare un nuovo e diverso tipo di unità marittima, capace di dominare i mari come nessuna prima di lei. Erano dunque gli anni immediatamente antecedenti alla grande guerra, quando Eugene Ely, famoso aviatore, decollò per primo dal ponte dell’incrociatore corazzato USS Birmingham nel 1910. Per poi riuscire persino ad atterrare, in una diversa occasione nel corso dell’anno immediatamente successivo, sulla struttura temporanea costruita sopra la poppa dell’USS Pennsylvania. Nulla, a seguire di questo, sarebbe più stato lo stesso. Basi mobili, piattaforme umanitarie, strumenti diplomatici dall’alto tasso di visibilità: le portaerei moderne costituiscono una risorsa costosa ma versatile, che soltanto alcuni dei paesi più potenti del mondo possono permettersi di schierare. Resta tuttavia importante non dimenticare quanto segue: in qualità di armi, esse esistono soltanto perché forgiate nel fuoco della battaglia. E temprate nel sangue versato dalle trascorse generazioni di eroi.
La storia delle due portaerei correntemente schierate dal nostro paese viene generalmente fatta risalire, in via remota, all’episodio di una cocente sconfitta subita nel corso del secondo conflitto globale: la battaglia di Capo Matapan (28 marzo 1941) combattuta contro la Royal Navy degli inglesi per il controllo delle regioni marittime antistanti alla Grecia. Prima di allora, sussisteva ancora l’idea di un’Italia “popolo di navigatori” naturalmente in grado di prevalere tra l’onde, nonché l’insensata metafora di epoca fascista secondo cui la nostra penisola, con la sua posizione strategica nel bel mezzo del Mare Mediterraneo, potesse automaticamente costituire “la portaerei di se stessa”. Da quel momento in poi, il regime duramente umiliato sui campi di battaglia e già in via di disgregazione prima dell’armistizio segreto di Cassibile (3 settembre 1943) lavorò alacremente per crearsi, alla pari dei molti nemici, delle navi dotate di almeno un’intera squadriglia d’aerei. A tal punto pesò, la presa di coscienza della nostra inadeguatezza nel contrastare una forza costituita su questo nuovo precetto dell’ordine di battaglia per mare. Tutto iniziò con una missione teoricamente piuttosto semplice: bloccare i convogli di rifornimento inglesi che si stavano spostando troppo liberamente tra l’Europa e l’Africa, secondo quanto esplicitamente delineato dagli alleati tedeschi. Ma le cose iniziarono quasi subito ad andare per il verso sbagliato…

Nave Garibaldi
La portaerei Giuseppe Garibaldi (C 551) è stata varata nel 1983. Inizialmente, secondo le leggi militari vigenti nel nostro paese, non poteva disporre di aerei ad ala fissa, e schierò quindi unicamente un gruppo di 18 elicotteri. La riconfigurazione attuale, con 12 velivoli a decollo verticale Harrier II e 6 elicotteri, risale soltanto al 1989.

Alle 12:25 del 27 marzo il gruppo d’intervento italiano, formato dalla nave da battaglia Vittorio Veneto al comando dell’ammiraglio Angelo Iachino, 6 incrociatori pesanti,  2 leggeri e 13 cacciatorpediniere, viene parzialmente avvistata da un idrovolante mandato in ricognizione da Andrew Cunningham, il comandante in capo della Mediterranean Fleet. Sulla ragione della presenza di costui, alla guida di un gruppo di battaglia con la portaerei Formidable, 3 navi da battaglia, 7 incrociatori leggeri e 16 cacciatorpediniere, proprio sul passaggio della missione italiana sono state fatte diverse ipotesi, compresa quella che il comando inglese avesse acquisito e decodificato delle comunicazioni tedesche inviate con la celebre macchina Enigma grazie a Colossus, l’enorme antenato dei moderni computer creato da Tommy Flowers sulla base delle ricerche matematiche di Alan Turing e Max Newman. Secondo tale versione della storia, l’invio dell’idrovolante avrebbe costituito soltanto un’azione di copertura, mirata a non dimostrare chiaramente quanto le soluzioni di decodifica alleate fossero diventate efficaci. Alle ore 15:00 del 28 marzo, una squadriglia di aerosiluranti a doppia ala Fairey Albacore decollati dalla Formidable raggiunge la formazione italiana e uno di loro, poco prima di essere abbattuto, lancia un siluro che colpisce in pieno la Vittorio Veneto, danneggiandone i motori. Nonostante i danni subiti, l’equipaggio riesce a rimettere la corazzata in condizioni funzionali, ma soltanto alla velocità ridotta di 16 nodi. L’ammiraglio Iachino, quindi, dà l’ordine d’invertire la rotta e fare ritorno in patria. Nel frattempo, rilevata la presenza di una grande forza d’intercettazione inglese, vengono disposte cortine fumogene per coprire la ritirata, riuscendo a coprire il grosso delle navi dall’occhio scrutatore degli aerei nemici. Alle 17:35 Cunningham, lanciato in un inseguimento piuttosto inefficiente in funzione dell’estrema lentezza delle navi inglesi, si spazientì ed ordino un nuovo attacco di aerosiluranti, mirato a finire la nave Vittorio Veneto. Ma gli Albacore, non riuscendo a trovarla, finirono per scaricare le loro munizioni contro bersagli meno importanti, tra cui gli incrociatori pesanti Zara, Fiume e Pola. E fu proprio quest’ultimo, per sua somma sfortuna, ad essere colpito e restare tanto gravemente danneggiato da non poter più continuare la sua fuga. Iachino allora, rifiutandosi di abbandonarlo al suo destino, ordinò che si tentasse un’operazione di traino sfruttando la copertura della notte, mentre la sua Vittorio Veneto continuava a procedere verso la sicurezza delle acque italiane. Ciò costituì un errore dalle conseguenze a dir poco disastrose.

Flotta Italiana
Un elicottero sorvola la moderna flotta italiana sul canale ufficiale della Marina, mentre fa rotta verso una destinazione che ci resta ignota. Quanta strada è stata fatta, e quante cose sono cambiate, dalle nostre dure sconfitte all’epoca della seconda guerra mondiale!

I comandanti di marina italiana infatti, che ancora non disponevano dello strumento di primaria importanza del radar, non riuscivano semplicemente a concepire il concetto di un’operatività notturna della flotta. Mentre gli inglesi, che nel frattempo erano finalmente sopraggiunti in forze sulla scena dell’incrociatore colpito, disponevano di strumenti d’individuazione e controllo del fuoco notevolmente più avanzati, nonché di potenti riflettori montati sul ponte, che gli permisero di far fuoco spietatamente su ciascuno degli scafi italiani rimasti indietro. Una notazione potenzialmente interessanti: tra gli addetti alla manovra di queste fonti di luce particolarmente micidiali c’era anche un giovane principe Filippo di Edimburgo, il futuro marito della regina Elisabetta II. Tutto finì, dunque, in pochissimi minuti: con una serie di bordate particolarmente devastanti, furono affondati gli incrociatori Fiume e Zara, mentre il Pola immobilizzato non poteva far altro che assistere al massacro. Anche se alcuni commentatori, estremamente critici della leadership dell’intera battaglia, affermano che gli ufficiali della nave si siano effettivamente rifiutati di dare l’ordine di intervenire, sperando di aver così salva la vita. Ma anche la loro nave venne affondata. Stesso destino toccò ai cacciatorpedinieri Carducci ed Alfieri. Risultato: 2.330 marinai italiani persero la vita, 1.314 furono salvati e presi prigionieri dagli inglesi. Lo schieramento contrapposto, nel frattempo, aveva subito soltanto 3 vittime, costituenti l’equipaggio dell’aerosilurante abbattuto all’inizio della battaglia. E tutto questo, in funzione sopratutto di una singola cosa: la potenza dell’aviazione trasportata per mare.
Il comando italiano quindi, duramente colpito dall’accaduto, iniziò subito il piano per riconvertire due transatlantici in portaerei, l’Aquila e la Sparviero. Si trattava di ottimi scafi, rispettivamente della stazza di 23.500 e 30.418 tonnellate, il cui riarmo venne affidato verso la fine del 1941 alla fine mente ingegneristica del colonnello del Genio Luigi Gagnotto. Di particolare interesse fu il progetto della prima delle navi citate, che prevedeva un ponte per il decollo inferiore, fornito di rampa di lancio inclinata, ed uno superiore per l’atterraggio, nella stessa maniera impiegata dalle portaerei giapponesi Akagi e Kaga. Era presente, inoltre, una soluzione particolarmente originale per collocare 15 aerei Reggiane Re.2001 in sospensione da terra nell’hangar di volo, portando il totale di velivoli trasportabili dalla nave a ben 51. Il piano di approntamento subì tuttavia notevoli ritardi, quando ci si rese conto che portare a compimento un atterraggio su un simile vascello avrebbe richiesto un periodo di addestramento più lungo del previsto, ed almeno per il primo periodo delle frenetiche fasi della guerra in corso, gli aerei avrebbero dovuto atterrare in dei campi di volo vicini. Il che, ovviamente, azzerava l’utilità di schierare una portaerei. Prima che il doppio progetto potesse compiere a coronamento, tuttavia, sopraggiunse l’ora della resa incondizionata dell’Italia alle forze alleate, il re scappò a Brindisi e le due navi vennero catturate dai tedeschi, che le affidarono alla RSI di Mussolini presso il porto di Genova, sperando che si riuscisse a completarne l’approntamento. Operazione che si rivelò tuttavia impossibile, soprattutto in funzione dei molti bombardamenti da parte degli americani, e che costrinsero le residue forze fasciste ad impiegare i possenti vascelli come niente più di una diga mobile, da far affondare all’imbocco del porto in cui venivano custodite per rallentare le forze d’invasione. E proprio questa fu, purtroppo, l’ingloriosa fine delle due prime portaerei italiane. Non ne avremmo più persa nessuna!

LHD
Una possibile LHD. – Via

Ben conosciamo, dunque, il presente. Ma che dire del futuro? Attualmente la Garibaldi, un vascello risalente agli anni ’80, inizia a mostrarsi inadeguata alle caratteristiche della guerra moderna, e si parla su più livelli, sia politici che militari, dell’imminente commissione governativa per la messa in opera di una nuova e più grande portaelicotteri, definita soltanto con l’acronimo generico di LHD (Landing Helicopter Dock). Al momento, per rendere il progetto più allettante nella logica di un paese il cui PIL non è certamente più quello di una volta, si tentato di porre l’accento sulle funzioni potenzialmente umanitarie ed assistenziali in caso di disastro ecologico del vascello: è un fatto largamente acclarato, del resto, quello del ruolo primario ed estremamente nobile avuto dalla portaerei italiana Cavour nel dopo-terremoto di Haiti, quando lo stesso governo statunitense tardava nel fornire i soccorsi primari alla popolazione colpita. Ma le critiche a questa visione sono molteplici e, per certi versi, giustificate: non è semplicemente possibile negare, né subordinare, la possenza bellica di una moderna portaerei. All’epoca della guerra fredda, quando Stati Uniti ed Unione Sovietica si combattevano a colpi di sguardi e gesti di minaccia spropositati, sussisteva la visione secondo cui simili navi dovessero essere considerate alla stregua del suolo nemico. Se una sola di esse fosse infatti riuscita a sopravvivere, in caso di guerra cataclismica nucleare, la superpotenza che la controllava avrebbe potuto risorgere dalla proprie ceneri, punire il nemico e trionfare incontrastata sul globo di cenere rimasto in possesso dell’umanità.
Ed il fatto stesso che la nostra “piccola” Italia possa far parte di una simile logica terrificante, va lungamente ponderato. Perché potrebbe persino dimostrarsi valido a cambiare la visione, largamente inesatta, che l’uomo internazionale della strada mantiene della forze armate italiane, in funzione di vecchie sconfitte che oggi non significano, o almeno non dovrebbero significare, assolutamente alcunché.

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