Il cuore di bronzo del tempio e la voce di Buddha che allontana i desideri e le tentazioni

La luce della luna irrorava le colline antistanti mentre un caldo senso d’entusiasmo diffuso percorreva il pubblico ammesso all’evento, nonostante le basse temperature tipiche della fine di gennaio a Kyoto. Il gruppo dei monaci, 16 in tutto e attaccati ad altrettante corde, intonava una solenne preghiera al centro di una scena che si presentava all’opposto rispetto alla quiete normalmente associata al contegno della meditazione. Il flash delle macchine fotografiche, lampeggiando ritmicamente, accompagnava il progressivo dondolamento del gruppo, una vista possibile soltanto una volta l’anno ed al verificarsi di specifiche condizioni. Uno dei religiosi, in contrapposizione al resto e stagliato dinnanzi al grande oggetto di metallo, guidava con la massima cura il ritmo delle operazioni, assicurandosi che la giusta cadenza in lieve accelerazione venisse rispettata. Una volta pronunciato per la settima volta il Namu Amida Butsu, l’uomo prese quindi un grande respiro, gridando a pieni polmoni “HitotsuSore!” (liberamente traducibile come oh, issa!) poco prima di lanciarsi, tra l’emozionato silenzio dei non-iniziati, acrobaticamente a terra, mentre i suoi colleghi lasciavano il più lente possibili le estremità delle loro cime. Risultato: il potente atari, suono armonico scaturito al cozzare del pesante ariete contro lo tsuki-za finemente ornato, parte rinforzata della famosa bonshō del tempio di Chion-in (知恩院, Monastero della Gratitudine) intento nel mettere in pratica la sua più importante ricorrenza. Niente meno che la più grande campana di bronzo di tutto il Giappone, un ponderoso strumento di 3,3 metri d’altezza e 2,7 di diametro, fuso secondo le incisioni rilevanti durante il priorato del sommo ecclesiastico Ōyo Reigan, nell’anno 1636. Mentre l’ora della mezzanotte si avvicinava inesorabilmente, quindi, i 15 monaci tirarono di nuovo a se le corde e la loro guida si tirò su con la pratica consumata di un maestro di arti marziali. Dopo tutto, la notte era ancora giovane. Nel trascorrere delle successive due ore, il possente bonshō avrebbe dovuto suonare altre 107 volte, ancora…
Ostentazione, rancore, invidia, superbia, arroganza, irresponsabilità, ipocrisia… Uno dopo l’altro, l’elenco dei vizi e delle tentazioni terrene avrebbero avuto modo di passare nella mente di tutti coloro, tra i presenti, che davano l’appropriato significato spirituale alle specifiche circostanze. Quelle del joyanokane (じょやの鐘 , letteralmente “campana del nuovo anno”) collocato rigorosamente nella notte del 31 dicembre, in modo che l’ultimo rintocco risuonasse esattamente al volgere del nuovo ciclo dei mesi, simboleggiando un nuovo inizio completamente privo delle preoccupazioni della vita fino a quel momento. Il modo più consigliabile, tra tutti, per avvicinarsi sensibilmente alla buddhità. Almeno secondo la dottrina ereditata da questa specifica confraternita situata nel sistema religioso delle Terre Pure, secondo cui la recitazione ripetuta di un’esternazione solenne può liberare la mente dai pensieri che ostinatamente impediscono la serenità dei viventi. Finalità tanto più efficientemente raggiungibile mediante l’impiego di un’ausilio simile a questo, frutto di una specifica serie di modalità costruttive ed integrato nell’atto stesso della venerazione, importato in Giappone almeno fin dall’epoca remota del periodo Kofun (250-538 d.C.) quando secondo le cronache del Kojiki e del Nihon Shoki, antichi testi a metà tra letteratura e storiografia, fu proprio il generale Ōtomo no Satehiko a riportarne i tre primi esempi da una campagna di conquista nella penisola coreana, durante il regno del 25° sovrano del paese, Buretsu-tennō. Oggetti destinati a diventare, attraverso le epoche precedenti, un importante strumento civile e militare, dal suono udibile a svariati chilometri di distanza, sia nell’urto iniziale che per il riverbero successivo, chiamato okuri o “decadimento”. Ma i fuochi delle guerre combattute dai primi samurai del paese, che ne usavano versioni più piccole per segnalare le manovre in battaglia, non si erano ancora spenti quando il profondo significato spirituale delle bonshō iniziava finalmente ad essere compreso dai sempre più numerosi seguaci del nuovo culto introdotto contestualmente dal continente. Quello che parlava di un profeta, e la sua comprensione superiore dello specifico funzionamento della mente umana…

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Il poco discusso sito archeologico delle più antiche ed imponenti piramidi americane

Riesce ad essere senz’altro sorprendente, se guardata con il giusto spirito analitico, la maniera in cui le origini del concetto stesso di civiltà risiedano in un punto periferico del senso comune, venendo sollevate o discusse solamente in ambiti specifici o in maniera superficiale ed approssimativa. Soprattutto quando si parla delle tre più celebri zone in cui l’associazione umana portò alle prime collaborazioni plurime e la costruzione di grandi comunità stanziali: l’Egitto con le sue piramidi e maestosi templi; la Mesopotamia con le città di Assur, Uruk e Babilonia; le giade incise e le ossa oracolari di tartaruga della Cina d’epoca neolitica e successiva. Mentre assai meno note risultano essere le principali eredità lasciate dalle genti del Messico ancestrale e la valle dell’Indo, ulteriori due poli d’aggregazione e avanzamento tecnologico della collettività umane. Ma praticamente sconosciuta, in questo novero, risulta essere d’altronde quella che viene spesso definita la sesta (non per importanza o ordinamento cronologico) delle sei culle del progresso, l’odierno Perù circondato dall’alta muraglia delle montagne andine. Il che la dice molto lunga, in merito a quanto variabili possano essere i traguardi perseguiti da un intero popolo, e la maniera in cui non sempre il tipo di risorse e vie d’accesso alla prosperità possano essere immediatamente riconoscibili, strutturalmente conformi e mirate all’ottenimento di evidenti o ben riconoscibili vantaggi per la qualità di vita. Che un qualcosa si trovasse, d’altra parte, nell’arido semi-deserto situato tra la principale catena montuosa sudamericana e l’Oceano Pacifico, a 23 Km dalla costa e 182 dalla città di Lima nella valle del fiume Supe presso l’odierna Caral, era stato ben noto fin dall’anno 1948, per le ricerche dell’archeologo americano e principale ricercatore della civiltà di Nazca, Paul Kosok. Il quale tuttavia in assenza di spettacolari geoglifi, o il tipo di reperti che comunemente ci si aspettava di trovare presso gli antichi siti andini, si limitò a menzionare questa posizione nei suoi studi senza dare inizio ad alcuna procedura estensiva di scavo. Così come avvenne di nuovo nel 1975, ad opera dell’architetto peruviano Carlos Williams, che utilizzò l’esempio di possibile città ancestrale all’interno di una sua famosa trattazione della storia costruttiva nazionale. Il che, di fatto, pareva commisurato alla prevista importanza e distinzione dell’intera zona geografica, semplicemente priva di risorse che potessero sostenere grandi concentrazioni umane, dando luogo a significativi lasciti capaci di massimizzare la nostra conoscenza pregressa degli antichi. Questo almeno finché nel 1994, l’antropologa ed archeologa dell’Università di San Marcos, Ruth Shady, non avrebbe spostato la propria significativa lente indagatrice verso gli sparuti rimasugli e poche pietre tagliate visibili in corrispondenza della superficie. Che sarebbero risultate ben presto del tutto conformi al concetto largamente utilizzato della cima dell’iceberg, rivelando al di sotto una pluralità di strutture in muratura che progressivamente diventavano sempre più grandi, sempre più imponenti. Proprio come ci si aspetterebbe accadere, per l’appunto, alla soluzione architettonica maggiormente rappresentativa del mondo antico, in quanto l’unica possibile per costruire più in alto verso il cielo, nell’assenza di materiali o pilastri di sostegno costruibili secondo le modalità disponibili in epoche successive… Una piramide quindi, o per meglio dire tre di queste dalle dimensioni più impressionanti, circondate da una pletora di altre più piccole, complessi residenziali multi-piano e vere e proprie piazze con anfiteatri, costruiti con la distintiva soluzione di una piazza scavata al di sotto del livello del terreno, e circondata da alte sponde in muratura. Il tutto disseminato in uno spazio approssimativo di 60 ettari, definendo a pieno le caratteristiche di quella che poteva solamente essere stata una possente capitale, o città sacra, di un’intero gruppo di associazione etnica, organizzativa e commerciale. Di quella che lei fu pronta a definire civiltà di Caral, benché gli anglofoni preferirono mantenere la precedente definizione, non del tutto corretta, di Norte Chico. Nessuno poteva aspettarsi ciò che sarebbe tuttavia emerso di lì a poco, tramite le prime analisi al carbonio 14 effettuate su alcuni reperti di stoffa e i legami di corde consumate dal tempo, utilizzati spesso per tenere assieme gli agglomerati di pietre costituenti le opere murarie del centro abitato: una datazione acclarata risalente al 3.500 a.C, ovvero antecedente addirittura alla costruzione delle ben più celebri piramidi nordafricane, tanto celebri da aver generato una quantità spropositata di teorie ed ipotesi extra-terrestri. Mentre nessuno, a memoria d’uomo, si è mai preoccupato di cercare giustificazioni per gli antichi popoli del Perù…

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Si avvicina l’accensione della colossale sfera iper-tecnologica di Las Vegas

“Se esiste un cuore pulsante del Nevada, questo posto ne è la cavita toracica, cavernosa ed accogliente” Non più arida come il deserto del Mojave, secca e rocciosa. Bensì disseminata di divertimenti capaci di trascendere le aspettative di chiunque. E soprattutto l’opportunità palese, quanto una lampada per le falene nell’ora del vespro incipiente, di guadagnare una fortuna ad ogni angolo di strada, diventare parte di quell’esclusivo ricco dei famosi, ricchi e potenti. Ma se l’ampia strada dello Strip, aorta delle circostanze metaforiche, conduce le future vittime ed i pochi trionfatori di quel sistema, dove potremmo giungere a individuare l’organo in questione? Forse il Cosmpolitan, con le sue sale lucenti e le oltre 1.300 Slot Machine? Oppure il Luxor, potente faro nella notte che orgogliosamente scaturisce dalla cima della piramide di Cheope? O che dire del Venetian, lussuosa ricostruzione con hotel dei magnifici canali della singola città più iconica d’Italia e del mondo… Tutto questo eppure nulla di specifico, per una ragione più d’ogni altra: non c’è un singolo particolare punto di riferimento, in questo luogo, che possa dirsi di rappresentare nell’immaginario il muscolo che aziona il principale meccanismo della vita stessa. Una situazione che potrebbe… Cambiare, di qui ad un paio di anni appena, con l’attesa apertura entro il 2023 di qualcosa che potrà cambiare il paradigma stesso del concetto d’intrattenimento. Questo affermano, con estremo ed almeno apparentemente giustificato orgoglio, i loro committenti della grande compagnia d’intrattenimento ed organizzazione eventi MSG (Madison Square Garden) assieme agli architetti della Populous, studio multinazionale e multiculturale specializzato nella creazione di venues, ovvero stadi, auditorium, centri congressi ed altri punti d’incontro per grandi volumi di persone. Luoghi come lo stadio di Wembley a Londra o quello degli Yankee di New York, lo stadio di Luz a Lisbona e innumerevoli altri, in aggiunta al notevole supporto offerto a più riprese al Comitato Olimpico di numerosi paesi. E che adesso si riscopre appassionato, sulla base di un sogno assai tangibile, alla più importante forma della cosmologia applicata allo studio dell’Universo, in cui ogni punto arbitrariamente selezionato si ritrova equidistante dal centro dello spazio osservabile. In altri termini una sfera, costruita nel più puro materiale dei sogni assieme al cemento, l’acciaio ed il silicio dei componenti informatizzati.
Prossima al completamento strutturale in questi giorni, sebbene ancora ragionevolmente distante dalla collocazione degli impianti audiovisivi interni ed esterni, l’ingegnosamente ma semplicemente denominata MSG Sphere sorge quindi dietro il parcheggio stesso del succitato complesso ispirato alla Serenissima di proprietà dell’eponima compagnia, con la massa che deriva dal suo diametro di “appena” 120 metri, ed un costo stimato finale che parrebbe essersi assestato sul 1,8 miliardi di dollari allo stato attuale, dopo una serie di aumenti esponenziali a partire dalla cerimonia d’inizio dei lavori del settembre 2018. Il che non dovrebbe d’altra parte sorprendere nessuno, quando si considera l’eccezionale portata dell’edificio e quello che dovrebbe giungere a rappresentare, dal momento stesso della sua inaugurazione, per gli occhi e le orecchie di coloro che saranno tanto fortunati da varcare il suo ingresso: nient’altro che un auditorium o sito multimediale per la conduzione di varie tipologie d’eventi, ma dotato di caratteristiche letteralmente prive di precedenti in questo particolare ambito infrastrutturale pregresso. A partire dal titanico schermo concavo al LED, con una superficie complessiva di 15.000 metri quadrati, disposto come il soffitto di un planetario tutto attorno e sopra i 21.500 posti a sedere nella parte bassa della sfera, con una risoluzione di 19.000×13.500 pixel, molto semplicemente il più grande e performante al mondo. Coadiuvato da un’ulteriore monitor stavolta convesso, costituito da un’intera exosfera che dovrà racchiudere quella interna, proiettando ogni tipo d’immagine promozionale in mezzo al cielo già sfolgorante di Sin City stessa. Così da poter ricreare in modo virtuale qualsiasi tipo di scenario ed ambiente, luogo, immagine o momento storico della Terra. E tutto questo prima ancora di sedersi nel posto prenotato e mettersi, assai appropriatamente, ad ascoltare…

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L’agiatezza preistorica del più elevato condominio scavato nella roccia dell’Arizona

Sin dai tempi più remoti nella storia dell’uomo, si è trattato di una situazione complicata da organizzare: la convivenza nelle anguste circostanze, all’interno di un’abitazione plurima, costruita in base a logiche di praticità, convenienza ed una sorta d’ineffabile strategia situazionale. Laddove noialtri siamo, prima ancora di qualsiasi altra cosa, esseri inerentemente territoriali, che continuano a combattere istintivamente per potersi garantire l’accesso a determinante tipologie di risorse, inclusa la pace, la solitudine, il silenzio. Inframezzate da difficili momenti di confronto, le assai rinomate riunioni condominiali, in cui il bisogno della maggioranza dovrebbe anteporsi a quello dei singoli, benché tanto spesso finisca per succedere che vincano coloro che gridano più a lungo, con più enfasi o brandiscono la clava dalle dimensioni più grandi. Così come teorizzato dal famoso presidente, succeduto all’assassinato predecessore William McKinley, i cui occhiali e baffi avrebbero finito per diventare iconici, così come l’intera e nutrita antologia delle sue significative citazioni. Finché nel 1906, con quello che sarebbe passato alla storia come Antiquites Act, Theodore Roosevelt in persona designò i primi quattro Monumenti Nazionali degli Stati Uniti: lo svettante massiccio della Devils Tower, il pueblo e i petroglifi di El Morro, la Foresta Pietrificata dagli antichi depositi di legno geologicamente mutato e lo svettante, intrigante, misterioso Castello di Montezuma. Forse il più significativo esempio di un appellativo poco fortunato, non trattandosi nello specifico di una fortificazione con finalità primariamente militari, né avendo alcunché a vedere con la storia, la mitologia e l’esperienza pregressa del popolo degli Aztechi ed i suoi celebri sovrani.
Collocato a ridosso della Verde Valley nell’esatto centro dell’Arizona, ad un’altezza di 27 metri lungo le pendici verticali di uno svettante pendio calcareo, l’edificio rappresenta il singolo più significativo esempio del tipo d’insediamento scavato nella roccia dall’ancestrale cultura dei Sinagua, probabili predecessori delle tribù native degli Hopi, il cui nome odierno significa “Popolo a modo”. E di atteggiamento accomodante dovevano possederne parecchio, gli originali costruttori di una simile località di appena 381 metri quadri, abitata a suo tempo da una quantità stimata tra le 30 e le 50 persone stipate in appena una ventina di stanze. Con una comunione d’intenti ed ampia quantità di compromessi, evidentemente giustificati dai vantaggi concessi dalla particolare posizione strategica di un simile palazzo ante-litteram, edificato a partire dal 1050 d.C. e per un periodo di diversi secoli, finché nel 1425, per ragioni tutt’ora non del tutto acclarate, venne improvvisamente abbandonato. Pur continuando a mantenersi ragionevolmente intatto, per la sua inerente protezione dagli eventi atmosferici e la complessità necessaria a raggiungerlo e saccheggiarlo, nonostante fosse già successo almeno un paio di volte nel corso del XIX secolo, prima della sua nomina presidenziale e l’inizio delle operazioni di restauro. Arrecando danni irreparabili ed affrettando notevolmente processi entropici, di una delle più importanti testimonianze lasciate da un popolo precolombiano, nonché l’evidente prova che significative difficoltà potessero aguzzare l’ingegno, anche allora, mentre la mente si affrettava a elaborare una possibile soluzione.
In un significativo capovolgimento delle legittime aspettative, infatti, il principale nemico dei Sinagua (letteralmente: “Senza Acqua”) stabilitesi in questa fertile valle sarebbero stati proprio gli straripamenti occasionali del fiume Beaver, con conseguente e reiterata distruzione dei propri spazi e moduli abitativi. Finché a qualcuno d’intraprendente, con l’autorevole sostegno dei membri anziani del villaggio, non venne in mente la soluzione: mettersi a ricostruire per un’ultima e importante volta in posizione maggiormente elevata. Dove mai e poi mai, le infide acque avrebbero potuto raggiungere l’uscio delle loro case…

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